Fra Matteo Bibiani: ricordo
gennaio 2014
Nacque in un posto sbagliato, in un tempo sbagliato, da persone sbagliate. Ma Dio lo volle così! Era suo Figlio e basta. Non aveva antenati né antefatti a cui riferirsi. Era come una lavagna vuota su cui qualcuno poteva scrivere una storia.
E Dio la scrisse.
Mani pietose di suore lo accolsero. Non aveva un nome. E neppure il cognome, né paterno, né materno. Al momento del battesimo, in mancanza di tradizioni familiari e di indicazioni, la fantasia di qualche suora, o del celebrante, ricorse al calendario. In quel giorno, 2 dicembre, ricorreva la memoria liturgica di Santa Bibiana. Le poche sillabe del suo nome bastarono a costruire il cognome.
Fra Matteo fu chiamato Bibiani. Raccattarono il nome dalla festa seguente, San Francesco Saverio, l’apostolo delle Missioni. Fu chiamato così Francesco Saverio Bibiani. Nel seguito della storia, quando vestì l’abito religioso, il giovane Francesco Saverio si chiamò Frate Matteo, ma il vecchio nome, nella familiare forma di Ciccillo, gli restò attaccato addosso come una patente di autenticità.
San Francesco sulla piazza di Assisi, dinanzi al Vescovo, dopo aver rinunciato al suo nome, alla sua famiglia, alla sua eredità diceva: Ora potrò finalmente dire Padre nostro che sei nei cieli. Fra Matteo possedeva questa nuova nobiltà per diritto di nascita e fin dall’inizio era ben cosciente che l’unico suo Padre era quello dei cieli.
Questo l’inizio della vita di fra Matteo; ma anche il programma e la sintesi della sua vita.
Non che fra Matteo fosse un filosofo, ma questi pensieri gli erano presenti come elementi vitali in tutto il suo essere ed emergevano in tutto quel che faceva.
Coniugava in modo eccellente l’obbedienza, a volte condita di sofferta sottomissione,e finanche l’offensiva intrusione nelle sue debolezze, con la libertà interiore che gli consentiva di non reagire, di guardare oltre, di considerare la realtà in modo positivo. Aveva la capacità tutta contadina, rafforzata dalle sue molteplici dolorose esperienze, di capire istantaneamente cose e persone. Dava tutto se stesso agli altri. Di fronte ad atteggiamenti insinceri o interessati rispondeva col silenzio o con parole misurate e discrete signorilmente ricordando a sé e agli altri di essere l’ultimo, quello nato senza nome né cognome, che solo per grazia del Padre dei cieli si trovava in un convento francescano ed era quel che era.
Fu accompagnato, infatti, per tutta la vita dall’esigenza di ringraziare chi l’aveva accolto e riconosciuta la sua dignità di figlio di Dio. Si accollò volentieri i più umili servizi della fraternità. Fu questuante e stalliere, pulitore di corridoi e sagrestano, fu sguattero e portinaio, addetto all’approvvigionamento di legna da ardere, di frutta e verdura, carne e pesce. Il servizio più nobile era offrire alla venerazione dei pellegrini la Reliquia di S. Matteo. In questo mostrava tutto l’orgoglio del servizio nella casa del Signore. Quando espletava queste funzioni, mi veniva spontaneo pensare al bue e all’asino, i più poveri personaggi del presepio, tranquilli e ricchi della compagnia del loro Signore.
In effetti fra Matteo ha sempre vissuto con convinzione la sua povertà originaria trasformandola in vera ricchezza attraverso la collaborazione, l’accoglienza e l’amicizia.
A nessuno dei frati che si sono succeduti in questo convento fra Matteo ha negato il suo aiuto. Anche i giovani Chierici di Filosofia che negli anni 60 affollavano questo convento, nonostante gli scherzi a volte crudeli che gli facevano, usufruivano sempre della sua nascosta e pronta collaborazione. Copriva le loro monellerie con piccole bugie o facendo lo gnorri.
Avvertiva, edotto dalla propria, la povertà degli altri. Seguiva attentamente le notizie tristi date dalla Televisione. Parlava spesso e con grande sofferenza delle vicende di Sara Scazzi e degli altri adolescenti loro malgrado protagonisti di brutte cose. Dove meglio si esprimeva era nell’accoglienza dei poveri che spesso bussavano alla porta del convento.
Intorno al ’60 la povertà era grande. Molti uomini di San Marco raccoglievano nel bosco della Difesa frascame per gli usi domestici. Passavano tutti per il convento. Appoggiavano il loro fascio alla scalinata e si concedevano una sosta.
Spesso suonavano il campanello e chiedevano un po’ d’acqua. Qualcuno, più giovane e coraggioso, chiedeva anche un pezzo di pane. A nessuno fra Matteo fece mai mancare il suo aiuto e il suo sorriso continuando l’antichissima tradizione di assistenza dei bisognosi nobilitata letterariamente dal nostro poeta Joseph Tusiani nella stupenda poesia Lu Cummente.
Non bisogna, però, credere che fra Matteo concedesse il suo sorriso alla rinfusa e senza riserve. Se istintivamente era aperto all’accoglienza, altrettanto istintivamente, da buon contadino, si riservava il suo spazio di giudizio. Ricordo un gustoso episodio che voglio raccontarvi.
Nel 1978 venne, inaspettata, una giovane signora a consultare la biblioteca per la sua tesi di laurea. A quei tempi la biblioteca non aveva ancora un orario fisso né la strumentazione tecnica e umana necessaria. Per giunta io ero il responsabile di fatto della Parrocchia di Borgo Celano. L’arrivo della signora mi mise in difficoltà. L’aiutai nelle ricerche e nell’impostazione dello studio, ma, a un certo punto non fui più in grado di seguirla perché al Borgo si reclamava con urgenza la mia presenza. Non sapevo cosa fare per assicurare un minimo di presenza in biblioteca. Raccontai la cosa a fra Matteo pregandolo di scendere ogni tanto a vedere se tutto era a posto. Mi capì a volo. Al mio ritorno, la signora sprizzava di gioia e mi fece una lunga relazione. Ogni cinque minuti fra Matteo si presentava: Signora, sentite freddo?, voglio accendere la stufa? – Signora, vi porto un bicchiere d’acqua? – Signora, ho pensato che è tardi, vi porto un biscotto? E così via di seguito fino al mio ritorno. La studiosa raccontò, poi, al marito che a S. Matteo aveva avuto un’accoglienza straordinaria e un frate gentilissimo l’aveva circondata di premure. Quando tornò, volle consegnare a fra Matteo una lattina d’olio e una
damigiana di vino prodotti dell’azienda del marito.
Questo era fra Matteo: accogliente e servizievole, semplice e immediato, ma anche, come raccomanda il Vangelo, prudente come i serpenti.
Che dire, poi, dei suoi amici? Ne aveva dappertutto: a San Marco, a Rignano, a San Giovanni, a Sannicandro, a Foggia, a San Severo che lo riempivano di ogni ben di Dio. Gli amici erano la lunga mano di Dio che non abbandona mai i suoi poveri. Riceveva biancheria, scarpe e vestiti; gli donavano radio e televisore, orologi e altri strumenti. Quando gli chiedevi come avesse fatto per procurarsi tutto, rispondeva con un proverbio popolare: Chi ha la faccia si sposa.
La presenza di fra Matteo in questi cinquant’anni è stata essenziale per S. Matteo.
Con la sua dedizione continua e tenace, col suo innato ottimismo, col suo affetto alla casa era un perno importante nell’attività del santuario, nella vita della fraternità, e, perché no?, anche nella vita culturale di S. Matteo. Sempre pronto a saltare dalla cucina alla chiesa. Mai solitario, o imbronciato, o ribelle, o rivendicativo.
Era una sicurezza per tutti. Esprimeva un amore per la vita col gusto di chi sa apprezzare le cose piccole, che sa leggere i segni, sa stare con chiunque, sa misurare i caratteri e le tendenze, ha sempre i piedi per terra.
Gli inizi drammatici della sua vita si sono trasformati in indicibili ricchezze di fede e di umanità di cui sarà difficile dimenticarsi.
Grazie, fra Matteo, per l’affetto che ci hai portato, per il tuo servizio, per la tua sapienza di vita.
P. Mario Villani
S. Matteo 4 gennaio 2014
Ciccillo
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