Ricordo di p. Doroteo Forte
Sembrava una quercia. Nonostante gli anni, aveva conservato la sua posizione eretta, lo sguardo ben fisso negli occhi dell’interlocutore; il passo leggermente strascicato su piedi larghi e ben muniti gli dava un incedere ondeggiante ma sicuro.
Il viso ornato di perpetua smorfia tradiva i suoi sentimenti verso un mondo che non lo convinceva completamente, ma che, nonostante gli anni, lo divertiva ancora.
Si diceva un uomo del passato, e credeva veramente di esserlo. Ma guardava il futuro e faceva progetti come se dovesse vivere in eterno. Poi se n’è andato in pochi mesi di malattia.
Qualche settimana prima avevo trascorso con lui qualche ora. La gioia di rivedermi gli saliva da tutti i pori. Fece sforzi immani per alzarsi dal letto, indossare l’abito religioso, completo di cingolo e cappuccio, e sedersi su una sedia di fronte a me. Anche dinanzi alla morte non rinunciò a gustare la vita, né all’orgoglio di essere francescano, ben cosciente che l’esistenza terrena, i ruoli ricoperti, il bene fatto, tutto, non era altro che grazia.
E i difetti? Certo, anche i difetti. Ma li viveva con l’ingenua cortesia del giullare che non sempre trova le parole acconce; oppure li esorcizzava con innocue sottolineature
della bocca che s’accentuavano quando i discorsi diventavano solenni o definitivi, o invitanti, o paradossali, o grotteschi.
Di lui fu detto che era un tradizionalista. Ma certo non di quelli che affidano alla stolida ripetizione di atti le proprie insicurezze, le pigrizie e l’incapacità di guardarsi intorno, di percepire i movimenti e le variazioni della vita, di leggere i segni dei tempi. La sua tradizione si chiamava abito francescano, inteso come cultura, capacità di leggere e interpretare il mondo, metodo originale di esaminarsi e di progettare. Era ben cosciente che otto secoli di storia francescana hanno lasciato segni di cui a nessuno è consentito di non tener conto.
Ebbe la ventura di entrare nell’Ordine Francescano in tempi duri ma privilegiati; era il 1926, meno di trent’anni dalla ricostruzione, avvenuta nel 1897, della Provincia Francescana di San Michele Arcangelo in Puglia dopo la parentesi delle soppressioni ottocentesche. Fu allevato al culto della storia dei padri, da cui attinse la consapevolezza del ruolo svolto dall’Ordine Francescano nei secoli, insieme all’orgoglio di appartenervi. I suoi maestri erano stati i protagonisti della ricostruzione. Col senso del dovere, gli trasmisero il suo caratteristico lucido entusiasmo creativo, insieme all’italica antica arte dell’arrangiarsi, di inventarsi la vita, coniugata con sorprendente razionale freddezza nell’analizzare, nel far sintesi e nel proiettarsi in un futuro neppure troppo vicino.
Quando parlava di fatti e personaggi ormai lontani nel tempo, si commuoveva, ed era evidente il rammarico di aver perso qualche sillaba degli insegnamenti dei maestri.
Il predicatore
Cominciò la sua “carriera” come predicatore. Anche se il suo atteggiamento deciso, la chiarezza di vedute e la pulizia del suo eloquio presto gli aprirono le possibilità di una funzione direttiva nell’ambito della vita della Provincia Monastica, la sua vocazione restò a lungo quella di predicatore. Né al ricordo degli incarichi espletati dedicò mai molti spazi. Si sentiva soprattutto predicatore, che ogni tanto veniva prestato, complice la necessità, a questa o a quella incombenza.
Fin verso gli anni ’60 questa fu la sua attività principale. Toccò tutti i pulpiti pugliesi e molisani, con frequenti puntate in altre regioni. A quel tempo la predicazione era una cosa seria; obbediva a regole precise e non si confondeva con la lezione di teologia, o con la catechesi o con la conversazione. Al predicatore non era consentita l’espressione discorsiva un po’ sciatta del parroco di campagna, né l’asettica pulizia concettuale dell’accademico. Al predicatore si chiedeva robustezza di impianto, espressione articolata e chiara, dottrina sicura, capacità di porgere attingendo alla vasta gamma degli strumenti retorici, occhio aperto alle necessità dell’ora, vasta cultura letteraria, storica e filosofica.
Era normale che le prediche fossero interamente scritte e imparate a memoria.
Ci si formava analizzando le prediche di oratori famosi. Insomma, essere predicatori era un lavoro specializzato da prendere molto sul serio. Diversi frati si erano incamminati su questa via costituendo una sorta di collegio a cui si ricorreva per quaresimali, panegirici, settenari, novenari, tridui ecc. Alcune di queste figure sono rimaste a lungo sulla scena insieme a p. Doroteo: p. Gabriele Moscarella, p. Leopoldo Nardone, p. Pacifico Stragapede, p. Edoardo Novielli, p. Pancrazio Modugno, p. Mariano De Cata.
I modelli erano i grandi predicatori francesi e italiani dell’Ottocento: i domenicani Enrico Domenico Lacordaire e Giacomo Luigi Monsabrè, p. Gioacchino Ventura, Mons. Geremia Bonomelli, il francescano p. Agostino da Montefeltro e soprattutto il barnabita p. Giovanni Semeria. Di costoro si apprezzavano, oltre alla cultura e all’affascinante eloquenza, l’apertura verso i problemi sociali e politici, nonché la capacità di dialogare col mondo della cultura.
P. Doroteo ha vissuto con forte convinzione il suo ruolo soprattutto nel drammatico periodo della seconda guerra mondiale e in quello postbellico caratterizzato da forti passioni civili e grandi contrapposizioni ideologiche. [...]
P. Doroteo Parte I
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