Pasquale Soccio e il convento di S. Matteo paterna presenza tra azione e contemplazione
Momenti di vita
Aveva 11 anni, quando, accompagnato dalla mamma e dalla sorella, il 6 novembre 1918, entrò nel convento di S. Matteo. Il giorno precedente, insieme ai compagni, aveva percorso, con canti e bandiere, le vie di San Marco festeggiando la fine della guerra mondiale.
Fu accolto “in un’angusta saletta” dal padre guardiano, p. Antonio De Vita di Castelnuovo della Daunia. Il convento era rinato a nuova vita nel 1904 dopo la forzata chiusura di oltre quarant’anni dovuta alla soppressione degli Ordini Religiosi decretata dal nuovo governo dell’Italia Unita. La guerra contro l’Austria l’aveva privato delle sue forze giovani, tutte inviate al fronte. Anche la scuola di teologia, istituita nel 1905, era stata sospesa in attesa di tempi migliori. In compenso i lunghi e freddi corridoi godevano della insperata presenza di un piccolo vivace gruppo di studenti che frequentavano la scuola che a quei tempi si chiamava ginnasio; i docenti erano gli stessi frati del convento.
Il primo incontro con i frati fu rapido e formale. Il gelo che attanagliava il cuore di Pasqualino si sciolse quando il padre guardiano lo affidò al decano, Ernesto Castrillo di Pietravairano. Il decano era incaricato di sorvegliare l’osservanza delle regole e di riferire ai superiori eventuali problemi. Ma Ernesto Castrillo, adolescente di 14 anni, non era un burocrate; sorridendo prese la mano di Pasqualino e lo accompagnò a una stanza fredda e solitaria posta al piano superiore. La sera cenarono con “patate gelatinose, qualche oliva e un po’ di pane”, altro il convento non era in grado di offrire. Quando fu solo in camera, i suoi 11 anni apparvero pesanti, lontano dalla mamma e dai fratelli. Ma non era solo. Quando lo accompagnò, Ernesto Castrillo s’accorse della solitudine e forse del rimpianto che lo turbavano, e gli disse “Non temere, la mia cella è accanto alla tua: puoi bussare con le nocche e ti sarò accanto”. Ma il sonno tardava e il delicato materasso “curato dalle mie sorelle con strati di lana” non lo riscaldava. Poi arrivò il conforto: l’amico Ernesto batté con le nocche l’atteso richiamo, a cui il piccolo rispose, e il colloquio durò fin quando il sonno non lo sommerse.
L’episodio stabilì per sempre la salda e incondizionata amicizia con Ernesto Castrillo che durò per oltre quarant’anni fin quando, divenuto p. Agostino Castrillo, Ernesto fu eletto Vescovo di Bisignano e San Marco Argentano in Calabria dove morì il 16 ottobre 1955.
Non si sa se in cima ai suoi desideri ci fosse un futuro di religioso francescano; per ora Pasquale era solo un ragazzo che cresceva e scopriva il mondo. I suoi molti interrogativi, il sesso, la guerra, il dolore, la morte erano puntualmente affidati all’amico Ernesto di cui apprezzava la capacità di guardare il mondo, con tutte le sue contraddizioni, alla luce di un pensiero superiore.
San Matteo non è stato mai un posto comodo, ma a quei tempi si portava addosso, oltre alla sua veneranda età di un millennio, anche i guasti e le povertà del forzato abbandono di quarant’anni.
Il convento non era completamente disponibile. Il piano terra era abbandonato a rovi e serpi, con alcuni locali adibiti a ricovero del piccolo gregge del convento.
I frati abitavano nei piani superiori, condividendo gli spazi con guardie campestri, pellegrini e altra gente mandata dal comune di S. Marco.
Quanto ai “resti” che tutta questa umanità produceva e … lasciava “è meglio un bel tacere”, secondo la pudica espressione di Soccio in Materna Terra, pag. 74.
Comunque, il piccolo Pasquale, suo malgrado, rimase coinvolto nella faccenda, quando, nella primavera del 1919, in attesa dei pellegrini si pensò di ripulire i depositi dai “resti”. I ragazzi furono precettati, ma diversi rifiutarono di obbedire.
Pasqualino, forse per timore di punizioni o, più facilmente, per pura curiosità di nuove esperienze, cominciò a spalare con i piedi che sguazzavano ”in una melma nefanda il cui afrore mozzava il fiato”. Fece in tempo a uscire dalla fanchiglia e svenne.
Malgrado le condizioni durissime, il piccolo Pasquale, lungi dallo spaventarsi, sembra che si divertisse un mondo ad esercitare l’antica e nobile arte italica dell’arrangiarsi. Una scatoletta di cromatina per le scarpe, vuota e ben pulita, munita di un filo di lana che traeva la sua energia da un invisibile strato di olio, era la lampada che gli consentiva di leggere nelle interminabili sere invernali. Un barattolo, munito di maniglia in fil di ferro, funzionava da braciere. I ragazzi alla chetichella attingevano con parsimonia dal deposito di carbone posto in un sottoscala.
La cosa si riseppe e i superiori cominciarono a pensare a provvedimenti.
Poi tutto rientrò per l’ottima mediazione del solito Castrillo. Il barattolo con la sua esigua brace non era sufficiente a confortare le piccole mani di Pasqualino che si riempirono di piccoli rossi bozzi pruriginosi. I geloni lo accompagnarono in tutto il freddissimo inverno del ’19.
Durante il 1919 diversi frati tornarono dal fronte e la fraternità di S. Matteo si ricostituì: p. Gerardo De Rubertis di Montecilfone (CB) paese di lingua albanese, p. Gabriele Moscarella di San Marco in Lamis, p. Ippolito Montesano di Rignano. P. Dionisio Rendina, di San Marco in Lamis diede qualche lezione d’italiano al piccolo Pasquale il quale narra di aver appreso l’esatto significato della parola “astemio”, che aveva sempre accostato a “blasfemo”. Nel seguito della vita il prof. Pasquale Soccio ebbe sempre l’impressione che astemio e ateo significassero la stessa cosa!
La formazione di Pasqualino, dopo l’anno trascorso a S. Matteo, continuò nei collegi serafici di Rutigliano, Capurso e Castelnuovo. Intanto il suo amico, Ernesto, insieme a Raffaele d’Amico, si era trasferito ad Amelia per l’anno di noviziato.
Nel 1922 Pasqualino si trasferì a Biccari nel convento di S. Antonio per i due anni di ginnasio dove incontrò di nuovo Ernesto che, finito il noviziato, nella professione temporanea aveva assunto il nome di frate Agostino Castrillo. A Biccari Pasqualino, studente di quinta ginnasiale, si trovò a vivere nello stesso seminario con cinque chierici che stavano espletando il biennio filosofico e un anomalo novizio
L’incontro con frate Agostino affrettò il processo chiarificatore sul futuro della sua vita. … ero incerto se per realizzarmi potesse agevolarmi la vita religiosa o quella laica, così scrive nel suo prezioso libretto Momenti di vita con p. Agostino Castrillo.
L’amico già da qualche tempo aveva compreso il dilemma del ragazzo e volle aiutarlo: Non mi hai detto con insistenza in questi primi giorni che i tuoi migliori amici sono i libri, rilevando un certo rincrescimento per il molto tempo che si perde qui in chiesa, al campo e nella stalla?
P. Gabriele Moscarella, un frate dalle grandi aperture culturali, già da allora stimato predicatore e conferenziere, padre guardiano del convento, consigliato da frate Agostino, capì le necessità di Pasqualino e gli assegnò una camera fuori del seminario dove potesse leggere e studiare in serenità senza essere obbligato a tutte le pratiche tipiche della vita religiosa. L’amico frate Agostino, che viveva con intensità la sua vita religiosa, aveva compreso uno dei caratteri fondamentali dell’intellettuale puro, e glielo disse senza mezzi termini: tu, con questa tua vorace fame di leggere e di essere, saresti sempre uno scontento. Uno scontento del presente, un ricercatore sempre proteso verso altro. Già da quel tempo, racconta, la mia vita fu contrassegnata da una compagna ormai indivisibile: la solitudine. Già d’allora accettavo questo stato di emarginazione con rassegnata naturalezza di un destino.
Non poteva fare altro che leggere, leggere tutto ciò che gli capitasse fra le mani. In questo ebbe un ottimo aiuto in p. Gabriele Moscarella che gli mise a disposizione tutta la sua biblioteca letteraria: De Amicis e Serao, Capuana e Verga, Fogazzaro e Manzoni.
In precedenza aveva mandato a memoria la grammatica e la sintassi greca dello Zenone. Stessa cosa con La stilistica del Finzi, il suo libro preferito.
L’insegnante di greco era un rude e preciso frate di Rignano Garganico, p. Ippolito Montesano, il quale aveva capito che il ragazzo era un po’ più avanti degli altri. Nel frattempo Pasqualino, pur essendo alunno di quinto ginnasio, venne aggregato alla classe successiva, prima liceo, per le discipline di italiano, latino, greco e storia. Un bel giorno p. Ippolito assegnò un brano dei Dialoghi di Luciano munito di alcuni verbi irregolari. Il giorno precedente la rituale lezione di greco, p. Ippolito chiese a Pasqualino se avesse avuto difficoltà con i verbi irregolari. Il giovane scolaro rispose che tutto era andato liscio, al ché p. Ippolito gli impose di non dire nulla ai colleghi perché voleva sapere come se la fossero cavata. L’indomani, Pasqualino, combattuto tra il dovere di obbedire e i richiami della solidarietà, si confidò con frate Agostino, il quale gli consigliò di attenersi
alla proibizione. Pasqualino, allora, già esperto di sotterfugi di sacrestia, scrisse le frasi necessarie su due bigliettini che passò a fra Ugolino Achille e a fra Bartolomeo
Mesagna i quali fecero un figurone.
Padre Ippolito s’accorse di tutto e lo rimproverò, al che il giovane imbroglione rispose padre Maestro, io ho dato, ma non ho detto. Tutti risero, e uno dei beneficiari, fra Ugolino, concluse Roba da gesuita perfetto. Per la cronaca: fra Ugolino in seguito fu docente di greco molto competente e severo e fra Bartolomeo fu ministro provinciale. Quando p. Ippolito morì, nel 1987, Soccio gli dedicò un ricordo pubblicato in Azione Francescana, l’organo di stampa dei frati pugliesi.
Il 14 luglio del 1923, con la fine dell’anno scolastico terminò anche l’esperienza di vita francescana di Pasquale Soccio. Tornò definitivamente alla natia San Marco “per un infortunio visivo”. Il suo amico, frate Agostino Castrillo, si sarebbe trasferito a Molfetta nel convento della Madonna dei Martiri per iniziare il corso di teologia.
Passarono molti anni; il rapporto tra i due amici, anche se diradato nello spazio, si mescolava con le esigenze, le preoccupazioni, i dolori e le volute della vita reale; divenne un’amicizia adulta, profonda, che toccava i nodi più intimi e fondamentali dell’esistere.
Il 1934 fu l’anno della seconda decisiva svolta nella vita di Soccio.
Il suo male all’apparato visivo, nonostante il pellegrinaggio nelle cliniche oculistiche di Bari, Napoli e Bologna, lo aveva privato di un occhio lasciandogli l’altro gravemente compromesso. In pochi mesi aveva perso ambedue i genitori e un fratello emigrato in Australia. Intorno, il buio era molto più nero di quanto i suoi poveri occhi potessero percepire. In agguato: rinuncia e disperazione. Poi arrivò l’amico, da diversi anni residente a Foggia nel convento di S. Pasquale dove svolgeva il compito di segretario provinciale.
Padre Agostino lo ricompose nella sua dimensione di uomo responsabile usando le stesse parole che Soccio gli aveva detto quando, in forte difficoltà nella sua vita di uomo retto e francescano integrale, Castrillo aveva lasciato la cura dei giovani del collegio di Ascoli e si era trasferito a Foggia: Questa avventura, qualunque essa sia, va vissuta coraggiosamente, virilmente sino in fondo… Mi meraviglio di questa tua caduta, di questa resa senza aver combattuto sino in fondo. Soccio capì e visse la sua cecità come sappiamo. [...]
P. Soccio Parte I
powered by social2s
powered by social2s