L’osso del Mezzogiorno
di Alessandro Leogrande pubblicato giovedì, 25 novembre 2010 · 2 Commenti
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La bara contenente il corpo di Mussolini è trafugata
La bara contenente il corpo di Mussolini è trafugata
Alle 19,34 del 23 novembre del 1980 la terra prese a tremare. Sono passati trent’anni da allora, dal terremoto dell’Irpinia che ha segnato irrimediabilmente la storia dell’Italia meridionale negli ultimi decenni. La memoria collettiva si nutre di ricordi condivisi, e oggi tutti gli abitanti di Campania, Basilicata e Puglia che allora c’erano sono in grado di dire che cosa stavano facendo esattamente nel preciso momento in cui la terra iniziò a tremare. Un po’ come tutti, se c’erano, sono in grado di rispondere alla domanda “Cosa facevi il giorno in cui hanno rapito Aldo Moro?” o “Cosa stavi facendo l’11 settembre del 2001”?
Ognuno serba i propri ricordi personali di quell’evento. Io, ad esempio, ricordo perfettamente che in quel momento, intorno alle sette e mezza della sera, stavo vedendo un film western insieme a mio nonno. È uno dei miei primi ricordi di infanzia: il trauma ha sedimentato nella mia memoria una precisa consapevolezza della scansione dei fatti. Io e mia sorella eravamo in casa, a Taranto, con i nonni paterni. I miei genitori non c’erano. Ricordo ancora il palazzo che ondeggiava, le porte che si chiudevano da sole, le urla di alcune donne. E poi l’interminabile discesa per le scale condominiali, undici piani attraversati uno alla volta nella calca, in una lentezza estenuante. Quella notte la passammo in macchina, con la paura che i palazzi venissero giù.
RSI
RSI
In molti possono offrire i propri ricordi, e sicuramente tantissimi saranno più tragici e significativi del mio. Il terremoto dell’Irpinia fece 2.914 morti e 8.848 feriti. Provocò oltre 280 mila sfollati. Colpì 687 comuni: 542 in Campania, 131 in Basilicata, 14 in Puglia. L’epicentro fu dalle parti di Conza, paese che venne raso al suolo.
Da allora molte cose sono cambiate. E se - come si dice in genere - i terremoti sono eventi naturali, i post-terremoti sono sicuramente eventi politici, profondamente umani, spesso inquinati dal dilagare della criminalità. In molti oggi ritengono che la nuova camorra non sarebbe prosperata così tanto (o sarebbe prosperata in maniera diversa) senza il terremoto dell’Irpinia. Senza il terremoto non si sarebbe saldato quell’amalgama purulento tra una parte della politica e una parte della criminalità per la gestione dei fondi della ricostruzione. In parte tutto questo era deducibile già allora, come dimostra un vecchio libro di Giovanni Russo e Corrado Stajano, Terremoto, edito da Garzanti. Tra l’altro, alcuni importanti saggi di Stajano sul terremoto sono stati raccolti di recente, insieme ad altri suoi scritti, in L’Italia ferita (Edizioni Cinemazero).
L’11 dicembre del 1980 a Pagani (paesone dell’agro nocerino-sarnese in preda all’anarchia) venne ucciso il sindaco democristiano Marcello Torre per il semplice fatto di essersi opposto con fermezza alla gestione “criminale” della ricostruzione. Solo molti anni dopo, Raffaele Cutolo è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio.
L’omicidio Torre (per la prima volta, nel Mezzogiorno continentale, un sindaco venne ammazzato dalla mafia) costituì un balzo in avanti nell’aggressione camorristica alla convivenza civile. Ma questa era solo la punta dell’iceberg del nuovo sistema che si andava delineando, riducendo al silenzio o estromettendo chi non ci stava. La voragine degli investimenti a perdere, dei miliardi bruciati senza senso negli anni terminali della Prima repubblica meridionale, ha nel terremoto il suo epicentro.
Resistenti
Resistenti
Tuttavia, per fortuna, il terremoto dell’Irpinia ha voluto dire anche altro, oltre ai morti, alla distruzione e al dilagare della corruzione. Come ricorda Anna Maria Torre, figlia di Marcello Torre e oggi vice-coordinatore del Coordinamento Campano dei Familiari delle Vittime Innocenti di Criminalità, proprio dopo quel terremoto iniziò in Italia una nuova stagione del volontariato e della solidarietà. Tantissimi volontari, dalle altre regioni del Sud, ma anche da molte regioni del Nord, appartenenti a organizzazioni laiche o cattoliche, si diressero nei luoghi del disastro per dare una mano. La stagione del volontariato (che prende il posto lasciato vuoto dal riflusso della militanza politica degli anni settanta) trova proprio nel dopo-terremoto in Irpinia un fortissimo impulso. La partecipazione ai “campi di lavoro” ebbe allora una forte affermazione. Nel Novecento forse gli unici precedenti in tal senso sono l’alluvione di Firenze e il terremoto del Friuli.
Ma che cosa fanno oggi le donne e gli uomini rimasti a vivere nell’Appennino meridionale, gli abitanti di quello che Manlio Rossi-Doria definì un tempo “l’osso” del Mezzogiorno, la sua parte più povera? Il più attento narratore della vita dei paesi devastati dal sisma (oltre che dalla lenta e inesorabile emorragia dell’emigrazione) è Franco Arminio, autore di Viaggio nel cratere (Sironi) e di Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza). I paesi che Arminio racconta, da una parte e dall’altra dell’Appennino, nel cuore o intorno alla sua Irpinia, sono ormai paesi abbandonati. Paesi malati di “desolazione”, sostiene, paesi che ormai si sono arresi. E Conza vecchia, epicentro del terremoto che fu, è la pietra di paragone di questo arrendersi sospeso nel tempo. Visto da qui, dal paese senza vita con le case chiuse o ancora squarciate, con una chiesa senza tetto e senza altare, il Sud fa uno strano effetto.
2 Commenti a “L’osso del Mezzogiorno”
- Larry Massino scrive:
25 novembre 2010 alle 14:10
Parafraso una bella immagine di questo bell’articolo per commentare questo bell’articolo: Italia Paese malato di desolazione, popolato da uomini che ormai si sono arresi.
- Eva scrive:
30 novembre 2010 alle 16:38
Resistenti
Resistenti
Mentone
Mentone
E c’era il tintinnio dei cristalli nella vetrinetta in salotto, chiusa nella dignitosa resistenza del capitano che non abbandona la nave. E la foto grande della sirenetta di Copenaghen, che di colpo prese a guizzare sulla parete, in un tardivo desiderio di ritorno al mare che le era di fronte. E le urla, lo scalpiccio di piedi scalzi dei bambini del piano di sopra e i pianti di tutte le madri, e l’aria grave dei padri, e il loro parlottio sommesso: il momento propizio per correre in casa a riprendere il gatto, una massa di peli e vibrisse di cui nessuno sembrava ricordarsi. Per fortuna non è mai difficile ritrovare un gatto che ti sta aspettando: non sprechi attimi importanti ed hai tutto il tempo di accertarti che la sirenetta ha già abbandonato ogni suo vagheggiamento di fuga e tutto si è ristabilito nella nordica compostezza di sempre. Yadrik era lì, sotto il mio letto, con gli artigli conficcati tra le fessure delle mattonelle. Mi si arrese immediatamente, docile come sempre, ma per tutto il tempo conservò le forme rimpicciolite della paura e gli artigli puntati nella maglia del mio pigiama. Capìi che si doveva avere paura del terremoto dai puntini rossi che quegli artigli, fino ad allora sconosciuti, lasciarono impressi per diversi giorni sulla mia pancia.
Di Franco Arminio ho letto solo Vento forte tra Lacedonia e Candela dove, a sorpresa, compaiono anche alcuni borghi piemontesi, così simili, nei loro silenzi e nella loro desolazione, ai paesi devastati dal terremoto dell’Irpinia. La desolazione di questi borghi, al pari di altri paesi del Sud Italia, è il frutto di una mala educazione che ancora oggi, come negli anni del boom economico, vede la città come l’unico luogo possibile alla realizzazione umana. Giro spesso per i borghi medievali del Piemonte e ogni volta ascolto stupita i racconti dei pochi sessantenni che, in estate, o alla domenica, tornano ai borghi natii dalla città, a fare la conta dei vecchi che ce l’hanno fatta a superare un altro inverno. I giovani, se ci sono, muoiono anche più dei vecchi: incidenti stradali mentre si cerca un qualche stordimento nella città, spesso troppo lontana, o rintanata dietro una curva di troppo.
Ma divago. Non so, non sono certa che la malavita avrebbe avuto esiti diversi o vita più difficile, senza il terremoto dell’80: in fin dei conti, la storia più recente ci insegna che i terremoti possono tornare (e con loro, la ricostruzione).