Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda, Mondadori 2022
Dodici Il mito del Duce buono
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Le Filippine hanno 110 milioni di abitanti, e 88 milioni di utenti Facebook. Negli ultimi tempi, una massiccia campagna sul web ha sistematicamente cancellato la memoria della dittatura di Marcos. Una gigantesca rimozione digitale.
Per oltre dieci anni, una rete composta da influencer e blogger - volontari o salariati – ha lavorato per smentire i fatti, negare i numeri, cancellare le notizie sulle malefatte del regime e della famiglia.
Tremilacinquecento oppositori assassinati? Mai accaduto. Trentaseimila torturati? Calunnie. Settantamila arrestati? Esagerazioni. I quadri di Michelangelo e Picasso? “Investimenti per il popolo”. I dieci miliardi di dollari rubati allo Stato? “Ricchezze private. Non è un reato essere ricchi”.
Tuttavia il regista dell’operazione non è lui. È sua madre, la moglie del dittatore: Imelda Marcos, il cui nome evoca una clamorosa collezione da migliaia di scarpe. È stata lei a guidare la lenta e inesorabile riconquista del potere. A cominciare dal culto del corpo imbalsamato di Ferdinand Marcos, quello vero: riportato in patria dall’esilio dorato delle Hawaii quasi di nascosto, e poi sepolto nel Cimitero degli Eroi a Manila per volontà dell’ex leader Rodrigo Duterte, suo grande fan. La figlia, Sara Duterte, ora è la vicepresidente di Bongbong Marcos.
E i crimini del regime? L’assassinio di Ninoy Aquino, nell’aeroporto di Manila che ora porta il suo nome? La lunga stagione di speranza della moglie Corazon Aquino? La grande rivolta popolare che cacciò i Marcos nel 1986? Tutto dimenticato, se non da una minoranza dei filippini.
La domanda è inevitabile: può accadere qualcosa del genere in Italia?
La risposta è no. Non soltanto i nipoti e pronipoti di Mussolini - pur essendo stati eletti in Parlamento e al consiglio comunale di Roma - non torneranno al potere. Il fascismo stesso non tornerà. E non solo perché nulla torna mai davvero, e le cose non si ripetono mai allo stesso modo.
Mentre scrivo queste ultime righe, nell’estate del 2022, tutti i sondaggi indicano una grande vittoria elettorale della destra italiana. Quando le leggerete, ne sapremo di più. Di sicuro, i primi due partiti della destra sono guidati da due giovani leader, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Meloni e Salvini non sono fascisti. Sono anti-antifascisti. Non festeggiano il 25 aprile, lo considerano una festa di parte, di sinistra. Nei loro partiti sono numerosi i casi di dirigenti e militanti che hanno fatto e fanno apologia del fascismo. Nella galassia dell’estrema destra, che qualche anno fa Salvini ha apertamente corteggiato, accade qualcosa di più: l’elogio di Mussolini è pratica costante, anche se la legge lo vieterebbe. Atteggiamenti estremi, ma tollerati. Residuali, o in crescita? Forse di più la seconda. A opera di persone che il fascismo, quello vero, non l’hanno conosciuto e all’evidenza non lo conoscono. A condannarli di solito è la comunità ebraica; e meno male che c’è, e lo fa. Però dovrebbe essere una condanna condivisa.
Anche se la vera questione è un’altra. O comunque c’è una questione altrettanto interessante. Che riguarda la nostra memoria. La nostra comunità nazionale. E quindi ci riguarda tutti.
“Ma finitela con questa caccia al fascista, al saluto romano, al busto del Duce, al cimelio dell’epoca, alla mezza frase nostalgica e al gesto cameratesco” ha scritto su La Verità Marcello Veneziani. “Ponetevi piuttosto un problema molto più serio e molto più attuale: perché mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, non si definisce antifascista, anzi nutre riserve e rigetto? È una domanda seria da porsi, dopo che il fascismo fu sconfitto, abbattuto e vituperato, dopo che furono appesi i corpi dei capi, dopo che fu vietata ogni apologia, dopo che sono passati quasi ottant’anni tra tonnellate di condanne, paginate infinite, manifestazioni antifasciste, divieti, lavaggi del cervello a scuola e in tv, perché c’è ancora mezza Italia che non vuole definirsi antifascista?”. Per poi concludere: “Se dopo tanti decenni di rieducazione, repressione, propaganda e religione civile, mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, il problema non è della Meloni ma è vostro, di voi antifascisti in servizio permanente effettivo e dell’esempio che avete dato.
Diciamolo: avete fallito”.
Certo, non sono molti - ma neppure pochi - coloro che il Duce lo rimpiangono e lo difendono. Ma sono moltissimi quelli che rifiutano di condannarlo.
Conosciamo bene le loro argomentazioni. “Sono nato dopo la guerra, il fascismo non l’ho conosciuto, come posso parlarne male?”. “I fascisti sono tutti morti”. “L’antifascismo è superato, non ha più senso”. “Il fascismo è finito il 25 aprile”.
Purtroppo, non è vero.
È vero che, all’indomani della Liberazione, la condanna di Mussolini e della sua eredità era pressoché unanime. Nessun partito, neppure quelli moderati, conservatori, anticomunisti, rivendicava la continuità con il passato. Neppure il movimento populista dell’Uomo Qualunque, il cui fondatore Guglielmo Giannini contestava semmai il monopolio dell’antifascismo rivendicato dai partiti di sinistra: “Il fascismo” diceva Giannini “ha fatto soffrire tutti gli italiani”. I padri costituenti - di destra e di sinistra, monarchici e repubblicani - stabilirono che il fascismo non potesse essere né difeso, né rifondato.
Questo non impedì che negli anni successivi nascesse un partito, piccolo ma non piccolissimo, guidato da esponenti sia pure minori della Repubblica di Salò, chiamato non a caso Movimento sociale. Il Msi si divise tra un’ala atlantista, schierata con la Nato, Israele, il libero mercato, e guidata da Giorgio Almirante, e un’ala di destra sociale, filoaraba, critica nei confronti dell’America, più esplicita nel sostenere il legame con il fascismo, e ispirata da Pino Rauti, fondatore di un movimento chiamato Ordine Nuovo.
Arrestato e inquisito per le stragi degli anni Settanta, Rauti è stato assolto per non aver commesso il fatto.
Ma a destra del Movimento sociale è esistita una galassia, in cui le menti della strategia della tensione hanno reclutato la manovalanza che ha seminato morte e terrore nell’Italia del dopoguerra. Non sempre i colpevoli sono stati individuati e condannati. Tuttavia la magistratura ha accertato la matrice fascista delle stragi di piazza Fontana - Milano, 12 dicembre 1969: diciassette morti, 88 feriti -, di Peteano - tre carabinieri assassinati il 31 maggio 1972 -, di piazza della Loggia - Brescia, 28 maggio 1974: otto morti, 102 feriti durante una manifestazione sindacale -, del treno Italicus - San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974: dodici morti, 48 feriti -, della stazione di Bologna: 2 agosto 1980, 85 morti, duecento feriti.
L’ultimo anarchico giustiziato da Franco - con lo strumento dell’Inquisizione, la garrota - fu Salvador Puig Antich. In quella stessa mattina del 2 marzo 1974, il grande pittore antifranchista Joan Miró tracciava dopo anni di prove la riga definitiva sulla tela bianca intitolata La esperanza del condenado a muerte, custodita nella Fondazione di Barcellona che porta il suo nome. Papa Paolo VI implorò la grazia; il Caudillo non gli venne neanche al telefono.
In Grecia il colpo di Stato del 21 aprile 1967 depose il governo democraticamente eletto e portò al potere la giunta dei colonnelli, dalle aperte simpatie fasciste, e dagli stretti contatti con il neofascismo italiano.
Almeno duemila oppositori furono torturati. Alekos Panagulis fu legato a un tavolo e l’uomo che gli si avvicinò, con una pinza di ferro in mano, gli disse: “Ora ti faremo pentire di essere nato”. Il più importante compositore greco, Mikis Theodorakis, finì in carcere; l’artista più nota, Melina Merkouri, scelse l’esilio. Il 19 settembre 1970, in piazza Matteotti a Genova, un esule greco, Kostas Georgakis, si diede fuoco per protestare contro la dittatura. Il regime ritardò per quattro mesi il rientro delle sue spoglie a Corfù, nel timore che provocasse proteste popolari. Il suo nome oggi è del tutto dimenticato.
I colonnelli furono deposti nel luglio 1974, dopo aver stroncato con i carri armati e 24 morti la rivolta degli studenti del Politecnico di Atene (novembre 1973). Ma fu solo quando la Giunta rischiò di provocare una guerra con la Turchia per Cipro che i militari - e gli americani - dissero basta. Molti esponenti del governo fascista greco furono processati e condannati.
Negli stessi anni si consumava la tragedia del Cile e dell’Argentina. L’11 settembre 1973 il presidente cileno eletto dal popolo, Salvador Allende, moriva - probabilmente suicida - durante il golpe del generale Augusto Pinochet. Gli oppositori vennero presi e rinchiusi nello stadio di Santiago.
Settecento persone si salvarono valicando il muro dell’ambasciata italiana (sia reso merito ai nostri coraggiosi diplomatici). Almeno tremila i morti.
Ma molte di più furono le vittime della dittatura argentina, i cui rapporti con il neofascismo italiano e con la loggia massonica di Licio Gelli, esponente di Salò, erano aperti e rivendicati. Trentamila desaparecidos, i voli della morte con i dissidenti gettati dagli aerei, i cani addestrati a ferire e a mutilare, i bambini sottratti ai genitori “degeneri” perché non condividevano le idee del regime: tutto questo è accaduto in un grande Paese, dove la maggioranza della popolazione è di origine italiana.
Quanti tra i nostri ragazzi conoscono oggi questa storia? Quanti sanno che giunte militari sono state a lungo al potere anche in Brasile, e anche lì hanno significato polizia politica, arresti, torture, esecuzioni sommarie?
Perché? Perché qualche italiano è ancora fascista, molti difendono il fascismo, e moltissimi rifiutano di condannarlo, di celebrare la sua fine, di festeggiare la sua sconfitta? Possibile che quanto abbiamo raccontato non conti nulla? I lutti e le violenze del tempo che precede la marcia su Roma?
La repressione e le vittime del regime? Le distruzioni e le sconfitte della seconda guerra mondiale? Le persecuzioni e le torture della guerra civile?
Di solito si tende a rispondere che la sinistra ha rivendicato il monopolio dell’antifascismo, nelle sue frange estreme l’ha praticato in modo violento negli anni Settanta, ed essere antifascista è diventato un sinonimo per dire di essere comunista. E serve a poco ricordare che il fascismo fu combattuto e sconfitto da uomini di destra come Winston Churchill e Charles de Gaulle, e in Italia, come abbiamo visto, da liberali come Giovanni Amendola e Benedetto Croce, cattolici come don Minzoni e Piergiorgio Frassati, monarchici come il generale Raffaele Cadorna e il colonnello Giuseppe Montezemolo; oltre ovviamente a socialisti, comunisti, azionisti.
Il punto è che la storia nazionale ci emoziona, ci indigna, ci coinvolge soprattutto quando incrocia la storia della nostra famiglia. E tanti hanno avuto un padre o un nonno fascista anche dopo l’8 settembre 1943. Dire oggi: mio padre, mio nonno, era cresciuto sotto il fascismo, amava l’Italia ed era convinto che il fascismo fosse l’Italia, e fece per questo, in buona fede, una scelta sbagliata, è un ragionamento complesso. O, comunque, è un ragionamento. Queste scelte si fanno invece d’istinto, di getto: era mio padre, era mio nonno; quindi aveva ragione. Se poi scopro che anche dall’altra parte, quella considerata giusta, ci furono uomini che si sono comportati male - e ci furono -, vennero commessi errori e talora crimini - e vennero commessi -, quale migliore occasione per dire che tutti gli italiani sono stati fascisti, poi sono diventati tutti antifascisti almeno a parole, saltando sul carro dei vincitori?
Ma non è andata così. Non è questa la storia d’Italia.
Nessuno, a mio avviso, può essere chiamato a vergognarsi per una persona, per un antenato. Ma la vergogna di aver inventato ed esportato il fascismo, quella un poco dovremmo sentirla nella nostra coscienza nazionale. In troppi invece ne vanno fieri.
Io non so se esista un “fascismo eterno”, come scriveva Umberto Eco.
Tendo a credere che il fascismo sia un fenomeno legato alla parabola di un uomo, Benito Mussolini, su cui la maggioranza degli italiani si è fatta un’idea sbagliata, edulcorata, consolatoria. Un’assoluzione che è anche un’auto-assoluzione.
Mussolini sostenne e impose con la forza idee che esistevano già, e che esistono ancora. Il fascismo non credeva che gli uomini nascessero liberi e uguali. Non credeva alla libertà, perché pensava che più della persona contasse lo Stato, che si identificava nel partito, che si identificava nel dittatore. Non credeva nell’uguaglianza, nella democrazia, nei diritti civili.
Ogni volta che la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, i diritti civili vengono negati o messi in discussione, non significa che stia tornando il fascismo; significa che le idee che il fascismo sostenne e impose con la forza non sono morte.
Leonardo Sciascia lo scrive già nel 1979:
“Troppo si è creduto che il fascismo fosse ormai relegato nel folklore, come certe feste patronali che soltanto sopravvivono per l’attaccamento dei vecchi e le offerte degli emigranti … Le radici del fascismo sono tante, si allungano e affondano in tante direzioni, in tanti strati: ma le più forti e riconoscibili sono indubbiamente quelle che si diramano e si nutrono nell’intolleranza”.
Lo stesso si può dire di Alternative für Deutschland: non è nazista, ma è anti-antinazista; e in Europa è alleata con la Lega di Matteo Salvini. Proprio come Marine Le Pen, arrivata alle ultime presidenziali francesi al 42% dei voti. Mentre Viktor Orbán, costretto per le sue idee nazionaliste e illiberali a lasciare il partito popolare europeo, è al potere in Ungheria.
Non so se Meloni e Salvini, arrivati al governo, continueranno ad avere gli stessi interlocutori, o si renderanno conto che è meglio avere buoni rapporti con chi governa davvero l’Europa: liberali come Emmanuel Macron, democristiani come Ursula von der Leyen, socialdemocratici come Olaf Scholz. Lo vedremo. Non so se volgeranno la testa all’indietro, verso l’era del nazionalismo, o si convertiranno all’ideale di Amendola e Spinelli, di De Gasperi ed Einaudi, di Ciampi e di Draghi: la costruzione di un’Europa unita, in grado di far sentire ovunque la voce della libertà e della democrazia, di contare nel mondo globale, di tener testa ai russi, ai cinesi, agli indiani, agli stessi americani.
Probabilmente prevarrà lo spirito della realtà; e Meloni e Salvini cercheranno di barcamenarsi. Ma ci sono fasi in cui il pragmatismo non basta. Perché il momento di costruire gli Stati Uniti d’Europa sarebbe adesso, mentre siamo chiamati a fronteggiare sui confini orientali la più grave crisi militare, politica, umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale.
Questo possiamo dire fin da ora. Teniamoci stretto l’articolo 3 della Costituzione. Rileggiamolo. Mandiamolo a memoria e insegniamolo ai nostri ragazzi:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Per Mussolini, i cittadini non erano tutti uguali. Gli uomini valevano più delle donne, i bianchi dei neri, gli italofoni degli slavi e dei tedeschi che pure erano cittadini del Regno, i cattolici degli ebrei, i fascisti degli antifascisti, gli eterosessuali degli omosessuali. E di fatto tutta la sua politica, al di là delle parole e della retorica, privilegiò i ricchi rispetto ai poveri, i padroni ai salariati, i possidenti ai proletari, i forti ai deboli.
Se siamo arrivati a questo, se abbiamo potuto scriverci la nostra Costituzione - cosa che altri popoli vinti della seconda guerra mondiale non hanno potuto fare: la Costituzione giapponese l’hanno scritta gli americani -, lo dobbiamo certo alla Quinta Armata che ha liberato l’Italia, e pure ai russi che hanno fermato i nazisti. Ma lo dobbiamo anche ai tanti italiani che hanno detto no al nazifascismo, che hanno tenuto duro nel ventennio, che hanno resistito nei venti mesi di occupazione tedesca. Talora a prezzo della vita. Persone di cui non si parla in tv e nei social.
Questi sono gli italiani di cui possiamo andare orgogliosi. Non il Duce; i suoi oppositori, e le sue vittime.