Il Gargano, il turismo e il convento di S. Matteo

Il convento di s. Matteo a S. Marco in Lamis
Il convento di s. Matteo a S. Marco in Lamis
Intanto, cresceva intorno al Gargano un interesse finora sconosciuto: turisti tedeschi e austriaci avevano scoperto le spiagge della costa settentrionale. I pellegrini continuavano ad affluire sempre più numerosi da tutte le regioni d’Italia diretti alla Grotta di S. Michele. S. Giovanni Rotondo era sempre più visitata da gente attratta dalla straordinaria figura di p. Pio da Pietrelcina. L’incipiente motorizzazione di massa incoraggiava le famiglie alle uscite domenicali. Il periodo della ricostruzione e della rinascita era terminato. La gente cominciava ad avere una visione
della vita più sicura e tranquilla. Non si parlava ancora di turismo di massa, ma tutto questo movimento di nuovo genere poteva essere inteso, per ciò che riguardava il Gargano, come richiamo alla modernizzazione e a una migliore condizione di vita. Emergeva, in pari tempo, in qualche ambiente più avveduto la necessità che le popolazioni garganiche acquisissero una più profonda consapevolezza di ciò che l’uomo garganico è ed è chiamato ad essere.
L’inaugurazione della mostra bibliografica del 1967 sul Gargano fu l’occasione per parlare del Gargano anche in termini futuristici. Lo scrittore Giuseppe Cassieri, a cui fu affidato il discorso inaugurale, tratteggiò il tema in termini preoccupati avendo percepito che da tutto il progresso socio-economico in atto già traspariva l’odore del nuovo consumistico e che il rapporto tra il ‘vecchio’ e il nuovo non sempre è positivo.
Il pericolo dello svuotamento di valori e di aperture di strade di cui si conosceva poco fu il tema della sua conversazione inaugurale della Mostra del Libro sul Gargano. La lunga storia del convento, il suo radicarsi nel territorio, il suo incarnare l’idea di una continuità salda e feconda, fu inteso come “Il margine di sicurezza” che bisognava garantire. D’altra parte l’idea è sempre rimasta attaccata addosso al convento come segno di identità.
Un modo nuovo di intendere il Santuario
Convento di San Matteo-Il telonio-Foto del 2009
Convento di San Matteo-Il telonio-Foto del 2009
I timori di Giuseppe Cassieri non erano infondati. Ormai anche sul Gargano la gente si muoveva con le auto. S. Matteo, pur continuando ad essere meta faticosa di pellegrini, era diventato un luogo da godere: l’aria tersa e ossigenata, gli splendidi panorami e, nelle giornate terse d’inverno, la visione della Maiella innevata.
D’estate una birra fresca sul piazzale del convento era l’ideale per foggiani e sanseveresi resi ottusi da polvere e sudore.
Questo rapporto per così dire “ludico” con S. Matteo era una atavica eredità del popolo sammarchese che amava celebrare “fuori porta”, come dicono a Roma, raggruppato a piccoli gruppi sui pendii circostanti, i fasti della pasquetta. Gli artigiani, invece, devotissimi osservanti della ritualità del lunedì, non salivano a S. Matteo, ma preferivano la calda intimità del bar di Pietro Villani a Borgo Celano.
Mangiavano pane e “muscisca”, con prosciutto e robusto cacio pecorino, innaffiati dal dolce nettare dell’uva, il tutto accompagnato da un mirabile concerto di chitarre, mandolini, clarinetti e fisarmoniche di cui erano raffinati cultori.
Ma sul piazzale di S. Matteo si viveva un tempo più moderno. Ormai i campi andavano spopolandosi. I figli dei vecchi contadini erano diventati cantonieri e bidelli, operai e impiegati, professori, politici e funzionari dello Stato, tutti col loro bravo stipendio, le vacanze pagate e la giornata libera. Tutto era bello e positivo. Restava, intatto, il richiamo della foresta, degli ampi panorami, dell’aria fresca.
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Ci fu chi capì, e anche in questo fu l’inizio della modernità. Foggiani e sanseveresi, quelli di Apricena e Torremaggiore, molti da Barletta e Trani ecc., tutti sul piazzale di S. Matteo a gustare la pizza e una birra fresca.
La loro meta erano i chioschi delle famiglie De Giovanni e Milanese costruiti con tavole, lamiere e frascame nel bel mezzo del piazzale. I clienti si accomodavano all’aperto su lunghi banchi da cantina.
Anche il 14 aprile 1967, giorno dell’apertura del XIV Centenario della fondazione dell’Abbazia di S. Giovanni in Lamis, poi convento di S. Matteo, stessa scena: il Vescovo di Foggia sul palco, circondato da sacerdoti e fedeli, pregava e predicava; il coro dei giovani frati studenti cantava le lodi del Signore; a meno di cinquanta metri di fronte, ben altri canti si mescolavano con i Te Deum, e i fumi dell’incenso salivano al cielo insieme ai pesanti effluvi dei torcinelli. Tutto ripreso dagli scatti veritieri e irrispettosi dei fotografi.
La cosa era iniziata alla chetichella. Il sig. Giovanni De Giovanni da diversi anni con mezzi di fortuna aveva allestito un localino dove si custodivano bevande da distribuire ai pellegrini soprattutto nella festa di S. Matteo. La piccola struttura cominciò a crescere man mano che il piazzale si allargava col lavoro dei frati e i cantieri di lavoro. Dopo il 1967 arrivò anche il sig. Ambrogio Milanese con la stessa pensata.
Siccome anche i frati appartenevano alla specie antropologica dei clienti dei De Giovanni-Milanese, al momento la cosa non parve importante. Non passò molto che anch’essi capirono che il convento di S. Matteo non era più l’Abbazia benedettina dove il silenzio era il contenitore inviolabile dell’ora et labora. Il suo essere convento francescano aveva mutato una fisionomia durata molti secoli evidenziando la vocazione propria dei Frati: vivere in un mondo in cui i rapporti umani, benché complessi, cangianti e contraddittori, sono tutti necessari e ineludibili.
Per quattro secoli i frati di S. Matteo avevano vissuto in simbiosi con contadini, pastori, gente ricca e per lo più povera. Ma l’umanità della seconda metà del sec. XX non era più quella del XVI. Bisognava, quindi, entrare in dialogo col nuovo. Ma era un nuovo nato e cresciuto in un ambiente materialmente, culturalmente e spiritualmente diverso che, comunque interpellava con una sua legittimità, l’attenzione religiosa e culturale dei frati. Il seguito di questa storia è narrato nella parte terza di questo diario.