Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda, Mondadori 2022

Ida Irene Dalser
Ida Irene Dalser
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.
Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non moltissimi. E poi c’è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere, in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.
La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi. Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù. Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per raccogliere “qualche migliaia di morti” ed essere ammessi al tavolo della pace. Peccato, davvero.
In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto - dall’Africa alla Grecia - perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo perché la frase sulle “migliaia di morti” tradisce una volgarità d’animo e un cinismo rivoltanti.
La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del tutto) con la guerra. L’idea della violenza come levatrice della storia, della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra, e una razza sull’altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi massacri della prima guerra mondiale – “trincerocrazia!” ringhia il Duce -, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.
Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con il gas; fa bombardare paesi e città inermi in Spagna; poi ordina le sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per vent’anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso popolo.
Non solo. Nel 1938, lo “statista” Mussolini e i suoi uomini avevano già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell’opposizione: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola - attaccato cento contro uno -, Carlo e Nello Rosselli. Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo. Avevano aggredito un santo, Piergiorgio Frassati.
Avevano incarcerato uno statista vero, Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in clinica dopo undici anni passati sotto custodia, senza aver mai commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue idee.
Poi, certo, il fascismo non spuntò dal nulla. Lo stesso Gobetti lo definì “l’autobiografia della nazione”. Seppe approfittare con spregiudicatezza del clima di paura creato dal “biennio rosso”, seguito al trauma della Grande Guerra e alla rivoluzione bolscevica in Russia. Molti liberali e molti cattolici si illusero di poterlo usare contro la sinistra, senza rendersi conto del mostro che avevano contribuito a rafforzare.
Certo, il fascismo ebbe anche consenso, in particolare negli anni segnati dalla conquista dell’Etiopia. Ma c’è un altro mito da sfatare.
Non è vero che gli italiani sono stati tutti fascisti. È solo un’altra sciocchezza autoassolutoria.
È sempre difficile misurare il grado di consenso a una dittatura; quando non hai alternative, quando non voti se non per finta, quando devi prendere la tessera del partito per lavorare, quando devi fare attenzione a non parlare male del dittatore se no ti aspettano sotto casa e ti sfasciano la testa, ti umiliano davanti ai tuoi figli, ti tolgono casa, libertà, lavoro. Organizzare un’opposizione era quasi impossibile, pena il carcere, il confino, l’esilio.
Anche per questo il numero degli antifascisti militanti fu ovviamente ridotto, pur se prezioso e significativo.
Ma se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti, che motivo c’era di mantenere una polizia politica e il Tribunale speciale? Che ragione c’era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli omosessuali o chiunque venisse percepito come “diverso”, di costringere gli italiani al rituale un po’ retorico un po’ ridicolo del sabato fascista? Senza dimenticare quel che subirono le donne, considerate “fattrici” e sottomesse agli uomini: non tutti ricordano che alle italiane fu reso sempre più difficile lavorare fuori casa, rendersi indipendenti, decidere del proprio destino.
Margherita Sarfatti
Margherita Sarfatti
La bonifica dell’Agro Pontino - iniziata prima del regime e terminata dopo -, la costruzione di qualche bella casa dell’architetto Terragni ripagano gli italiani della vita agra che è stata loro imposta per oltre vent’anni, compresi tre anni di guerra mondiale e due di guerra civile? Per dirla con lo scrittore Carlo Fruttero: “I fascisti erano brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i teschi, i manganelli, i pugnali, le brutalità. Orrendi”. Neanche Carlo Fruttero era comunista, anzi. Era torinese, però; e a Torino la vendetta fascista fu particolarmente crudele.
Dopo la marcia su Roma, dopo aver preso il potere, gli squadristi sistemarono i conti con i quartieri e con le città che avevano loro resistito.
Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la spina dorsale spezzata. Poi devastarono i quartieri popolari di Torino, uccisero quattordici operai, forse più, legarono il segretario della Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade. Scene da Far West. Da delinquenti in senso tecnico. Il tutto sapendo di avere le spalle coperte dal regime che avevano instaurato. Si può immaginare qualcosa di più vigliacco, di più odioso? Purtroppo, si può.
La razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti. Ma ad andare a prendere gli ebrei di Venezia casa per casa - i bambini all’asilo, i vecchi negli istituti - furono fascisti italiani. Era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 1943. Oltre trecento non sono mai tornati dai campi di sterminio, dove morirono più di ottomila ebrei italiani.
Del resto, fu lo stesso Mussolini a dirlo, in Parlamento: “Se il fascismo non è stato altro che un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”. Certo, lo diceva provocatoriamente. Ma come delinquenti si erano comportati i fascisti, fin dagli esordi. E come tali si comporteranno, con il coltello dalla parte del manico, fino al 25 aprile 1945.
“Capobanda” fu definito Mussolini nel 1923 dal socialista Filippo Turati, che lo conosceva bene. “Capobanda” lo definì un ventennio dopo il gerarca Giuseppe Bottai, che lo conosceva benissimo.
Benito Mussolin
Benito Mussolin
Si sente dire: i nazisti erano peggio. È vero. I nazisti erano una banda di criminali. Si riproponevano apertamente di eliminare il popolo ebraico, di sopprimere zingari e omosessuali, di uccidere i bambini Down; e quando andarono al potere lo fecero. I pochi neonazisti, i tanti filofascisti, i tantissimi italiani che del nazifascismo hanno un’opinione indulgente non hanno forse mai sentito parlare di von Galen, che denunciò la strage dei bambini “non sani” che il regime stava perpetrando nella stessa Germania, e rischiò di finire impiccato. Von Galen non era comunista. Si chiamava Clemens August Joseph Pius Emanuel, era figlio del conte Ferdinand Heribert Ludwig von Galen e di una contessa. Di mestiere faceva il vescovo di Münster, e la denuncia la fece dal pulpito della meravigliosa cattedrale romanico-gotica. La reazione dei nazisti fu furiosa, qualcuno invocò la forca. Fu Goebbels a far notare che impiccare un vescovo non era una buona idea. (E comunque, quando Sophie Scholl e altri studenti cattolici dell’università di Monaco furono sorpresi a distribuire volantini antinazisti, vennero arrestati, torturati e decapitati). Il caso - ma forse non il caso - volle che tra i più accaniti resistenti alla barbarie naziste ci fosse un generale francese, Charles de Gaulle. La persona che amava di più al mondo, sua figlia Anne, era affetta dalla sindrome di Down. Morì a vent’anni, tra le braccia dei genitori. Allora de Gaulle e la moglie Yvonne fondarono un istituto dove venissero accolti e seguiti bambini come quelli che i nazisti sopprimevano. È utile ricordarlo; perché la scelta tra il nazifascismo e la democrazia non è una scelta tra destra e sinistra, ma tra civiltà e barbarie.
Con quei criminali tedeschi, e con il loro capo, i delinquenti italiani si allearono. Mussolini e i suoi accoliti copiarono da loro le odiose leggi contro gli ebrei (dopo aver già introdotto leggi razziste in Africa).
Seguirono i nazisti in una serie di guerre di aggressione, condotte con l’eliminazione fisica dei prigionieri, dalla Jugoslavia alla Russia, e con la caccia sistematica agli ebrei, compresi i bambini e i neonati (ma a volte difesi dai nostri soldati, ad esempio in Francia). E rimasero loro fedeli sino all’ultimo giorno, quando l’Italia e la Germania erano diventate campi di battaglia, cosparsi da centinaia di migliaia di morti innocenti.
Purtroppo, noi italiani ci siamo autoassolti da tutto questo. Dall’avere inventato un’idea – il fascismo - esportata in mezzo mondo, che ovunque sia andata al potere, anche dopo la seconda guerra mondiale, ha significato carcere, polizia politica, soppressione degli oppositori, razzismo, xenofobia, predominio dell’uomo sulla donna.
Per dimenticarlo, per far finta che non sia andata così, ci siamo inventati una storia a nostra misura. Ci siamo immaginati un Duce lungimirante, virile, onesto, severo ma giusto, seduttore ma buon padre di famiglia, duro ma generoso. Uno “con due palle così”.
È tempo di raccontare, e dimostrare, che Benito Mussolini era diverso dall’idea che ce ne siamo fatti. Che del fascismo noi italiani dovremmo vergognarci. Ma che per fortuna non tutti gli italiani sono stati fascisti. E che l’antifascismo non è “una cosa di sinistra”; è una cosa di tutti, è un valore in cui ogni italiano dovrebbe riconoscersi.
Uno
Toglietemeli di torno” Storia di Ida Dalser e di Benitino
Benito Mussolini
Benito Mussolini
“La presi lungo le scale, la gettai in un angolo dietro la porta e la feci mia.
Si rialzò piangente ed avvilita e fra le lacrime mi insultava. Diceva che le avevo rubato l’onore. Non lo escludo. Ma di quale onore si parla?”.
È di fatto il racconto di uno stupro. Ma Benito Mussolini se ne compiace. Lei è una delle sue prime “conquiste”: Virginia B. Questo era il rapporto del futuro Duce con le donne. Poi, certo, negli anni del potere molte gli si offriranno: anche una al giorno, raccontano.
Violento lo era stato sin da bambino. A scuola andava con un coltello in tasca, e in una rissa lo estrasse per ferire alla mano uno dei compagni. Altri li prendeva a sassate. Da ragazzo aveva sempre con sé un pugno di ferro e un coltello a serramanico, che usò per colpire una donna, Giulia Fontanesi.
Giulia aveva il marito lontano, militare a Sulmona. “Disponevo di lei a mio piacere” annota Mussolini. Che però era gelosissimo, anzi possessivo.
Pretendeva che Giulia non uscisse mai di casa. Un giorno che la sorprese per strada la assalì urlando e le addentò un braccio. Durante un altro litigio, quando lei gli disse che era libera di comportarsi come credeva, lui diede mano al coltello e le conficcò la lama in una coscia.
Dopo gli anni passati da emigrante in Svizzera, andò a fare il maestro a Tolmezzo, dove visse - sono parole sue - “nell’abbrutimento, nella dissipazione fisica e spirituale”. Sembrava detestare tutto e tutti, in particolare i sacerdoti - “gendarmi neri al servizio del capitalismo” - , il cristianesimo, “obbrobrio dell’umanità”, e il tricolore, “uno straccio da piantare nel letame”. Un giorno il suo amico Dante Marpillero lo trovò con una pistola in mano, deciso a farla finita. Poi sedusse la padrona della locanda dove alloggiava, Luigia Pajetta Nigris, e di fronte alle rimostranze del suo uomo reagì a pugni: “Nel pugilato la peggio toccò al marito di Luigia, più vecchio e più debole”. Entrava e usciva di galera, e non sempre per motivi politici: la prima volta fu arrestato per aver minacciato un agrario, tale Emilio Rolli - “ti svirgolo!” - , agitando un grosso bastone.
Con la sciabola, invece, ferirà Claudio Treves, in un duello furibondo (non si libererà mai, però, della paura del dolore fisico, in particolare del terrore per le iniezioni).
Racconterà la sorella, Edvige Mussolini, che i suoi rapporti con le donne erano “assai rapidi, poco importanti, con qualche crudeltà, più crudeltà che abbandono”. Il “disprezzo per la donna” teorizzato dai futuristi fu da lui praticato.
Ma se c’è una storia che rivela davvero chi fu Benito Mussolini, è quella del figlio Benito Albino, e di sua madre Ida Dalser. Una storia che ancora oggi viene liquidata, anche nei libri non apologetici, in modo sbrigativo: lei era una pazza, il figlio pure; e i pazzi all’epoca finivano, e morivano, in manicomio.
Un fidanzamento pistola in pugno
Benito Mussolini
Benito Mussolini
In realtà, né Ida Dalser, né Benitino - così lo chiamavano - erano pazzi.
Erano semplicemente fastidiosi. Ricordavano al padrone d’Italia che, prima di diventarlo, si era infilato in una storia d’amore divenuta un pasticcio. Un ostacolo. E come un ostacolo madre e figlio erano stati rimossi.
La vera storia di Ida e Benitino, della donna e del figlio del Duce, è venuta alla luce grazie a una lunga inchiesta giornalistica, durata decenni. Il primo a occuparsene fu Alfredo Pieroni: trentino, cronista nella Germania della ricostruzione e nella Roma della dolce vita, grande amore di Oriana Fallaci. Su suggerimento di Luigi Barzini, Pieroni nel 1946 lavorò alla storia del figlio segreto del Duce. Fu lui a trovare, a casa di Adele Dalser, sorella di Ida, le lettere di Mussolini. Negli anni Trenta il dittatore aveva dato l’ordine di recuperarle e distruggerle; ma la famiglia le aveva nascoste dentro un pappagallo impagliato. Grazie a questi documenti, e ad altre carte ritrovate da Marco Zeni e Fabrizio Laurenti, oggi possiamo ricostruire la vicenda, che ha ispirato il film di Marco Bellocchio Vincere! (dove Benitino è interpretato da Filippo Timi).
Siamo nel 1914. Mussolini ritrova a Milano una giovane donna trentina, che ha conosciuto - e con cui forse ha avuto una relazione - cinque anni prima, al tempo del suo soggiorno a Trento. Ida Dalser è una donna moderna. Volitiva, determinata. Ha amato un uomo potente, Giuseppe Brambilla, l’amministratore delegato della Carlo Erba, che le ha promesso di sposarla ma non ha mantenuto. Ora è single. Si è diplomata a Parigi in medicina estetica, nel 1913 si è trasferita a Milano, e ha aperto quello che oggi definiremmo un centro estetico: il Salone orientale di igiene e bellezza Mademoiselle Ida. È un successo. Milano è già la città più ricca d’Italia, le signore della borghesia cittadina apprezzano. Ida ha talento per gli affari, guadagna bene, mette i soldi da parte.
Di soldi Mussolini ha molto bisogno. Il giornale che ha fondato, Il Popolo d’Italia, può contare sui capitali dei tanti che hanno interesse all’intervento dell’Italia nella guerra, dagli industriali ai francesi. Ma il Duce non riesce a far breccia in quello che sperava fosse il suo pubblico: tranne qualche eccezione, i socialisti restano contrari al conflitto. Le tirature non crescono, il denaro non basta mai. Ida accetta di aiutarlo. Considera Benito il suo uomo. Non sa, o finge di non sapere, che lui vive con un’altra donna, Rachele Guidi, che gli ha dato una figlia, Edda.
Rachele è molto diversa da Ida. È una contadina romagnola, figlia di Annina, la compagna del padre di Mussolini, Alessandro, il fabbro di Dovia. Benito ha visto Rachele e l’ha presa, dopo averci provato con la sorella, Augusta, che l’ha respinto a ceffoni. Un giorno ha sorpreso Rachele a ballare con un altro, gliel’ha strappata di mano e l’ha riaccompagnata a casa, tormentandola per tutto il percorso con pizzichi e spintoni. Poi l’ha trascinata in campagna, a casa di un’altra sorella, e le ha ordinato di non muoversi da lì e non farsi vedere da nessuno.
La madre di Rachele sapeva quanto Benito fosse violento e manesco, ed era contraria all’unione. Ma lui si è presentato davanti a lei e al padre tenendo con una mano la ragazza e con l’altra una pistola, gridando: “Se non mi date Rachele, qui ci sono sei colpi. Uno per lei, e cinque per me”. In sostanza, stava minacciando di morte il padre e la madre della donna che voleva sposare. Nessuno dei due osò correre il rischio.
Ora Rachele vive per lui. È gelosa, ma accetta i suoi tradimenti. È quasi analfabeta, non sa scrivere molto più della propria firma, può fare poco per aiutarlo nella sua ascesa giornalistica e politica. Mussolini del resto non c’è quasi mai. Gli interessa avere, all’occorrenza, il letto fatto, il cibo pronto, i vestiti puliti. Rachele - che lui chiama Chiletta - non è felice a Milano.
Quando potrà disporre degli agi di Villa Torlonia, a Roma, negli anni del potere, ritroverà la propria dimensione domestica, si prenderà cura dell’orto, dei due maiali tenuti all’ingrasso, del pollaio. Darà a Mussolini altri quattro figli, anche se subirà sempre la personalità della primogenita Edda, cui il Duce è legatissimo. E quando si tratterà di decidere la sorte di Galeazzo Ciano, Rachele spingerà per la fucilazione: occorreva punire il genero che aveva tradito.
Anche di “donna Rachele” gli italiani hanno un’immagine edulcorata, quasi tenera. In realtà, dietro la maschera della rezdora romagnola, c’era una donna attenta e arcigna, piena di diffidenze e rancori contadini, con una sua rete di collaboratori e informatori, anche nella polizia. Del resto, Rachele vedrà sempre la tragedia in cui il fascismo aveva precipitato l’Italia soltanto dal punto di vista del suo uomo, e di come quella tragedia potesse influenzarne gli interessi e l’umore.
Un f
Benito Mussoli
Benito Mussoli
iglio riconosciuto e mai più visto

Ida Dalser, invece, è sinceramente appassionata alla vicenda politica del suo amante. Lo appoggia, lo finanzia, partecipa alle infuocate assemblee in cui i socialisti inveiscono contro Mussolini (“voi mi odiate, perché mi amate ancora … ”), schiaffeggia uno dei suoi accusatori. A lui piace tutto di lei: la erre arrotata, una certa allure francese da Belle Époque, e anche il denaro.
Sono anni in cui Mussolini è attratto da donne che possono sostenerlo nella sua ascesa sociale. Tenta invano di sedurre Leda Rafanelli, eccentrica figura di scrittrice convertita all’Islam (“Quando vorrò portare una parentesi nella mia vita tumultuosa, congestionata e solitaria, verrò da voi” le scrive. “Mi farete vivere ore orientali … “). A Leda confida: “Ci sono due donne che mi amano follemente. Ma una è troppo brutta, pur avendo un’anima nobile e generosa”. È Angelica Balabanoff, esule russa. “L’altra è bella, ma ha l’anima subdola, avara, sordida anzi. È ebrea”. Il suo nome è Margherita Sarfatti.
Mussolini è attratto dalle donne. Ma dopo averle prese - è lui stesso a scriverlo, in una nota autobiografica citata da Antonio Scurati - si sente “irresistibilmente attratto dal proprio cappello”, cioè spinto dall’impulso a mollare lì la preda e ad andarsene. Il disprezzo per la donna è tale che al futuro Duce piace l’orrenda definizione coniata da Giovanni Papini: “orinali di carne”. Papini: un personaggio citato nelle antologie su cui abbiamo studiato come grande scrittore. Capace in realtà di frasi come queste, in occasione dell’entrata in guerra: “Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne … Non si rinfaccino, ad uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere … Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”. Papini però la guerra non la fece: era molto miope e si fece riformare, evitando così le lacrime a sua madre. Non a caso, aderirà al fascismo, dedicherà il primo - e ultimo - volume della sua storia della letteratura italiana “al Duce amico della poesia e dei poeti”, firmerà l’infame Manifesto della razza; dopo l’8 settembre troverà scampo in convento.
Con le parole, Mussolini ci sa fare. Le sue lettere a Ida del 1914 e del 1915 denotano complicità - “i miei nemici cominciano a tremare” – e anche coinvolgimento: “Anch’io ti amo, mia cara Ida, quantunque non abbia potuto dartene una prova”. E ancora: “Ti ho nel sangue, mi hai nel sangue”. Lei lo ama davvero, non solo a parole: lo protegge con il suo corpo da un esaltato con un pugnale in mano, che vorrebbe punire Mussolini in quanto traditore del socialismo.
Benito Mussolini
Benito Mussolini
All’inizio del 1915, Ida rimane incinta. Per lui è un momento particolarmente difficile: le casse del Popolo d’Italia sono vuote, e il suo biografo più accreditato, Renzo De Felice, ipotizza che la principale fonte di finanziamento sia proprio il capitale della Dalser; che per pagare la tipografia e i giornalisti è arrivata a cedere il suo salone di bellezza, a portare i suoi gioielli al Monte di Pietà, a vendere il suo appartamento di via Foscolo. Ora vive in una piccola stanza d’albergo. E inizia a dubitare della sincerità dell’amante. Lui le promette di sposarla. E la rassicura: “Carissima, a mezzanotte, mentre affrettavo il mio lavoro per passare qualche ora con te, non sei venuta. Io comprendo il tuo stato d’animo, ma ti prego, ardentemente ti prego, di non precipitare le cose. In questi giorni trovati un appartamentino e io troverò il danaro per pagarlo. Sarai ancora bella, felice, adorabile. Tu sai come stanno le cose. Perché questi scoraggiamenti, queste disperazioni?”.
Il piccolo Benito Albino nasce l’11 novembre 1915. Mussolini è al fronte da due mesi. Prima di partire ha giurato a Ida eterno amore. Le ha anche intestato il sussidio militare cui ha diritto: è la conferma della solidità apparente del loro rapporto, e anche del fatto che lei è rimasta senza soldi per lui. Un documento del Comune di Milano attesta che “la famiglia del militare Mussolini è composta dalla moglie Ida Dalser e da figli numero uno”. In realtà, non c’è stato nessun matrimonio; solo un escamotage per mantenere Ida e il bambino.
Il 18 dicembre 1915 lei lo va a trovare all’ospedale di Treviglio, dove il bersagliere Mussolini è ricoverato per un attacco di itterizia. In braccio ha il bambino che non ha ancora un padre. Lo implora di riconoscerlo. Lui le promette di sistemare definitivamente le cose, di sposarla al più presto, non appena recupererà le forze. In realtà si è sposato tre giorni prima. Con Rachele. Che è di nuovo incinta; stavolta di un maschio, che si chiamerà Vittorio, come auspicio per il trionfo finale.
Sono i giorni in cui il futuro Duce scrive il diario di guerra, che diventerà un libro di culto dopo la sua presa del potere. Si presenta come “soldato tra i soldati”, costretto ad accontentarsi del grado di caporale: il corso ufficiali gli viene negato per i suoi trascorsi socialisti … In realtà, Mussolini non è certo abbandonato a se stesso in trincea. L’ordine superiore è evitargli i rischi: serve di più come direttore di un giornale interventista. Non gli viene risparmiato però un rimprovero, per la sua crudeltà. È lui stesso a raccontare l’episodio: “Stamani, all’alba, ho dato il buon giorno ai tedeschi, con una bomba Excelsior tipo B, che è caduta in pieno nella loro trincea. Il puntino rosso di una sigaretta accesa si è spento, e probabilmente anche il fumatore”. Nessun rimorso, nessun ripensamento, anzi: “Stanotte conto di dormire a lungo”. Il giorno dopo si scopre che il lancio di quella bomba ha fatto quattro o cinque morti. Il suo capitano lo rimprovera. Un conto è uccidere in combattimento; un altro è ammazzare così, per il gusto di farlo, fuori da qualsiasi logica, con la conseguenza di inasprire il nemico e rendere difficile anche la quotidianità dei commilitoni. “Perché hai fatto questo, figliolo?” gli chiede l’ufficiale. “Erano in crocchio, fumavano, forse parlavano dell’amorosa”. E lui, impettito e seccato: “Signor capitano, allora andiamo tutti a spasso in Galleria a Milano, che è meglio!”.
Tanto agli assalti Mussolini non partecipa. E quando resta ferito da una bombarda che esplode durante un’esercitazione, sarà prima ricoverato in ospedale, poi congedato.
La madre di suo figlio in camicia di forza
Benito Mussolini
Benito Mussolini
Ida ha saputo. Ha scoperto che Benito si è sposato con un’altra, e l’ha ingannata. Nel gennaio 1916 si rivolge al tribunale. Lui è costretto a riconoscere il figlio. Ma ormai quella donna ingombrante è diventata una seccatura; a maggior ragione adesso che non ha più un soldo. Meglio tenersi Chiletta, che non crea problemi.
Ida non si rassegna. Ha perso tutto per causa sua. Ha un figlio da mantenere. Ha amato Benito totalmente, e lo ama ancora. Si agita, si affanna. Alterna dolcissime dichiarazioni d’amore a sceneggiate, va nel cortile del Popolo d’Italia con il bambino in braccio a urlare: “Vigliacco, porco, assassino, traditore, vieni giù se hai il coraggio!”. Lui il coraggio di affrontarla non ce l’ha: si affaccia alla finestra e le risponde bestemmiando, con un revolver in mano.
Ida tiene duro, si presenta come la signora Mussolini, incontra Rachele e tra loro scoppia una lite furibonda. Tenta di trascinare dalla propria parte il grande rivale di Mussolini: il proprietario e direttore del Corriere della Sera, primo quotidiano del Paese, Luigi Albertini. Gli scrive, lo supplica di pubblicare la sua storia, di aprire una sottoscrizione per il mantenimento del bambino. Albertini le risponde con parole di conforto, però rifiuta di usare vicende private per screditare un avversario.
Si va per avvocati. Il tribunale di Milano condanna Mussolini a versare alla Dalser duecento lire al mese; ma lui non lo farà. Non vuol saperne di vedere il bambino né tanto meno sua madre. Riesce anzi a farli allontanare dalla città, con il pretesto che lei è “cittadina austriaca”, e quindi pericolosa per la patria. Ida e Benitino sono costretti a partire per Caserta. Per un anno, lui è tranquillo. Alla fine della guerra lei ritorna; ma vivere a Milano è troppo caro, e decide di trasferirsi a Sopramonte, il paesino in provincia di Trento dov’è nata, a casa della sorella Adele e di suo marito, Riccardo Paicher.
Mussolini, implacabile, scrive a un funzionario romagnolo in servizio alla questura di Trento: “La persona di cui mi parli è una pericolosa squilibrata e criminale ricattatrice. Falla sorvegliare e cacciala in galera, che è il suo posto naturale”. Ma siccome motivi per arrestare Ida proprio non ce ne sono, Mussolini tenta un’altra strada. Si rivolge al fratello: “Vedi tu se riesci a togliermela di torno”.
Arnaldo Mussolini ha un carattere mite, è molto cattolico. Prende a cuore la questione. Fa avvicinare Ida e le propone una somma importante, centomila lire, per farsi da parte. Il cognato e la sorella le consigliano di accettare; lei rifiuta. Non si rassegna alla prospettiva di crescere un figlio da sola, nell’ambiente bigotto della provincia italiana, lontano dall’uomo che ama e da cui si sente defraudata. Ma Mussolini nel frattempo è diventato il capo del governo.
Nel 1926 il ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, va in visita a Trento.
Ida lo conosce e tenta di farsi ricevere. Ha 46 anni, sa ancora truccarsi e vestirsi con eleganza. Vuole un colloquio con il Duce. La reazione è fulminea. La Dalser viene ricoverata a forza nel manicomio di Pergine Valsugana.
Il dottor Tullio Banfichi, otorinolaringoiatra ma soprattutto centurione della Milizia fascista, la dichiara pazza. Altri medici compiacenti confermano la diagnosi. Per undici anni Ida Dalser sopravviverà tra veri malati di mente, urla deliranti, cimici, “celle puzzolentissime”, camicie di forza. Lei però non è affatto pazza, lo confermano le lettere che scrive dalla sua prigione, che gli incaricati di Mussolini - informato su tutto – le impediscono di spedire. Sono messaggi che rivelano un animo acceso da una passione eccessiva, ma certo lucido e padrone di sé.
Così Ida descrive il suo arresto: “Al mio apparire fui presa, picchiata, legata, narcotizzata, beffeggiata, gettata nell’auto col bavaglio alla bocca fino alla questura. Colà, dopo avermi perquisita e torturata nei modi più volgari, mi hanno gettata per terra stretta fra una camicia di forza”. Eppure lei si illude ancora che Mussolini possa essere estraneo a quello che le stanno facendo: “Tu non sai nulla, tu non hai mai dato alcun ordine e con questo certissimo pensiero sfiderò tutti”. Gli chiede di farla uscire da quel “putridissimo manicomio, dove non hai alcun diritto di farmi seppellire”.
Lo implora di non “fare insultare la madre di tuo figlio, almeno per la pace della tua coscienza”. Gli offre il suo perdono, “perché sei il padre di mio figlio”.
Ida scriverà centinaia di lettere, anche al Papa e al re, tutte inutili: nessuna sarà mai spedita, la direzione del manicomio ha ordini precisi; Ida Dalser ufficialmente non esiste più. Tenta una fuga disperata, ma la prendono subito. Alla fine si rassegna: “Sono una povera morta stesa nel suo sudario”. Si spegne nell’ospedale psichiatrico di San Clemente, a Venezia, il 3 dicembre 1937, a 57 anni, prostrata da un duro regime carcerario, segnato dalla camicia di forza e da pesanti cure farmacologiche che ne hanno logorato il corpo e la mente.
Benitino narcotizzato dalla polizia
Benito Mussolini
Benito Mussolini
Ancora più crudele sarà la sorte di Benitino. Pochi giorni dopo che la madre è stata chiusa in manicomio, si presenta a casa Dalser un gruppo di poliziotti. Stavolta sono lì per il figlio. Con loro c’è il commissario prefettizio di Sopramonte, Giulio Bernardi, nominato tutore del bambino, che ha solo undici anni: una scelta incomprensibile e disumana; Benitino vive con gli zii, che gli vogliono bene, ricambiati, e potrebbe restare tranquillamente con loro. Infatti il piccolo non vuole seguire quello sconosciuto e i poliziotti, reagisce con forza, chiede aiuto. Adele e il marito si oppongono a quello che a tutti gli effetti è un rapimento.
Tra urla e spintoni, un poliziotto afferra un fazzoletto imbevuto di cloroformio, lo preme sul volto di Benitino, lo narcotizza, lo strappa ai familiari. Portato via di peso, il figlio del Duce viene caricato sull’auto che attende sotto casa e condotto a Rovereto, all’Istituto educativo provinciale di Sant’Ilario.
Il posto è orribile. La gente lo chiama “il ricovero dei derelitti”. È un orfanotrofio costruito dagli austriaci, dove sono rinchiusi i figli illegittimi e ragazzi che hanno alle spalle famiglie difficili, violente, alcolizzate.
Secondo le testimonianze, Benitino è sempre in disparte. Triste e taciturno, non partecipa ai giochi degli altri bambini. Si anima solo davanti alla foto del Duce appesa in corridoio: “Quello è mio padre” dice fiero.
Essere il figlio dell’uomo più potente d’Italia diventa la sua ragione d’essere, il suo motivo di orgoglio, la sua identità; non si rende conto che è la sua condanna.
Come spesso accade in questi casi, la somiglianza fisica conferma che Benitino è davvero il primo figlio maschio di Benito. Un motivo in più di allarme per le autorità. E poi il piccolo non sta quieto: tenta la fuga, racconta in giro la tragica storia della madre portata via e rinchiusa chissà dove. La voce corre, troppi occhi in città sono puntati sull’istituto.
Se ne occupa di nuovo Arnaldo Mussolini. Il fratello del Duce si è sinceramente affezionato a Benitino, che a sua volta lo considera davvero uno zio. Così viene trovata un’ottima sistemazione: il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, dove studiano i rampolli dell’aristocrazia e della ricca borghesia torinese.
Benito Mussolini
Benito Mussolini
Neanche lì, però, il ragazzo riesce a fare amicizia con i compagni. Lo descrivono “troppo orgoglioso, troppo ostinato nelle sue certezze”: come se avesse preso dal padre pure il carattere. Gli somiglia anche nel gestire e nel parlare, tanto che a volte diverte gli altri studenti con imitazioni esilaranti.
Zio Arnaldo viene a trovarlo e gli scrive lettere come questa, del luglio 1929, l’anno della conciliazione con la Chiesa: “So che sei ubbidiente verso i tuoi buoni superiori. Di questa ultima cosa ti faccio una speciale raccomandazione. Spero di venirti a trovare fra non molto tempo. Ad ogni modo rassicurati che penso spesso a te e al tuo avvenire. Sii buono e sii bravo e ricevi un abbraccio dal tuo affezionatissimo Arnaldo”.
Benitino vive finalmente un periodo tranquillo. Ma nel dicembre 1931 Arnaldo Mussolini muore all’improvviso, d’infarto, a soli 46 anni. Viene meno un elemento di moderazione, prezioso per il dittatore. E il suo figlio segreto, che mai ha voluto vedere, perde l’unico punto di riferimento.
Pochi mesi dopo, a 17 anni, Benito Albino torna a Trento, dal tutore Giulio Bernardi, quello che l’ha portato via da casa con i poliziotti e il cloroformio. Viene iscritto prima all’istituto tecnico, poi all’istituto agrario di San Michele all’Adige, infine alla scuola navale di La Spezia. Il ragazzo è a disagio, soffre, e non smette di proclamarsi figlio del Duce, nonostante i divieti e gli avvertimenti a stare zitto. I testimoni lo raccontano come spigliato, divertente, e simile al padre in modo impressionante. Una minaccia ancora più insidiosa dopo la firma del Concordato con il Vaticano: nulla di peggio di un figlio illegittimo, proprio ora che il Duce deve mostrarsi buon padre di famiglia.
Si decide così di spedire Benito Albino il più lontano possibile: in Estremo Oriente, dove tra le concessioni di Tientsin e di Shanghai c’è una piccola flottiglia italiana. Il ragazzo ha diciotto anni. Anche ai commilitoni si presenta come il figlio di Mussolini. Non resta che una soluzione: farlo sparire.
Nel 1935 riceve un falso telegramma, che gli annuncia la morte della madre: è una scusa per rimpatriarlo. Appena arrivato in Italia viene preso in consegna dalla polizia, che lo porta al manicomio di Mombello di Limbiate, vicino a Milano. Medici compiacenti lo dichiarano pazzo e lo rinchiudono nel reparto Agitati, tra pidocchi e scarafaggi. Dopo qualche mese lo spostano tra i Semiagitati. La diagnosi parla di “delirio di persecuzione”: è chiaro che la sua unica follia è dirsi figlio di suo padre.
Nel 1942 Benito Albino muore. Non ha ancora ventisette anni. Non sappiamo nulla di preciso delle sue sofferenze. Secondo i documenti, le cause del decesso sono “consunzione” e “deperimento fisico”.
Probabilmente è solo il modo di mascherare un omicidio, compiuto con trenta massicce iniezioni di insulina: vere e proprie torture, autorizzate dagli psichiatri, che lo mandano in coma per nove volte, come dimostrano le cartelle cliniche ritrovate dal giornalista Marco Zeni. Il giorno della morte è il 26 agosto: al padre resta meno di un anno di potere.
Mussolini sapeva che Benito Albino era sepolto vivo in manicomio? Gli si può attribuire l’atrocità di aver fatto sopprimere il proprio stesso figlio?
Non ci sono prove. Ma la maggioranza dei ricercatori che si sono occupati di questa storia afferma categoricamente di sì. La polizia di Mussolini era al suo personale servizio, lo informava di ogni dettaglio della vita privata dei gerarchi, di amici e nemici: difficilmente avrebbe taciuto al Duce notizie di suo figlio. E difficilmente l’apparato repressivo del fascismo avrebbe disobbedito alla richiesta di commettere un delitto. Fosse anche quello di eliminare, o di lasciar morire, un ragazzo innocente.