Il testo che offro parla di Giuseppe Antonio Borgese (https://www.garganoverde.it/scrittori/g-a-borgese.html), ma lo ho inserito nella cartella dedicata a Gaetano Salvemini, altro esule in America a causa del fascismo. Il testo proposto lo ho trovato sul mio PC; ho cercato la fonte, per inserirla, ma ho trovato solo questa, che riporto. Borgese conobbe Joseph Tusiani (https://www.garganoverde.it/incontro-con-g-a-borgese.html) |
Fonte: www.lavocedinewyork.com di Carmelo Fucarino
Giuseppe Antonio Borgese in America: pensiero e azione di un esule antifascista
Gli Italiani hanno dato agli USA moltissimo in rapporto alla popolazione, ma hanno anche ricevuto altrettanto. In questo periodo mi è capitato di incontrarmi idealmente con due giganti che hanno vissuto due vite segnate da un netto spartiacque di un soggiorno negli USA. Diciamo soggiorno con quel che comporta inserirsi in una cultura assai diversa, ma in realtà si trattò di un esilio, più o meno volontario e imposto dalla dittatura. Fu una fuga diversa da quella dei milioni di poveracci con la valigia di cartone che partirono a cercar fortuna, con l’incentivo e l’incoraggiamento dello stesso Governo del tempo. Questa ondata migratoria fu assai diversa in quanto non resa necessaria dalla fame, ma dalle persecuzioni fasciste, e soprattutto perché portatrice di una profonda cultura italiana che hanno messo a disposizione del paese accogliente. Fu anche un’esperienza diversa da quella di Calvino che si manifestò nelle sue Lezioni americane. Sei proposte pe il prossimo millennio (Milano, Garzanti, 1988), tenute ad Harvard nel 1985 come Poetry Lectures, di lui che divenne Un ottimista in America (1959-1960).
Mi hanno scosso interiormente per le loro vicende umane, politiche e culturali due giganti siciliani, don Luigi Sturzo di Caltagirone e Giuseppe Antonio Borgese di Polizzi Generosa (12 novembre 1882 - Fiesole 4 dicembre 1952). Siamo nella piazza italiana dei fuorusciti che per costrizione o volontà o per successo artistico, vivessero in USA, chi nella speranza e nella realizzazione di un ritorno, quella interiore “nostalgia”, chi in una permanenza definitiva. Fra questi ultimi quel discusso Lorenzo da Ponte, che diede l’avvio alla Casa Italia della Columbia University (vedi lo splendido saggio di Barbara Faedda associated director of the Italian Academy for Advanced Studies at Columbia University, From da Ponte to the Casa Italiana, Columbia University Press 2017). Fu una grandissima parte della cultura liberale e democratica che ebbe la possibilità di continuare la propria attività, di rinsanguarla in una perfetta simbiosi con quella libertaria del Nuovo Mondo, quel popolo dei nostri grandi, come Salvemini, Caruso, Paganini, ma anche l’altro siciliano Benedetto Civiletti che adornò New York di glorie italiane con il suo Monumento a Giuseppe Verdi.
La sua biografia è strabiliante e ancor più assordante è il silenzio che ha gravato e grava sulla portata, la complessità e profondità della sua opera, eccettuati la stima e l’amore sconfinato di Leonardo Sciascia (per tutti, Ciò che insegna la sua fede letteraria e politica, in Atti del Convegno su Giuseppe Antonio Borgese, Polizzi Generosa, settembre 1982). Da giovane me lo ricordarono e lessi il suo Rubé, rivoluzionario e apripista di una nuova stagione letteraria della cultura siciliana, che per il numero di protagonisti possiamo definire tout-court italiana, se si considera il plotone che va dalla triade Verga Capuana De Roberto, a Pirandello, da Brancati, a Vittorini e Quasimodo, fino a Tomasi, Sciascia, Consolo e l’ossessivo Camilleri, per citare i sommi. Mi limito soltanto ad invitare a scorrere la bibliografia di Borgese, tra la sua attività di giornalista del Corriere della sera e quella di professore di Estetica e Storia della critica, appositamente per lui creata presso l’Ateneo di Milano dopo l’esperienza di docente di Letteratura tedesca alla Sapienza di Roma nel 1910.
Nel luglio del 1931, a 48 anni, si imbarcò per gli USA, ove accettò l’incarico di visiting professor a Berkeley. Ormai il clima intorno era diventato rovente, a maggio suoi allievi erano stati pestati da squadracce fasciste, compromettente il suo appoggio anche se discreto a Salvemini. Il soggiorno accademico si trasformò in volontario esilio, durato fino alla fine della guerra, con il ritorno il 13 settembre 1949, dopo 18 anni di assenza.
Ad agosto 1931, fu imposto il giuramento fascista che rifiutarono 13 docenti su 1251.
Caso abnorme non gli fu chiesto da docente alle dipendenze del Ministero degli Esteri il giuramento di fedeltà al fascismo né dal Console né dal Ministero degli Esteri, che, anzi, prorogò di un anno l’incarico, senza fare alcun accenno al giuramento. Oggi mi immagino i numerosi suoi alunni che hanno avuto la fortuna in California di ascoltare le sue profonde lezioni. Di quel giorno scrisse: "Il 12 luglio 1931 pensavo che entravo in un tunnel, dal quale chi sa quando e dove sarei uscito. Mi pare ora d’intravedere quei tagli o lampi di luce che entrano nei lunghi tunnel presso l’uscita dagli spiragli aperti nella roccia" (Diario VI, p. 87).
Di questo progetto con maggiore competenza e in modo più circostanziato ha discusso su questo giornale Valter Vecellio (2 novembre 2018). Il 22 ultimo a Palazzo Steri quel Sabino Cassese, ora Giudice Emerito della Corte Costituzionale, ha tenuto sul tema del Disegno preliminare una lectio magistralis, nel seminario annuale della Società per lo studio della modernità letteraria.
Questa sua esperienza americana che egli definì “anni dell’egira” lo marchiò e ne fece per sempre un’anima dimidiata: "Ancora nulla di nuovo dalla mia situazione italiana. Continuo ad essere in quella strana posizione: coi piedi in America e con le mani scriventi in Italia" (Diario III, p. 50). Oppure: "Della Mia Vita Parte Seconda. Cosi mi vien fatto di pensare. Se hai te stesso, chi ti può mancare? Purché il te stesso sia in te, un Universale" (Diario III, p. 13). La nostalgia perenne della sua Polizzi negatagli da un’Italia mostruosamente sfigurata dal fascismo e più volte da lui ribattezzata "Benitalia" e "Mussolinia".
Voglio qui riassumere con qualche flash. la sua vita di “americano”, che ne adotta ad un certo momento anche la lingua. Polilinguismo e polisemia. L’immensa sua produzione di giornalista e politico, narratore di romanzi, novelle e libri di viaggio, poeta e commediografo (in linea con il suo antifascismo il libretto d’opera in poesia e in inglese, Montezuma), critico e saggista, è stata raccolta nel Fondo Giuseppe Antonio Borgese (consultabile online in Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche), donato poco dopo la sua morte dalla moglie Elisabeth Mann Borgese alla Facoltà di lettere dell’Università di Firenze. Comprende 73 contenitori di materiale manoscritto e a stampa, che includono in sei sezioni: una parte del carteggio, manoscritti di opere edite ed inedite, materiali preparatori per lezioni e pubblicazioni, diari (ben 15 in 5 volumi), agende, taccuini, ritagli di giornali.
Davanti ad un paesaggio americano: "Il quadro che ho davanti ai miei occhi come l’avrei descritto tempo fa con parole ovidiane: omnia Pontus erat; deerant quoque litora ponto (Metam., I, v. 292)" (Diario , p. 134).
Ma in effetti cosa rappresentò per lui l’americano? Era quell’uomo di Walt Whitman, il cantore della libertà, “One’s-SelfI sing, a simple separate person, /Yet utter the word Democratic, the word En-Masse ... Of Life immense in passion, pulse, and power, / Cheerful, for freest action form’d under the laws divine, / The Modern Man I sing”., da opporre al Superuomo di Nietzsche (nell’Engadina del filosofo Tempesta nel nulla, 1931): “L’Uomo Comune. Egli è la vera sostanza dell’America, il suo senso, il suo futuro”.
Quest’essere, a primo aspetto insipido, distingue i due continenti più che la voragine di acqua salata. La cultura ottocentesca, da cui tutti deriviamo, in Europa mirò al Superuomo, in America all’Uomo Qualunque. Nietzsche fu l’europeo; Whitman l’americano (Atlante americano, p. 147).
Di immenso valore pertanto il volume fotografico di Luciano Schimmenti che sembra esaudire un cocente desiderio di Borgese: "Ti avevo promesso da anni la stampa della mia città nativa, ed era troppo male che io mancassi alla parete dell’amicizia. Ma di Polizzi non ne potei trovare per quante ricerche facessi, e Palermo non mi andava. Ora t’ho fatto mandare da una libreria la stampa della mia città nativa; poiché qual é il vero luogo nativo? Quello dove s’è nati per fatto naturale e non nostro, o quello dove s’è rinati per fatto morale e nostro? Si può discutere (Lettere a Marino Moretti, p. 156).