Eugenio Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto, Gedi 2022
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IX-La rivoluzione dei cafoni
Intanto il centrismo si disfaceva pezzo per pezzo. La sinistra democristiana si agitava con veemenza crescente: Enrico Mattei, signore dell’Eni, gran protettore della corrente democristiana di Base e grande elettore di Giovanni Gronchi alla presidenza della Repubblica, scuoteva in tutti i modi possibili gli equilibri di politica interna, estera ed economica; Saragat appariva palesemente in difficoltà dopo il distacco dei socialisti dal Pci. Fanfani infine accentuava gli aspetti populistici e solidaristici del suo partito, entrando più volte in collisione con l'ala liberal-conservatrice delle coalizioni centriste. Ma, sotto a questi movimenti della superficie politica, ben altri e più importanti mutamenti avvenivano nel paese. Il quale, durante tutto l’arco degli anni Cinquanta, aveva radicalmente cambiato faccia: da prevalentemente contadino stava diventando prevalentemente industriale, con un trasferimento di mano d’opera dal sud al nord e dalle campagne alle città quale mai si era visto prima nella storia d’Italia. C’erano stati, è vero, in passato imponenti migrazioni che avevano però come unica direzione le metropoli del Nord e del Sud America, il Belgio, alcuni distretti minerari della Francia, l’Australia perfino. Ma non le altre regioni d’Italia, che non presentavano ancora occasioni di lavoro così numerose e allettanti da giustificare un movimento di massa. Quel movimento si verificò a partire dal 1953 e toccò il culmine negli anni tra il ‘57 e il ‘61. E continuò ancora, sia pure senza ulteriori picchi, fino ai primi anni Settanta. Sono avvenuti in quel ventennio sconvolgimenti sociali profondi, di cui è rimasta traccia ben visibile nel cinema e nella letteratura, segno non equivoco della loro importanza e della loro radicalità. Si è svolto un vero e proprio esodo, dalle Puglie, dalle Calabrie, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Basilicata, dal Veneto, con direzione Roma, Genova, ma sopratutto Milano e Torino. In pochi anni, tra il censimento del ‘51 e quello del ‘61, mutarono residenza oltre cinque milioni di italiani, nella maggior parte seguendo le direttrici di trasferimento che abbiamo indicato. Ma nella realtà furono molti di più, poiché la registrazione anagrafica tardava parecchio sul trasferimento effettivo. La definizione di esodo non è dunque esagerata. C’era un che di biblico in quel movimento che sradicava una massa imponente di famiglie dai luoghi dove avevano vissuto per secoli, da tradizioni che nessuno pensava fino a poco tempo prima che si potessero mettere in discussione, da dialetti che erano poco meno che lingua vera e propria con dignità storica e letteraria. Le precedenti emigrazioni dirette verso l’estero non potevano produrre analoghi mutamenti sulla comunità nazionale, salvo depauperarla di giovani alleviando in contraccambio le pesantissime condizioni dell'economia agricola e del Mezzogiorno. Per il resto, i nostri emigrati trasferivano cospicue rimesse dall’estero in buona valuta e fondavano “colonie” nei paese di destinazione che si sarebbero in seguito sviluppate e variamente integrate con le comunità preesistenti. Ma ben diversi furono gli effetti del movimento migratorio verificatosi negli anni Cinquanta-Sessanta, perché, producendosi all’interno della medesima comunità nazionale, esso interagì, mescolò valori e linguaggi, produsse redditi espressi nella medesima moneta, alimentò e al tempo stesso distorse lo sviluppo della medesima economia e infine - conseguenza principale tra tutte le altre - mise a nudo l’insufficienza delle istituzioni politiche e della pubblica amministrazione. Fino agli inizi degli anni Cinquanta l’Italia del Nord, la Padania propriamente detta, era stata una specie di grosso Belgio quanto a livello di benessere, di acculturamento e insomma di civilizzazione urbana. Il resto del paese funzionava come una sorta di appendice peninsulare. Tra le due zone i rapporti di mutuo scambio erano tutto sommato scarsi. La circolazione della ricchezza sembrava seguire due logiche diverse. L’accumulazione del capitale si verificava in Padania e in Padania veniva sostanzialmente reinvestita. Quanto alle istituzioni e all’amministrazione dei pubblici servizi, anch’esse si erano difatto conformate su uno schema dualistico, come il mercato dei capitali e il mercato del lavoro: funzionavano abbastanza passabilmente al nord, malissimo o per nulla al sud. Al nord c’erano già le autostrade, al sud mancavano perfino le strade; al nord c’erano buone scuole, al sud dominava ancora l’analfabetismo; al nord c’erano ospedali, al sud la gente si curava da sola o col solo ausilio del medico condotto e della “mammana”; al nord c’erano i partiti, al sud c’erano le clientele personali dei boss; al nord c’era la legge, al sud c’erano in supplenza mafia e camorra. In una parola: al nord c’erano dei cittadini che conoscevano i diritti e i doveri dei cittadini, mentre al sud c’erano dei sudditi che dello Stato conoscevano soltanto il carabiniere, le gabelle, la leva militare. E il cui unico contatto con una cultura diversa dalla propria era quello con i preti e con la Chiesa. Le due guerre avevano in parte modificato e reso meno estranee dal punto di vista umano queste due parti del paese. La tecnologia le aveva ulteriormente avvicinare. Ma la scarsa comunicabilità e la scarsa permeabilità reciproca erano sostanzialmente rimaste. La vera rivoluzione avvenne nel ventennio tra i Cinquanta e i Settanta. Non l’avevano prevista né il partito comunista né i sindacati operai né le leghe contadine, né l’intellighenzia progressista. Tanto meno l’avevano prevista i cattolici e i conservatori, ancora attaccati ai loro ideali della piccola proprietà contadina e ai loro coltivatori diretti, fonte cospicua di voti e di consenso sociale. La vera rivoluzione - è doveroso dirlo - la fece Vittorio Valletta, per dire il capitalismo aggressivo e “amerikano”, con l’industria automobilistica e la motorizzazione del paese come obbiettivo centrale dello sviluppo. Valletta era consapevole del ruolo che ebbe? L’ho incontrato spesso in quegli anni e ho avuto avuto con lui parecchi colloqui diciamo così “politici”, nel senso che il presidente della Fiat esponeva al giovane giornalista cui accordava l’intervista - o più spesso una conversazione da non riferire - i suoi giudizi sulla classe politica e i suoi pensieri sul “bene comune” come lo vedeva lui. Personalmente non credo che Valletta fosse pienamente consapevole della trasformazione che la motorizzazione accelerata del paese avrebbe creato sulle strutture collettive. Del resto, a dimostrare la giustezza di questa tesi, c’è lo stato di rovinosa impreparazione in cui si trovò la città di Torino – che pure avrebbe dovuto essere, almeno lei, sotto gli occhi e sotto le cure della Fiat - quando il fiume d’immigrati provenienti dal sud e dalle campagne cominciò a riversarvicisi come un torrente in piena, senza trovare nulla di nulla: non abitazioni, non scuole, non assistenza, ma soltanto il collocatore della Fiat e il lavoro alle catene di montaggio di Mirafiori e di Rivalta. Valletta tuttavia era ben conscio che, se la sua Fiat avesse tirato come lui sognava, se il mercato avesse corrisposto alle attese, se il governo avesse accompagnato quell’allocazione gigantesca di risorse costruendo la rete nazionale delle autostrade e non mettendo limiti allo sviluppo del trasporto “gommato” l’Italia sarebbe cambiata. Come, non sapeva. Un po' per convinzione e un po’ per populismo, il vecchio presidente della Fiat parlava di socialismo: - Mi e chiel suma socialisti, nè? - mi diceva quando c’incontravamo, con un’aria come d’intesa. Ma era un socialismo tutto suo particolare, che vedeva in prima linea la Fiat, la disciplina durissima della Fiat, gli interessi della Fiat. Tutto il resto sarebbe seguito, partecipazione dei lavoratori agli utili compresa, maggior assistenza, maggior istruzione, maggior benessere compresi. Comunque, consapevole o no che ne fosse Valletta, la rivoluzione ci fu e produsse novità d’importanza capitale: e cioè che anche i sudditi acquistarono coscienza d’essere cittadini. Cittadini nel senso dei diritti che fino a quel momento gli erano stati denegati, mentre quella traumatica e confusa scoperta relegò nell’ombra i doveri che alla qualità di cittadino incombono. Ma l’effetto d’una tale novità non si esaurì affatto nella sfera “politica”: al contrario, le conseguenze di maggior rilievo si produssero nella sfera del “sociale” e in quella della pubblica amministrazione, cioè della struttura stessa dello Stato. I nuovi cittadini infatti reclamarono, com’era giusto, che la pubblica amministrazione fornisse i servizi primari, le case, l’assistenza sanitaria, i trasporti, l’istruzione. Ma la pubblica amministrazione non era preparata a soddisfare i bisogni primari d’una popolazione di cittadini improvvisamente raddoppiati di numero. La struttura amministrativa dello Stato era stata modellata per cent’anni sulle dimensioni della Padania e dei grandi e medi centri urbani del resto d’Italia; tutta la massa contadina aveva provveduto fino a quel momento da sola ai propri bisogni primari, autoconsumando i prodotti dell’agricoltura familiare, abitando le vecchie case costruite coi sassi e con le mani di chi le abitava, rinunciando all’istruzione e al movimento sul territorio che non fosse il movimento a dorso di mulo per andare dal paese al Campo da coltivare. Scardinata dalle fondamenta la civiltà contadina dalla rivoluzione vallettiana, i nuovi cittadini fecero ressa attorno ad un’amministrazione pubblica paurosamente insufficiente, attorno ad amministrazioni civiche impreparate, che non erano assolutamente in grado di sopperire ai nuovi bisogni emersi improvvisamente. E non soltanto nelle grandi metropoli settentrionali dove quella massa d’immigrati s’era riversata, ma anche nei Comuni del Sud, dove la popolazione rimasta, depauperata dalla partenza degli elementi più giovani, non poteva più sostentarsi al di fuori del sistema di mercato, in un’economia chiusa e autosufficiente. La divisione delle famiglie comportò il moltiplicarsi degli spostamenti, le nuove occasioni di lavoro imposero un minimo di istruzione, la domanda d’assistenza crebbe in proporzione perché i vecchi erano rimasti soli e qualcuno doveva pur darsi cura di loro, riparare le loro case cadenti, ricoverarli quand’erano ammalati. Questo è stato il collasso dello Stato e dell’amministrazione sia Centrale che locale. E di qui è montata quell’ondata di rivolta civile prima e di rabbia eversiva poi, che hanno prodotto avanzamenti sociali e insieme pericoli terribili per la stabilità delle istituzioni e della stessa convivenza civile. ...
2022 - La rivoluzione dei cafoni
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