De profundis clamavi ad te, Domine: l’inizio di una nuova vita

Convento di San Matteo-Foto del 2013
Convento di San Matteo-Foto del 2013
Appena accaduto l’evento, la persona si ritrova sola, nuda e impotente in una povertà assoluta e senza speranza. Questo ‘ritrovarsi’, benché doloroso e sconvolgente, è tuttavia il primo momento positivo: il primo attimo di coscienza dopo che l’evento l’ha scaraventata in un mondo sconosciuto. Ora, riacquistato un nuovo scomodo equilibrio, la persona è in grado di percepire i dolori, di far l’inventario dei danni, di guardare se l’abisso in cui è caduta offre qualche via di uscita, se esiste da qualche parte un aiuto su cui fare affidamento.
È il momento in cui si ristabiliscono le relazioni. Il disgraziato si scopre solo, nudo e impotente di fronte agli eventi. Intanto si ritrova vivo, e questo è già un guadagno. Scopre, parimenti, di avere una forza nascosta, di riserva: è la forza di chiedere, di invocare, di rivolgersi, almeno col pensiero, a qualcuno che può molto più degli eventi. Questo è il momento dell’invocazione, a cui segue quello del ringraziamento. Nell’abisso del pozzo fiducioso invocai il tuo nome o San Matteo. Tu mi salvasti. A te la mia riconoscenza e la mia fede eterna. Così recita l’iscrizione della tavoletta n. 240. Non solo i sentimenti sono descritti, ma anche la situazione fisica dell’interessato, finito insieme ad un compagno in fondo a un pozzo.
Le alte murate e la solitudine del sito sembrano precludere ogni via di scampo.
Non si può non notare in questa iscrizione il riferimento non velato, addirittura una parentela letterale, col Salmo 130 De profundis clamavi ad te, Domine; la profondità del pozzo è l’estrema condizione dell’uomo, rimasto senza ricchezze, né orpelli, né possibilità alcuna. Ha perso tutto, gli è rimasta solo la vita, ma questa sembra priva di ogni possibilità razionale. Tutto intorno al povero disgraziato un alto muro non gli lascia scampo; la riacquistata coscienza acuisce il dolore; incombono l’ottusità della mente, l’insensata ribellione e la disperazione. La condizione umana non può essere più bassa. Poi l’estrema debolezza diventa forza di ringraziare per la vita preservata, forza di chiedere aiuto a Dio. L’unica speranza è ritornare nel seno materno dove in tutto fummo dipendenti dalla disponibilità e dall’amore degli altri, riacquisire la coscienza della propria piccolezza, tendere la mano: Nell’abisso del pozzo fiducioso invocai il tuo nome o San Matteo. La tavoletta votiva, così letta, diventa un’icona della vita, soprattutto quando il degrado spirituale fa scadere l’uomo a livelli infimi di ottusità mentale, di indifferenza al bene e al male, e di disperazione non avvertita.
Lo stato di incoscienza, come negli incidenti, può durare a lungo. Poi arriva il momento in cui un barlume di razionalità illumina l’esistenza umana e le rivela il suo vero stato. Ma questo è già il primo gradino di un nuovo esistere in cui si realizza il rinnovato desiderio di vivere. Questo è anche il tempo della grazia che dona il pius credulitatis affectus, primo lampo di vita a cui segue, ineludibile, il bisogno di consolidare questa nuova esistenza, di risalire dall’abisso del pozzo. Il momento descritto nella tavoletta votiva segna, il più delle volte, anche una nuova fase della vita del miracolato: quella della riscoperta di Dio nella propria vita.
Tornano alla mente le terzine iniziali del primo canto dell’Inferno in cui Dante narra di quel primo momento di consapevolezza, mi ritrovai, dopo che il mentis somnum lo ha portato a un lungo insensato vagare nella selva oscura, io non so ben ridir com’io v’entrai: tant’era pieno di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.
Quel primo momento di coscienza gli chiarisce la gravità della situazione, la pesantezza del rapporto ricattatorio che subisce da esta selva selvaggia e aspra e forte dalla quale è imprigionato e soffocato, dove è vissuto a lungo, ma da cui ora, se non fisicamente, è spiritualmente tanto lontano che il suo stesso ricordo gli è fonte di terrore, nel pensier rinnova la paura. Tant’è amara che poco è più morte.