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La scuola italiana durante il fascismo
di Simone Graziani
Per Mussolini fascistizzare la scuola rappresentava uno strumento fondamentale per la creazione, in un paio di generazioni, di un Paese totalmente piegato al regine, dove ogni altra forma di ideologia politica fosse esclusa, non solo dalla vita della nazione, ma in primo luogo dalla mente degli italiani. Il Duce era convinto che alla sua morte il suo unico degno successore non sarebbe stato un altro uomo politico o il Partito fascista, ma lo stesso Stato fascista, una vera e propria entità ideale, funzionale e solida.
Per fascistizzare la scuola non occorreva, però, solo una semplice revisione dei programmi didattici, l’introduzione di nuove materie e di nuovi libri di testo, era necessario assoggettare il corpo docente. Fu su quest’ultimo punto che il regime trovò delle difficoltà insormontabili, che impedirono la realizzazione del suo disegno. Il corpo insegnante italiano, nonostante un ventennio di pressioni, minacce e imposizioni (tra tutti ricordiamo l’obbligo, pena il licenziamento, di giurare fedeltà al fascismo, nel 1929 per i maestri elementari e nel 1931 per i docenti universitari), non si piegò, se non nella forma, alle volontà del regime, mantenendo quella sufficiente autonomia che gli permise di non trasformarsi in un subdolo strumento pedagogico nelle mani di Mussolini. Anche gli sforzi nel campo dell’aggiornamento dei programmi scolastici furono scadenti e disorganizzati; lo stesso obiettivo di creare biblioteche con soli volumi fascisti rimase incompiuto; in parte fu soltanto attuata l’epurazione dei libri non conformi al regime. Mentre, l’introduzione di un calendario fascista con le ricorrenze più care al regine (tutte sempre glorificate con solenni commemorazioni e festeggiamenti) illuse il governo, “accecato” dall’entusiasmo dei militanti durante le adunate, che la fascistizzazione del Paese e della scuola fosse ormai realtà.
Quest’opera di fascistizzazione dell’istruzione fu accompagnata dalla creazione, nel 1926, dell’Opera Nazionale Balilla per l’Assistenza e l’Educazione Fisica e Morale della Gioventù. I suoi aderenti, di età compresa tra i sei e i diciotto anni, dovevano essere iniziati al fascismo con una fervente educazione al nazionalismo, al fascismo, al culto del Duce e alla disciplina fisica e militare. L’ONB venne stabilmente suddivisa, per età e sesso, nei seguenti corpi.
Maschi:
Figli della lupa: 6-8 anni;
Balilla: 9-10 anni;
Balilla moschettiere: 11-13 anni;
Avanguardisti: 14-18 anni.
Femmine:
Figlie della Lupa: 6-8 anni;
Piccola italiane: 9-13 anni;
Giovani Italiane: 14-17 anni.
Oltre all’ONB vi erano i movimenti d’età superiore:
Gruppi universitari fascisti (GUF): studenti universitari e delle scuole superiori.
Nel 1925 fu creata la corporazione della scuola, con lo scopo di ottenere il monopolio della rappresentanza degli insegnanti; nel 1926, anche in tutte le scuole statali, fu reso obbligatorio il saluto fascista, esteso, nel 1928, anche nelle scuole private. Nel 1928, il ministro Giuseppe Belluzzo, istituì la Scuola di avviamento professionale, che andò a sostituirsi ai corsi postelementari e alla scuola complementare. Con l’inizio dell’anno scolastico 1930-31 fu introdotto il libro unico per il biennio elementare. Si trattò di un momento importante del processo di fascistizzazione scolastica. Nell’intenzione di Mussolini esso doveva permettere al regime un controllo diretto sull’insegnamento, ottenuto grazie all’impostazione pedagogica che si era dato al nuovo testo scolastico, il cui contenuto avrebbe dovuto, plasmando fin da piccoli la loro coscienza, educare i bambini ai valori cari fascismo. Molti maestri, però, finirono con lo staccarsi da un testo che nei contenuti didattici risultava mediocre e che si perdeva nell’adulazione del regime e del suo capo. Nelle scuole secondarie, dove non venne introdotto il libro unico, i libri di testo furono sottoposti a controllo politico ed i programmi di insegnamento allineati alle esigenze del regime. Anche in questo caso un’eccellente barriera alla volontà del fascismo di penetrare nelle scuole, fu egregiamente eretta dal corpo docente, che non adattò, nonostante le pressioni sempre più insistenti, il suo metodo didattico e la sua formazione culturale alle “richieste” del regime. Con l’inizio degli anni trenta fu stabilito che il corpo docente indossasse, compresi direttori ed ispettori scolastici, la divisa fascista (camicia nera oppure divisa ufficiale della milizia); consentendo l’accesso all’insegnamento solo agli iscritti al Partito Fascista da almeno cinque anni. Si intensificò poi la propaganda di regime durante le ore scolastiche; agli insegnanti si chiedeva insistentemente di commentare ed adulare la figura del duce, le sue frasi e le opere compiute dal governo. Nonostante la volontà e le maggiori pressioni del regime, la scuola mantenne però una sua autonomia: negli istituti medi soltanto un sacerdote su due era fascista ed il totale degli insegnanti fedeli al regime non superò mai il 30 per cento. Sappiamo, infatti, che l’essere iscritto al PNF non era sinonimo di fedeltà agli ideali, ma spesso solo un modo per conservare il posto di lavoro ed una certa tranquillità quotidiana. Un altro ostacolo alla fascistizzazione della scuola fu l’introduzione obbligatoria di una lingua straniera; lo studio inevitabile degli autori stranieri, estranei e distanti dalla cultura fascista, mise in contatto gli studenti con culture liberali, contrarie al totalitarismo, permettendo agli insegnanti di illustrare, senza correre rischi, ideologie opposte a quelle del regime.
Nell’opera di riorganizzazione della scuola un posto di rilievo lo ebbero i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), con cui si rese obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole italiane.
Nel 1935, con lo scoppio della guerra di Etiopia, fu introdotta la nuova disciplina della “cultura militare”. Essa doveva preparare le nuove generazioni al militarismo; l’Italia diventava un impero e la volontà imperiale del governo doveva penetrare nelle nuove generazioni. Il militarismo imposto dal regime, non fece breccia però nel corpo docente, che si limitò ad eseguire in modo passivo e distaccato le nuove indicazioni del governo, senza trasmettere agli alunni quei sentimenti militaristici caldeggiati dal governo.
Nel 1936 Mussolini chiamò Bottai alla guida del ministero dell’Educazione Nazionale. Bottai intraprese una nuova riforma scolastica, con lo scopo di riavvicinare i giovani alla scuola, soprattutto scientifica e Professionale, in un periodo in cui una bassa scolarizzazione rischiava di rallentare lo sforzo produttivo del Paese. Bottai concepiva la scuola in funzione diretta della realtà nazionale, per questo rivide i programmi delle scuole medie, introducendovi discipline di interesse pratico ed immediato, adottando una pedagogia ortogenetica. Voleva dare alla sua riforma un aspetto progressista, con una scuola posta al vertice del movimento rivoluzionario fascista. Secondo la Carta della Scuola (15 febbraio 1939) il compito principale della “nuova” scuola fascista doveva essere quello di dare ai giovani, oltre che una formazione culturale, anche un’educazione civica adatta ai nuovi tempi. Con essa si voleva sostituire la vecchia scuola borghese con una nuova scuola popolar-fascista; riabilitando le materie scientifiche e tecniche, sacrificate, soprattutto a causa della riforma Gentile, alle materie classiche, divulgando, così, un nuovo umanesimo che si adattasse al modello sociale e corporativo caro al regime. Un compito importante nella creazione della società fascista, dovevano svolgerlo le scuole femminili, il cui fine non era tanto quello di istruire, ma di formare le studentesse al ruolo di casalinghe, fattrici e mogli fedeli o al massimo al ruolo di maestre di asili d’infanzia. Per scoraggiare le donne nel proseguo dell’istruzione il regime alzò le tasse scolastiche femminili ben al di sopra di quelle pagate dai loro colleghi maschi. Durante il ministero Bottai si ebbe anche la creazione dell’Ente Nazionale per l’Istruzione Media (ENIM), che permetteva la completa estensione del beneficio della parificazione a tutti gli istituti, anche se gestiti da privati. Nel 1939 l’ENIM fu esteso anche alle scuole superiori, assumendo così il nome di ENIMS.
La scuola fu anche una delle prime istituzioni statali ad introdurre l’antisemitismo. Va ricordato che Bottai, nel 1938, fu tra i firmatari del “Manifesto per la razza”, prodromo alla promulgazione delle Leggi razziali. Dopo l’emanazione delle stesse, firmate dal re Vittorio Emanuele III, il 5 settembre del 1938, all’interno della tenuta di San Rossore, fu proibito a tutte le scuole del regno di accogliere gli alunni ebrei, imposto il licenziamento di tutti gli insegnati di religione ebraica e vietata l’adozione di testi scritti da ebrei. La volontà del regime di usare la scuola come veicolo per trasmettere la cultura della superiorità della razza, si scontrò con una realtà scolastica che, nonostante una facciata apparentemente incline al regime, era riuscita a mantenere quella sufficiente indipendenza che permise di far naufragare il disegno più bieco del regime: convincere gli italiani della necessità e della bontà delle leggi razziali come salvaguardia della purezza della razza.
Bibliografia:
A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino;
F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino;
M. Isnenghi, L’educazione dell’italiano, il fascismo e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino;
M. Isnenghi, Intellettuali militanti ed intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista,Einaudi, Torino;
M. Ostenec, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, Bari;
N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo,in “Rivista di Storia Contemporanea”, ottobre 1982.