Convento di San Matteo-Foto del 2009
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Questa stagione di felice ripresa fu interrotta dalle leggi soppressive del nuovo governo dell’Italia Unita.
I frati del convento di S. Matteo involontariamente posero le premesse perché il nuovo governo dell’Italia unita li circondasse di particolare attenzione. Nell’autunno del 1860, mentre l’ultimo re di Napoli, Francesco II di Borbone, era sotto assedio nel suo ultimo baluardo di Gaeta, nel convento di S. Matteo p. Bonaventura da Volturino, lettore di teologia, scriveva un opuscolo intitolato Napoleone III e l’Inghilterra in cui sosteneva che il cattolico Napoleone III si era venduto all’Inghilterra perché il protestantesimo antipapale potesse dilagare liberamente anche in Italia. Si facevano anche riferimenti non proprio benevoli al re Vittorio Emanuele II, al conte di Cavour e persino a Giuseppe Verdi per le sue opere immorali. Il manoscritto fu messo in un sacco di carte affidato a fra Domenico da Ischitella, sagrestano. Il 2 giugno del 1861 p. Bonaventura scrisse una lettera a un non nominato editore di Napoli chiedendogli di pubblicare il suo scritto. La
lettera non fu mai spedita. Lo stesso giorno in cui p. Bonaventura scriveva all’editore napoletano, a San Marco in Lamis succedevano fatti drammatici. Bande di briganti, al comando dei tre famosi capi, Angelo Maria Del Sambro, Agostino Nardella e Nicandro Polignone misero a ferro e fuoco la città [Approfondimento].
La reazione del governo fu dura.
Il convento di S. Matteo già non godeva buona fama presso le autorità governative; era reputato connivente dei briganti a cui spesso, così si diceva, offriva ospitalità.
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Era poi famoso per la sua devozione all’antico regime. Gli si attribuiva anche straordinaria capacità di propaganda basata sulla superstiziosa devozione a S. Matteo. Le devastazioni brigantesche diedero il destro per un’accurata ispezione nel convento di S. Matteo dove fu rinvenuto il sacco di carte di p. Bonaventura.
Da allora insieme a quello di Stignano, il convento di S. Matteo fu nelle permanenti predilezioni del governo. Il fatto che l’opuscolo manoscritto non fosse mai uscito dal convento per la stampa, e che non fosse stato reso pubblico, servì a p. Bonaventura per non finire nelle patrie galere, ma tanto bastò perché il suo nome fosse iscritto nelle liste dei sospettati a cui attribuire ogni sorta di disgrazia. A questi due conventi in seguito si aggiunse anche quello di Gesù e Maria in Foggia reo, a sua volta, di aver dato ospitalità al medesimo p. Bonaventura da Volturino.
Chi nei primi anni del nuovo governo si occupò di S. Matteo fu il prefetto De Ferrari, uomo dai modi spicci, che esprimeva appieno le convinzioni di moda nei circoli di riferimento. Gli era difficile, tuttavia, dare senso alla genericità delle affermazioni del decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861 che estendeva a tutto il territorio delle province napoletane quanto era stato stabilito nella legge Cavour-Rattazzi del 29 maggio 1855 “Cessavano di esistere quali enti morali riconosciuti dalla legge civile tutte le case degli Ordini monastici esistenti nelle Province
Napoletane…”. L’accavallarsi delle leggi e dei provvedimenti amministrativi, l’incertezza dei linguaggi, le contraddizioni delle leggi e l’evanescenza delle loro motivazioni, insieme alla loro impopolarità perfettamente percepita ma ferocemente negata, fecero il resto. Il fatto era che l’Italia, uscita unita dalle vicende risorgimentali, non aveva il coraggio di presentarsi tutta nuova rispetto ai regimi preunitari a cui era succeduta. Nei riguardi della Chiesa e dei fatti ecclesiastici aveva conservato costumi e malcostumi dei vecchi regimi: benché “liberi” cittadini italiani, i frati finivano sotto processo quando entravano nell’ordine, facevano la professione, venivano ordinati sacerdoti; ogni volta che venivano trasferiti ad altri luoghi e ad altri uffici ecc. Il governo, da parte sua, non sempre disponeva di politici e amministratori all’altezza dei bisogni.
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Convento di San Matteo-Foto del 2009
Nel 1863 il De Ferrari chiese al direttore della Cassa Ecclesiastica di Napoli di sopprimere il convento di S. Matteo, visto che i frati si erano resi rei di gravi violazioni delle leggi avendo ammesso alla vestizione religiosa e ai voti solenni alcuni religiosi senza il dovuto permesso dell’autorità politica. Si faceva riferimento anche ad eventuali provvedimenti penali. Dopo innumerevoli tira e molla, finalmente il ministro guardasigilli sentenziò che “Sulla base quindi di tali riflessi non parrebbe al sottoscritto di potersi applicare ai fatti come sopra il disposto dell’articolo su menzionato”.
A S. Matteo, quindi, né i frati avevano commesso reati punibili, né si riscontravano motivi per un provvedimento grave come la soppressione da eseguire prima che fosse approvata una legge istitutiva. La questione delle nuove “monacazioni”, nonostante il succitato responso del ministro guardasigilli, fu tenuta in gran conto da politici e funzionari per lungo tempo dando luogo ad episodi tragicomici come quello accaduto a Parma nel 1883, protagonista la madre superiora di S. Chiara accusata di aver ricevuto nell’istituto alcune postulanti senza aver la debita podestà. La madre superiora per difendersi non trovò di meglio che affidarsi all’on. Francesco Crispi. L’avvocato non ci mise molto per dimostrare che le accuse erano infondate. La stampa, sia liberale che cattolica, evidenziò la contraddizione tra Francesco Crispi, politico mangiapreti e convinto sostenitore della proposta di legge che sopprimeva gli ordini religiosi, e il Francesco Crispi avvocato a cui la maestà della legge richiedeva di misurare bene fatti e parole.
Convento di San Matteo-Foto del 2012
Convento di San Matteo-Foto del 2012
In seguito il De Ferrari tornò all’attacco chiedendo che i religiosi di S. Matteo fossero trasferiti il più lontano possibile dal Gargano. Le motivazioni erano le solite: i frati sono nostalgici del vecchio regime, la superstiziosa devozione a S. Matteo.
L’argomento principe era il solito: i rapporti con i briganti.
Comunque il De Ferrari arrivava troppo tardi. Le decisioni del luogotenente Eugenio di Savoia pubblicate con decreto del 7 luglio 1866 chiudevano la questione.
La nuova Italia aveva riesumato la vecchia idea della inutilità di frati e monache la quale, peraltro, era anche mal copiata perché andava ben oltre quella di sessant’anni prima, figlia della rivoluzione francese e del regime napoleonico. Questa riconosceva che qualche organizzazione ecclesiastica poteva essere considerata “utile” per il pubblico bene. Riconosceva anche che frati e monache, benché i loro ordini fossero privati di personalità giuridica, come individui e cittadini conservavano il vizio di mangiare, ammalarsi ecc. e, quindi, sarebbe stato più conveniente, per lo Stato, tenerli insieme dove potessero espletare la loro vita religiosa senza pesare sul pubblico erario.
Il 31 dicembre 1866, in seguito al decreto del 7 luglio 1866, i frati furono espulsi con l’impiego della forza pubblica. Fu concesso di portare con sé solo gli effetti strettamente personali. Tutto il resto, attrezzature varie, libri, archivio, biancheria, opere d’arte, animali, oggetti e provviste contenute nei vari magazzini e depositi fu incamerato dallo Stato e affidato a una commissione di “probi cittadini”. Spesso, chiusi i conventi, tutto questo materiale fu semplicemente dimenticato finendo preda di ladri e affaristi.
Il 25 giugno 1867 l’Amministrazione del Fondo per il Culto, affidataria dell’immobile, dopo approfonditi studi, concluse che dal convento di S. Matteo non avrebbe guadagnato alcunché. Decise quindi di cederlo al comune di S. Marco in Lamis perché realizzasse un’opera di interesse pubblico: ospizio di mendicità, scuole, asilo, ospedale ecc.