S. Matteo sul Gargano; caratteri particolari della devozione dei transumanti abruzzesi e molisani
Le transumanze praticate nelle località dell’arco alpino e nelle regioni appenniniche sono quelle definite “brevi” o “verticali” perché articolate in un numero limitato di chilometri e caratterizzate dalla discesa dalla montagna alla pianura.
Sono praticate in territori limitati, chiusi nelle valli alpine che spesso hanno difficili comunicazioni fra loro; di conseguenza mostrano forte configurazione localistica per la conduzione delle greggi, il tipo di pascoli, tecniche di lavorazione dei prodotti caseari, e, quindi, dalla grande varietà di qualità e gusti dei formaggi.
La transumanza delle regioni adriatiche dell’Italia centro-meridionale è del tipo “orizzontale” e “lungo”. È la grande transumanza che si articola in ben cinque regioni: l’Abruzzo, il Molise, la Puglia, la Campania e la Basilicata. Una massa enorme di animali, che in qualche anno ha superato il numero di 7.000.000, e di uomini si muove a settembre e a maggio su una rete viaria, i tratturi, di oltre 3.000 chilometri. Se per la transumanza verticale
... il “transumare” assomiglia, in maniera impressionante, al “migrare”, allo spostarsi insieme, in branco o in stormo, per cercare un luogo migliore, per scappare dall’inverno, per cercare cibo, per inseguire la sopravvivenza ...
per il transumante orizzontale è vera migrazione per la grande distanza dai luoghi di origine, per la difficoltà di conservare rapporti necessari con la famiglia, per la
necessità di convivere e condividere spazi e risorse con altre comunità di pastori provenienti da altre zone.
Molte comunità fra loro diverse per origine, dialetti, usanze, residenti nei luoghi più lontani e disparati, vivono per sei mesi ogni anno la stessa esperienza umana e lavorativa stabilendo nuovi rapporti mercantili, di lavoro e di amicizia, di reciproca conoscenza e di scambi culturali e religiosi; si formano nuove famiglie, si stabiliscono luoghi comuni di soccorso e condivisione. Tra Puglia, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata nasce quella che diversi studiosi chiamano La civiltà della transumanza che si articola all’interno di un mondo culturale divenuto aperto a tutto e sincretico e che comprende anche l’aspetto religioso.
La devozione a S. Matteo, se con tutti i pastori italiani ha un rapporto basato sul calendario liturgico e lavorativo, con i pastori e i contadini della dorsale adriatica meridionale ha assunto una ulteriore precisa caratterizzazione di stampo localistico che inventa nuove attribuzioni e rimandi tessuti da un immaginario popolare che vede nel dente offerto alla pubblica devozione qualcosa di funzionale in merito a precise necessità del mondo dei contadini e degli allevatori.
Quello con San Matteo sul Gargano fu vissuto, quindi, come un rapporto specializzato, aperto all’intera realtà del mondo agricolo e pastorale. La protezione del santo non ha come oggetto esclusivamente gli uomini, ma anche gli stessi animali.
Le pratiche devozionali verso il santo evangelista venerato sul Gargano sono un caso particolare: il santo non è solo il titolare di una festa liturgica che il calendario fa coincidere con la data canonica del ritorno delle greggi dai pascoli montani ma è il santo che entra nel vivo delle grandi, e spesso, dolorose vicende della vita quotidiana, personale, famigliare e lavorativa del transumante a cui sta a cuore la salute del corpo e la pace dell’anima, ma anche la salute degli animali e il buon andamento della stagione. È un rapporto ampio, profondo, totale.
Il Dente di S. Matteo: il Santo protegge dalle offese ricevute dagli animali
Probabilmente alla fine del sec. XV al santuario garganico arrivò la preziosa reliquia dell’apostolo Matteo tuttora veneratissima, un dente molare che la tradizione afferma essere proveniente da Salerno nella cui cattedrale si conservano le spoglie mortali del santo.
Non si sa con precisione quando e in quali circostanze la reliquia giunse sul Gargano. Il già citato Agostino Mattielli afferma che la portò un imprecisato cardinale che a quell’epoca aveva l’incarico di abate commendatario del feudo ecclesiastico San Giovanni in Lamis.
L’arrivo del dente dilatò l’interesse devozionale dei pastori abruzzesi verso il santo.
La parola “dente” indica per se stessa un rapporto necessario con cani e serpenti.
D’altra parte i morsi velenosi e la rabbia canina erano eventualità tutt’altro che remote nella vita dei contadini e dei pastori.
L’olio della lampada che ardeva nel sacello del santo fu usato per benedire le persone morse dai cani arrabbiati. Francesco Gonzaga nel 1587, così riferisce della devozione a San Matteo:
Si quispiam ex circumvicinis rabie laborans sumpto ex lampade, quae in sacello B. Evangelistae Mathaei continuo lucet, oleo laesam partem linierit, ex tempore ab huiusmodi passione liberatur.
Anche il domenicano toscano Serafino Razzi, in visita canonica ai conventi domenicani del Gargano nell’autunno del 1576, così scriveva:
E più in alto un altro miglio trovammo San Matteo: Badia del signor Giovan Vincenzo Caraffa, cavaliere di Malta, e priore di Ungheria, ove sono liberati gli Indemoniati, e coloro che sono morsi da i cani arrabbiati sono sanati.
Nel dente di S. Matteo i pastori abruzzesi riconoscevano qualcosa di già noto, a cui erano avvezzi come elemento che emergeva dall’ordinario della vita e dalle profondità della loro storia.
Già prima che dal Gargano si sviluppasse la devozione per il dente di S. Matteo, in Abruzzo si invocava S. Domenico di Cocullo nei casi di morsi di serpenti e cani arrabbiati. Inoltre in tempi precristiani, la funzione protettiva risaliva alla dea Angizia, nome di cui non si sa con precisione se si riferisse a una dea o piuttosto a una località, probabilmente un bosco, il lucus Angitiae, intensamente infestato da serpenti velenosi resi innocui dall’arte incantatoria che i Marsi avevano appreso dalla loro antenata Circe figlia di Angizia.
Naturalmente anche tra i pellegrini che salivano a S. Matteo i primi denti da cui si chiedeva protezione erano quelli dei cani e dei serpenti, ma il paesaggio rurale era pieno di altri denti altrettanto pericolosi: cavalli, asini, maiali, lupi e orsi minacciavano, mordevano, scarnificavano uomini, donne e bambini, come è documentato in una lunga sere di ex voto pittorici conservati nel santuario, in cui allo smarrimento impotente dei protagonisti e degli astanti fa rassicurante contrappunto l’immagine serena del santo.
Riccardo Bacchelli ricorda con gusto una di tali tavolette visitate intorno agli anni trenta. La scena lo impressionò e le dedicò una novella: Agnus Dei.
Al fonte gli era stato imposto il nome di Matteo, che gli giovò quando all’età di dodici anni fu addentato da un ciuco intiero di grande statura, magro come la rabbia e la lussuria e la vecchiezza che l’avevano scarnito sotto il basto e fra le stanghe, sotto il sole e fra la polvere del Tavoliere. I denti lunghi e gialli erano arrivati all’osso del braccio, a metà fra gomito e spalla; e le legnate
a ruota pareva che servissero soltanto a levar la polvere dalla schiena affilata dell’animale, e a fargli stringere vie più le mascelle. Allora intervenne San Matteo, protettore della rabbia degli animali, a disserrare quei denti, quando anche l’osso del bambino cominciava a sgretolarcisi. La scena si vede dipinta in un ex-voto, dove il sangue umano spiccia al naturale e la ferocia ciuchesca è parlante. Pende con altri molti nel convento di San Matteo sopra San
Marco in Lamis.
Verso la fine del sec. XVIII, p. Michelangelo Manicone testimoniava che
La chiesa è un Santuario celebre, perché vi si conserva il Sagrato Dente del Gloriosissimo Apostolo. Tutte le persone da animali rabbiosi morsicate vengon qua a prostrarsi dinanzi alla Statua del Santo, e dinanzi al Dente, ed a sciorre i voti, ond’esser dalla terribile rabbia liberati. Quindi la gran confluenza di tutti i popoli del Gargano, della Pianura Dauna ed anche degli Irpini, e de’ Frentani.
Nella stessa opera riferiva che le pratiche devozionali spesso erano inficiate da elementi superstiziosi, per cui raccomandava ai pellegrini di esporre i loro malanni ai medici e ne seguissero le prescrizioni e poi, guariti, si recassero in pio pellegrinaggio per ringraziare il santo. Fino al 1965 nelle vicinanze del convento di S. Matteo esisteva un pozzo privo d’acqua in cui si buttavano le carcasse dei cani arrabbiati.