La pietà popolare, un argomento controverso
Il periodo di preparazione del giubileo è stato anche il tempo della riscoperta dell’universo delle offerte votive e delle testimonianze di fede del popolo devoto.
Il discorso sulla pietà popolare negli ambienti ecclesiastici è ancora molto difficile.
Nonostante il diuturno lavoro di scoperta compiuto dagli studiosi laici di molte università e le aperture sempre più coraggiose di molta parte della gerarchia ecclesiastica, di liturgisti e studiosi di scienze sacre, molte espressioni della pietà popolare sono ancora spesso avvertite come un fuorviante e incomprensibile fardello. Il 19 dicembre del 1954 Réné Hamel sacerdote della diocesi di Parigi, direttore dell’Istituto di Spiritualità e studioso di chiara fama arrivò a San Giovanni Rotondo.
Dopo un viaggio avventuroso, fu accolto dalla cittadina garganica con un cielo plumbeo e l’aria gelida. Ci rimase male: abituato alle fredde brume del Nord, s’aspettava ben altro da questa terra che tutti descrivevano come luogo di eterna primavera. “Il mio primo contatto con San Giovanni Rotondo, scrisse, è avvenuto in una notte di gelo. Non andateci mai d’inverno”.
Calò in Italia con molte riserve su p. Pio, e, soprattutto, sull’italico entusiastico e sentimentale affidarsi ai santi. Non ci mise molto a capire che i luoghi comuni e i pregiudizi allignano anche nella terra di Voltaire. Constatò, e scrisse in onesta e sentita testimonianza, che la gente a San Giovanni Rotondo esprimeva una devozione soda e sobria che faceva dei sacramenti il centro della vita spirituale, non priva di sentimento ma “senza alcuna manifestazione teatrale”.
P. Pio, poi, era certamente un uomo straordinario, ma sembrava non accorgersene, travolto com’era dalla quotidianità di un ministero sacerdotale che a lui, uomo di Dio, chiedeva molto di più che ad altri.
La testimonianza del padre Hamel, comune a molti che si accostano per la prima volta al fenomeno dei pellegrini, ci introduce alla prima delle problematiche attinenti l’area della pietà popolare: quella della sua accettazione da parte di teologi e liturgisti e, in genere, da parte del clero e degli addetti alla pastorale.
La pietà popolare, di cui i pellegrinaggi sono parte cospicua, è stata per lungo tempo relegata fra le manifestazioni da guardare con simpatia, ma anche con diffidenza essendo un fenomeno che tende a svincolarsi da regole e schemi precostituiti, fortemente creativo sia sul piano della comunicazione che sul piano dell’adattamento alle più diverse esperienze esistenziali.
Anche ai nostri giorni, in cui esiste certamente una qualche volontà di riabilitazione, quando si parla della pietà popolare non si manca mai di aggiungere pesanti riserve: è necessario purificarla da espressioni superstiziose e condurla a forme più consone alla liturgia, più dense di contenuti biblici, più adeguate al linguaggio religioso moderno.
Le riserve risultano ampiamente giustificate dal costume religioso imperante nei tempi anteriori al Concilio Vaticano II caratterizzato da devozionismo intimistico, privatizzante e cosale.
Motivo non secondario di tale diffidenza è l’indubbio mescolarsi al fatto religioso di elementi apparentemente diversi e divergenti che fanno di talune espressioni della pietà popolare, come il pellegrinaggio, un qualcosa in cui è difficile far sintesi tra lo spirito di adorazione ed elementi a prima vista estranei: la storia e le particolari condizioni del gruppo che lo compie; il succedersi dei tempi e delle stagioni; particolari elementi naturali e cosmologici come montagne, fiumi, boschi, grotte; il realizzarsi di condizioni personali, familiari o sociali come decessi, incidenti, malattie, povertà e ricchezza, avvenimenti tristi e lieti della vita. L’adorazione o la venerazione ai santi appaiono fortemente mescolati e, spesso quasi sopraffatti da questi elementi. Sono, inoltre, espressi con forme e linguaggi spesso inadeguati e sospetti. In tutti i casi l’intenzione religiosa sembra soverchiata dal pathos esistenziale che l’accompagna.
Non ci meravigliamo che negli ultimi decenni le riserve si siano spesso mutate in “frettoloso accantonamento della pietà popolare come pretesa realizzazione
della riforma voluta dal Concilio” come viene giustamente rilevato nel primo Istrumentum laboris preparato per il sinodo dell’Archidiocesi di Foggia-Bovino.
Spesso nello stesso documento e in altri preparati per il sinodo si sottolinea l’urgenza di ridare alla pietà popolare il posto che le spetta al fine di aiutare il popolo cristiano a vivere con maggiore intensità i grandi momenti dell’esistenza cristiana quali il ringraziamento per i benefici ricevuti, la donazione di sé, il pentimento dei peccati e il cammino della conversione, la gioia dell’incontro con Dio e con i fratelli, la comunione dei santi, la maternità di Maria, il mistero della vita e della morte, la grazia del lavoro ecc.
In questo quadro è oggi più agevole parlare di pellegrini e di pellegrinaggi di quanto lo fosse ieri.
Pur allargando il campo a una discussione seria e costruttiva, molte ragioni addotte non attingono affatto né l’essenza né la forma della pietà popolare, ma riguardano semplicemente la propensione di buona parte delle sue espressioni a rientrare con certa difficoltà in uno schema pastorale fortemente strutturato, inquadrato intorno a poche idee, tenacemente organizzato e controllato da pochi centri decisionali scarsamente disposti ad aprirsi alla molteplicità delle esigenze personali, sociali, culturali, storiche e geografiche, o alla creatività di persone e di culture.
Anche per gli stessi santuari è da rilevare che per la prima volta i legislatori canonici si sono accorti della loro esistenza nella loro costituzione originale di chiese speciali dotate di una loro funzione insostituibile nell’ambito della pastorale sacramentaria, della catechesi, della tutela e gestione di beni culturali, della spiritualità e della pastorale in genere e con un necessario rapporto di tipo storico col territorio. Anche se avremmo preferito maggior coraggio da parte del legislatore, soprattutto nel tratteggiare i caratteri di accoglienza e di irradiazione propri dei santuari in rapporto al loro territorio, dobbiamo rilevare che i cinque canoni ad essi dedicati dal nuovo codice di Diritto Canonico sono pur sempre un bel passo avanti. Resta da notare che queste pregevoli novità navigano tuttavia in un clima di indistinzione anche formale, dove i concetti stessi di santuario e di rapporto con le realtà ecclesiastiche territoriali sono tutt’altro che definiti. Tale indistinzione in parte è dovuta a quella originale e un po’ ambigua configurazione
del santuario di realtà popolare, spontanea, e quindi tendente a percorrere cammini non facilmente disciplinabili, e, insieme, di istituzione, e come tale soggetta ad ordinamenti giuridici; è dovuta anche a una certa sommarietà di giudizio da parte di molti ecclesiastici prigionieri di una visione poco carismatica, poco universale, particolaristica ed esclusivamente giurisdizionale della Chiesa.
Detto questo, bisogna aggiungere che le diffidenze, le riserve, la relativa poca chiarezza di linguaggio e le difficoltà nell’affrontare i problemi, hanno ascendenze antiche e diversificate.
Il sacerdote milanese, Giuseppe Riva, presenta la sua pregevole raccolta di devozioni, Manuale di Filotea, stampata per la prima volta agli inizi del sec. XIX, con queste parole:ù
Il mondo, che vuol sempre dogmatizzare a modo suo, vantando come unicamente necessaria la divozione dello spirito, riguarda quali debolezze di mente illusa le pie pratiche che servono a dimostrarla ... Ma ben diverso è il linguaggio, che ci parla la stessa Sapienza. La verità con cui il Vangelo ci impone d’adorare il Signore, comprende tutte le pratiche della devozione cristiana; perocché desse sono gli effluvi che emanano naturalmente da quel balsamo misterioso che l’anima devota nasconde nel proprio cuore.
Il personaggio simbolico di Filotea fa da filo conduttore da San Francesco di Sales, attraverso la riflessione di Ludovico Antonio Muratori sulla regolata devozione dei cristiani, fino ai nostri giorni allo svolgersi del problema del rapporto fra liturgia e devozione, o, meglio, a quello dell’adeguata collocazione delle espressioni di pietà individuali, familiari o sociali nell’ambito del culto pubblico e ufficiale della Chiesa.
Le tendenze spiritualiste erano molto forti nella chiesa milanese della prima metà del sec. XIX, professate in circoli cattolico-liberali dove più tenacemente sopravvivevano
impostazioni di pensiero gianseniste alimentate, a loro volta, dalla recente occupazione napoleonica.
La critica alle esagerazioni della pietà popolare era però sorta molto tempo prima, nell’ambito del dibattito del Concilio Tridentino, e aveva raggiunto, attraverso il giansenismo, il suo acme negli ambienti illuministici prerivoluzionari. In gran parte era legittimata dalla sregolatezza dilagante nel costume devozionale e dall’indescrivibile lievitare di devozioni fantasiose e strane e di un costume religioso a volte molto discutibile. Urgeva quindi un momento di riflessione.
In Italia Ludovico Antonio Muratori era intervenuto, tra l’altro, su alcune intemperanze relative alla devozione all’Immacolata Concezione pubblicamente e ufficialmente esibite addirittura nel capitolo generale dei frati minori col votum sanguinis e fatte proprie dalla corte reale napoletana di Carlo III e poi da quella spagnola; era intervenuto anche sullo spinosissimo problema della moltiplicazione sconsiderata delle feste di precetto. Altri avevano animato il dibattito sullo stipendio delle messe. D’altra parte, quasi tutti i sinodi diocesani, dalla fine del sec. XVI a tutto il XVII, avevano all’ordine del giorno la revisione delle devozioni private e della iconografia sacra, la lotta alle superstizioni ecc.
Malgrado l’esistenza di una qualche volontà di riabilitazione, anche oggi quando si parla della pietà popolare non si manca mai di aggiungere pesanti riserve: è necessario purificarla da espressioni superstiziose e condurla a forme più consone alla liturgia, più dense di contenuti biblici.
Le riserve sulla pietà popolare si possono raggruppare in due tendenze.
La prima è quella di relegare la pietà popolare tra le manifestazioni da guardare con un certo democraticismo simpatico e condiscendente, ma anche con diffidenza per la sua propensione a svincolarsi da regole e schemi precostituiti e ad esprimersi in atteggiamenti fortemente creativi sia sul piano della comunicazione che sul piano dell’adattamento ai diversi richiami esistenziali. Un altro motivo di diffidenza è la sua ampia libertà lessicale che dà origine a veri e propri dialetti cultuali pieni di inflessioni localistiche, di notevoli scorrettezze formali, e spesso anche sostanziali, approssimative sul piano storico e biblico, piene di sentimentalismo a volte greve.
L’altra tendenza è quella di identificare l’adorazione in spirito e verità come una pura attività dello spirito, libera dal colorito linguaggio della quotidianità e della corporeità, degna di esprimere un amore a Dio purificato da interessi e sentimenti, definitivo e assoluto.
In effetti la critica a questa posizione spiritualista nasce con lo stesso cristianesimo: Cristo, infatti, è l’icona del Padre, colui che rivela il volto, i pensieri e i sentimenti
del Padre.
L’umanità di Cristo ha ridato sentimento ed emozione alla tensione verso Dio.
Ha quindi riconciliato l’adorazione con gli stati dell’uomo e la sua corporeità, il suo pianto e il suo riso, il piacere dell’incontro e il dispiacere della separazione. Il corpo è stato confermato nella sua dignità di soggetto di un linguaggio che eccede i suoi stessi limiti materiali:
Vocavisti et clamasti - scrive S. Agostino nelle - et rupisti surditatem meam; coruscasti, splenduisti et fugasti cecitatem meam; fraglasti, et duxi
spiritum et anhelo tibi; gustavi et esurio et sitio; tetigisti me, et exarsi in pacem tuamConfessioni.
L’umile linguaggio della materia assurge a sublime espressione dello spirito e i sensi incanalano un flusso di grazia quasi corporalmente percepita.
Bisogna rilevare che in altri ambiti culturali la “religiosità popolare” e gli oggetti votivi donati ai santuari già da lungo tempo erano oggetto di studi. A volte erano ritenuti rappresentativi della storia di un popolo che scampava la sua esistenza al limite della sopravvivenza a cui rimaneva solo la possibilità di rivolgersi a Dio con un dono piccolo e modesto. Erano, inoltre, reputati interessanti come documenti della evoluzione dell’esistenza quotidiana attraverso la molteplicità degli eventi: l’evoluzione dei costumi abitativi, personali e civili, ecc.
Questi studi, condotti soprattutto nelle università, per quanto parziali e fortemente ipotecati dalle ideologie correnti, ebbero il grande merito di svegliare negli ambienti religiosi un rinnovato interesse per un tipo di devozione che, per quanto carente e a volte scorretto, pur aveva una sua legittimità.
Ebbero anche il merito di inglobare negli stessi interessi religiosi tutte le “le testimonianze votive dell’arte e della pietà popolare”, come ricorda il Codice di Diritto Canonico all’art. 1234 par. 2, sia le più ricche e prestigiose, sia le più umili.
Il nostro santuario di S. Matteo in qualche maniera era già preparato a gestire il problema. Negli appunti precedenti si è ricordato come in occasione delle celebrazioni del XIV centenario della fondazione dell’abbazia di S. Giovanni in Lamis ci fu un importante intervento del prof. Giovanni Battista Bronzini che parlò dell’importanza degli studi delle tradizioni popolari. Quell’intervento, come si è ricordato, innescò un interesse diffuso anche per le testimonianze religiose di stampo popolare.
Si iniziò un’opera di recupero, di inventariazione, di analisi di tutto il materiale già raccolto e nello stesso tempo s’iniziò il recupero di altro materiale che poteva essere integrato nelle collezioni della biblioteca, arrivato dai luoghi più diversi.
Così furono impostate le raccolte di paramenti sacri antichi, di arredi liturgici, di stampe devozionali, di materiale relativo alla storia dei pellegrini ecc.