
C’era, poi, la vecchia questione della dipendenza feudale del Regno di Napoli dalla Santa Sede. Le idee tardo gianseniste facevano breccia tra i vescovi, da sempre fortemente critici della esenzione dei religiosi ritenuti spesso estranei dalle problematiche pastorali dei territori. Si aggiungeva la politica giurisdizionalista del governo napoletano tesa a sottrarre i religiosi dalla direzione dei loro superiori istituzionali, e sottoporli alla giurisdizione dei vescovi e, in definitiva, a controllarne la vita e l’azione.
S’iniziò il 1 settembre 1788 col decreto con cui Ferdinando IV regolava nei minimi particolari la vita monastica. L’arrivo dei francesi, nel 1806, portò alle
estreme conseguenze la nuova mentalità: i religiosi erano inutili alla chiesa e pericolosi per la società. Tanto Voltaire affermava nel suo Dictionnaire philosophique prima della rivoluzione francese: i monaci sono pericolosi perché col voto di castità, non fanno i figli che servono alla Francia per ingrandire gli eserciti da utilizzare per le nuove conquiste coloniali. Nel Meridione d’Italia le cose si affrettarono col regno di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Nel mese di dicembre del 1806 Giuseppe Poerio, primo intendente della Capitanata e del Molise, convinto che “i religiosi agiscano subdolamente perché hanno presentimento di una vicina riforma” ordinò una minuziosa indagine sullo stato personale ed economico di monasteri e conventi. Nello stesso mese di settembre il vicario generale di San Marco in Lamis, don Carlo De Carolis chiese per iscritto al guardiano del convento di S. Matteo notizie sul numero dei frati e sulle rendite catastali del convento.
I francesi capirono l’antifona e, pur determinando la soppressione dell’Ordine dei Frati Minori, lasciarono aperto, insieme ad altre case religiose, il convento di S. Matteo. I frati furono sottratti alla giurisdizione dei loro superiori e messi alle dipendenze dei vescovi. Pur reputando inutili le corporazioni religiose, si preoccuparono della sorte degli individui rimasti senza casa e senza risorse. Designarono allora alcune case come conventi di “concentramento” per i frati rimasti senza dimora. S. Matteo non fu chiuso, e la sua fraternità crebbe