Esame di coscienza di un interventista
Di Gaetano Salvemini
Presentiamo ai nostri lettori un passo, inedito, del Diario 1922-1923 che sta per essere pubblicato integralmente nel volume delle Opere di Gaetano Salvemini edite da Feltrinelli (Scritti sul fascismo, II).
26 gennaio 1923
Se ritornassi al 1914-1915, ai mesi della neutralità italiana, con lo spirito arricchito dalle esperienze e maturato dalle delusioni di questi ultimi quattro anni, quale atteggiamento prenderei? Ecco una domanda, che spesso mi propongo, e a cui mi trovo sempre assai imbarazzato a rispondere. Per rispondere che ritornerei a volere l'intervento dell'Italia nelle file dell'Intesa dovrei poter esser sicuro di una delle due seguenti alternative: a) che sarebbe stato possibile a me e a Bissolati e a quel gruppo che la pensava come me di approfittare della nostra prescienza per esigere dal governo italiano più sicure garanzie per l'ora delle trattative di pace, in modo che l'atteggiamento del governo fosse nelle trattative coerente al nostro modo di pensare e non a quello dei nazionalisti; b) che l'attuale ordinamento dell'Europa è più suscettibile di essere corretto, migliorato ricondotto ai principi del lavoro, della pace, della solidarietà internazionale, che non sarebbe stato dopo la vittoria tedesca. Di fronte all'alternativa a) non oso prendere posizione positiva. Sarebbe stato necessario non solo che la prescienza fosse stata virtù di molta gente in Italia, ma anche che questa gente avesse avuto le stesse basi spirituali che avevo io, cioè che non approfittasse della prescienza per fare e preparare bricconate sonniniane anche maggiori; inoltre dovrei essere sicuro che le garanzie da noi chieste (quali? avere un ministro degli esteri nostro? sarebbe stato concesso?) sarebbero state mantenute lealmente fino alla fine; e finalmente dovrei essere sicuro che la buona volontà del nostro governo nelle trattative di pace non sarebbe stata travolta dalle cupidigie di tutti gli altri, come fu travolta quella di Wilson.
La realtà è che nella guerra l'autorità non può non essere concentrata, in maggiore o minore misura, ma sempre in larghissima misura, nelle mani dei generali e dei finanzieri: e questi, se riescono a vincere la guerra, non possono non avere mano libera nelle trattative di pace, e ne approfittano per fare la pace a modo loro, cioè per preparare nuove guerre, ed assicurarsi così la carriera e i profitti di tutte le operazioni necessarie alla preparazione delle nuove guerre. Quanto alla alternativa b) ricordo che il Presidente Masarick, nella primavera del 1921, mi diceva a Capri proprio questo: che l'Europa uscita dalla conferenza di Parigi, con tutti i suoi difetti, è migliorabile e perfettibile, mentre l'Europa riorganizzata alla tedesca sarebbe stata assai peggiore e assai più rigida.
Sarà, ma in questi giorni di malvagia brutalità del militarismo e del capitalismo francese nella Ruhr, non si ha la impressione che l'Europa di Versailles vada migliorandosi: piuttosto va precipitosamente peggiorando. Né si vede speranza di migliore avvenire: perché le organizzazioni operaie e i partiti socialisti e i gruppi pacifisti e internazionalisti sono ovunque stupidi, retorici, dottrinari, semplicisti, ignoranti, quando non sono più o meno inconsapevolmente imbevuti di pregiudizi nazionalisti; e i governi sono dovunque nelle mani dei militari e dei capitalisti, non preoccupati che dei loro affari immediati, e intenti solamente ad approfittare delle difficoltà altrui per fare i loro affari immediati. Né sembra che le cose possano mutare o migliorare, per ora; ed è discutibile se, al punto in cui siamo arrivati, [non] ci sia oramai più speranza di miglioramento, e se l'Europa non vada verso una spaventosa crisi di miseria e di barbarie, senza che forza di saggezza e di pentimento umano possa evitare più il disastro.
Tutta la nostra azione nello spingere l'Italia all'intervento e, durante la guerra, nel volere che la guerra fosse condotta fino alla vittoria assoluta, si fondò sulla illusione che i vittoriosi sarebbero stati generosi e saggi, e che le nazioni vecchie e gli stati nazionali nuovi avrebbero compreso l'orribile lezione della guerra e si sarebbero organizzati in un nuovo ordinamento mondiale pacifico e laborioso, in cui i vinti sarebbero entrati senza mutuazioni, senza rancori, eguali fra eguali.
La esperienza ci dimostra che nessuno ha imparato nulla, e tutti hanno dimenticato! Appena finita la guerra, i contadini e gli operai - che erano i più interessati a sorvegliare l'andamento della pace - non pensarono che a mangiare, bere, sposarsi, ballare, godere degli aumenti dei prezzi e dei salari e protestare contro i cosidetti responsabili della guerra, senza pensare alle condizioni della pace; i socialisti non pensarono che a sfruttare per le elezioni la protesta contro la guerra, e a sognare una rivoluzione che non veniva e che non poteva venire, ipnotizzati dalle leggende che erano sorte sulla Russia bolscevica, abbandonando senza controllo le trattative di pace, anzi rallegrandosi stupidamente che le iniquità della pace dimostrassero la inutilità della guerra e la incapacità della borghesia. I governanti, abbandonati a sé senza controllo, fecero quel che volevano, nell'interesse dei generali e dei capitalisti del petrolio e del ferro. Se io avessi avuto la prescienza, avrei dovuto prevedere tutte queste cose; né avrei potuto prevedere che la mia prescienza si sarebbe estesa agli altri, e che la mia propaganda avrebbe avuto altro resultato che quello di farmi odiare da un maggior numero di persone: a che cosa è servita la prescienza nella questione adriatica?
Dunque avrei dovuto prevedere che era illusione la “guerra contro la guerra”. I popoli non sono capaci di utilizzare la libertà per la pace: data la stupidità delle masse e la malvagità dei condottieri, la libertà delle singole nazioni non può non essere che la guerra, più o meno larvata, di tutti contro tutti, l'anarchia delle cupidità e delle scempiaggini. Il mondo non può essere unificato e pacificato che dalle imposizioni dei più forti sui più deboli, anzi dalla imposizione del più forte sui più deboli: così fece Roma; così ha fatto l'Inghilterra su un terzo della superficie terrestre e solo ... fino ad un certo punto.
Questa unificazione si sarebbe avuta certamente con la vittoria della Germania. Dal punto di vista economico sarebbe stata una grande organizzazione, che avrebbe ricavato il massimo vantaggio possibile da tutte le risorse mondiali: perché su questo campo i tedeschi sono indubbiamente maestri.
Il loro spirito organizzatore, non trovando più ostacoli politici, avrebbe avuto libera carriera; e sarebbe stato un aumento enorme di benessere materiale in tutto il mondo, o per lo meno in tutta Europa. Ma sarebbe stata la pace? Era possibile che la Germania sottomettesse non solo il continente europeo, ma anche riducesse all'impotenza l'Inghilterra e gli Stati Uniti e il Giappone? I militari tedeschi, dopo avere imposta alle potenze transmarine una pace di compromesso, che avrebbe lasciato loro il controllo dell'Europa e dell'Asia anteriore (più non potevano ottenere, nel massimo della vittoria) non avrebbero desiderato ancora di più? Non sarebbero stati costretti a battersi ancora con le potenze marittime non ancora assoggettate? Ammettiamo che dopo altri cinquant'anni di armistizi e di guerre la Germania fosse riescita ad unificare il mondo, sarebbe stato desiderabile ciò?
Molti impulsi oscuri e incontrollabili del mio spirito mi conducono a dire di no; ma ragionando con calma, il mio no minaccia di diventare sì. Per la grande maggioranza degli uomini - contadini, operai, povera gente che deve lavorare per vivere e che non ha ambizioni di preminenza sociale - la unificazione del mondo fatta dai tedeschi avrebbe significato pace, lavoro produttivo, benessere crescente in proporzioni geometriche. Nelle classi ricche, moltissimi avrebbero aderito al regime teutonico, si sarebbero tedeschizzati, sarebbero entrati a far parte della nuova classe-nazione dominante. Sarebbero stati danneggiati in tutto il mondo i medi e i piccoli borghesi intellettuali, che formano le “classi politiche” degli stati nazionali autonomi, dando gli ufficiali degli eserciti, i funzionari, i professori, etc. Molti di costoro sarebbero stati esclusi dagli impieghi per opera degli intellettuali tedeschi o sarebbero stati sottoposti al controllo di alti funzionari tedeschi o intedescati, avrebbero dovuto imparare il tedesco; avrebbero dovuto abbandonare, in maggiore o minore misura, le ideologie nazionali in cui sono stati educati. Ma sarebbe stato poi un gran male? Vale proprio la pena di prendersela calda per queste “classi politiche?”, le quali governano oggi gli stati nazionali liberi, e si dimostrano così indegne e così incapaci di governare? Dal momento che i popoli sono incapaci di vivere in pace, finché sono governati da piccole “classi politiche” nazionali, ringhiose, camorristiche, immorali, imprevidenti, che male ci sarebbe se la “classe politica” di un popolo più potente degli altri e meglio attrezzato intellettualmente degli altri, imponesse il proprio controllo politico e la propria direzione tecnica a tutte le altre? La libertà è, in fondo, una parola: che importa a me di essere in Firenze schiavo del fascista Tamburini anziché di un funzionario tedesco? Questi sarebbe certamente meno mascalzone, meno ladro, meno ignorante, meno brutale di Tamburini. Perché debbo preferire che il governo di Roma abbia come suo capo un artista da cinematografo, mezzo pazzo e mezzo delinquente, che porta il nome di Mussolini; anziché un massiccio, coscienzioso, serio, taciturno e rozzo viceré tedesco? Che male ci sarebbe se in molti dei nostri ministeri, al posto di direttori generali italiani, intriganti, ladruncoli, ignoranti, pelandroni, sciocchi ci fossero dei direttori generali bavaresi, o prussiani, o vestfaliani, metodici, seriamente preparati, coscienziosi, relativamente non ladri? I funzionari italiani non avrebbero speranza di diventare direttori generali; ecco tutto il guaio. Ma varrebbe la pena di preoccuparsene? Io non sarei professore di storia in una Università: il mio posto sarebbe preso da un tedesco; ed io sarei licenziato, o ridotto a insegnare storia in una scuola media, sotto la sorveglianza di ispettori tedeschi, che mi obbligherebbero a insegnare la loro storia, e non la mia: ne sarei seccato, mi rifiuterei, sarei ridotto alla fame, mi ammazzerei ma quanti non si adatterebbero volentieri? Quanti soffrirebbero realmente di questa condizione di cose? E varrebbe la pena di badare a questi irriducibili conservatori di tradizioni intellettuali di altri tempi; mentre i più si adatterebbero, e la grande maggioranza della popolazione vivrebbe meglio e in pace?
Conclusione: melius erat ei, se la Germania avesse vinto la guerra. E meglio sarebbe stato aiutare la Germania a vincere la guerra al più presto possibile, entrando in guerra al suo fianco fino dall'agosto 1914. Questa conclusione mi ripugna; non so dire perché:
c'è evidentemente nel mio spirito un residuo che si rivolta contro questa conclusione. Ma è un residuo irragionevole.
E arrivo a un'altra conclusione: che la mia prescienza intelligente, rendendomi incredulo nelle promesse di giustizia di Lloyd George, dei propagandisti franco-belgi e di altri consimili cerretani e la mia repugnanza inintelligente contro il dominio mondiale tedesco, rendendomi ostile all'idea di contribuire alla vittoria tedesca, e la mia convinzione che la guerra poco importa da chi fosse vinta, non avrebbe risolto nessun problema di giustizia, ma solo assicurato il diritto di prepotere al più forte, io avrei dovuto solo desiderare che la guerra desse luogo a una rivoluzione sociale, che spazzasse via in tutti i paesi le vecchie classi dominanti rivelatesi incapaci a garantire ai popoli da esse governati la pace e il pane.
Ma la mia prescienza mi avrebbe fatto sapere che questa rivoluzione non era possibile; e se fosse stato possibile estendere al resto dell'Europa il movimento bolscevico della Russia, questo fatto avrebbe rovinata l'Europa più assai che non abbiano fatto i malfattori della Conferenza di Parigi: meno che mai avremmo avuto pane e pace.
Dunque sarei stato neutralista; ma neutralista assoluto, nel vero senso della parola. Non neutralista provvisorio, in attesa di passare dalla parte dei tedeschi, come Croce e C.i; non neutralista irredentista e colonialista, cioè pronto a passare di qua o di là, secondo i vantaggi territoriali sperabili, come furono i nove decimi degli interventisti italiani; non neutralista rivoluzionario, cioè illuso nella possibilità di una benefica rivoluzione sociale attraverso le guerre, come i socialisti e gli anarchici; ma neutralista assoluto, come furono gli svizzeri, gli olandesi, i danesi, gli scandinavi, eco. Anzi neutralista più assoluto della massima parte di essi; perché i più fra essi, pur rimanendo politicamente neutrali, parteggiarono spiritualmente per gli uni o per gli altri. Io non mi sentirei di parteggiare; rimarrei, come l'asino di Buridano, incerto fra i due fasci di fieno. Il che vuol dire che, se avessi avuto la prescienza, sarei rimasto inerte, più isolato che mai, più detestato che mai, a fare più che mai la Cassandra inascoltata.
La prescienza o la troppa chiaroveggenza è nemica dell'azione. La grande massa degli uomini agisce sotto lo stimolo di sentimenti incoscienti, di bisogni immediati, di illusioni. E gli uomini politici debbono possedere una larga dose di spensieratezza, se vogliono essere capaci di agire. Tante volte, nella mia azione politica, mi è avvenuto di sentirmi paralizzato in piena lotta dal prevedere le conseguenze della vittoria, che sarebbero state diverse da quanto i miei seguaci speravano e credevano; e mi pareva di ingannarli, lasciandoli nella illusione; e perciò apparivo ad essi quasi assente dalla battaglia in cui essi erano convinti di battersi per me. Una certa dose di chiaroveggenza è necessaria all'uomo politico, perché egli possa scegliere senza errore il fine della propria azione; ma una chiaroveggenza troppo larga è causa di debolezza e di inerzia. Non c'è linea di condotta che non abbia i suoi vantaggi e i suoi svantaggi: l'uomo politico deve sceglierne una, quella che gli sembri meno svantaggiosa o più vantaggiosa, e procedere vigorosamente per quella; sviluppandone e sfruttandone gli utili, limitandone i danni via via che si presentano, senza anticiparne la preoccupazione, affrontandoli alla giornata. La scelta intelligente della via fondamentale esige una dose notevole di chiaroveggenza, e forse è dovuta in buona parte a spinte inconsapevoli, che vengono a galla dall'oceano ignoto del nostro subcosciente. E forse c'è nel gioco politico un fenomeno analogo a quello che è formulato nella legge delle probabilità: alcune scelte si trovano a corrispondere alle correnti predominanti, mentre altre non corrispondono, a caso, senza merito speciale nella intelligenza di chi ha fatto la scelta. Anche nel commercio spesso è la fortuna che fa la ricchezza. La politica è come il commercio. E l'uomo politico, che non sa rischiare, che non ha una fede cieca nella propria fortuna, che vuol vedere troppo chiaro, che vuol prevedere troppo minutamente l'avvenire, è destinato alla sterilità.
Gaetano Salvemini