Il paese di sabbia
di Michele Serra Rep 161199
Forse, per fare i famosi conti col famoso passato, basterebbero un geometra, un geologo e un ingegnere. Che srotolino i mappali polverosi, rifacciano i carotaggi dei terreni, ricalcolino la portanza dei piloni. E ci aiutino a ricordare su quanto cemento, e quanta sabbia, e quanta poca legge poggia l'Italia fatta dai nostri padri poveri.
I telegiornali sono carichi di polvere, la polvere soffocante e appiccicosa che sprigiona dai crolli e dalle demolizioni. Quella tragica del condominio di Foggia, che l'ingiusto processo del tempo ha sgretolato senza dare la parola alla difesa, e quella pur sempre desolante di Palermo, di Catania e prossimamente di Agrigento, dove le ruspe spianano, senza poter troppo distinguere, l'arroganza dei prepotenti e la sventatezza degli incauti. Sono quasi sempre case brutte, ma sono case. Nelle quali si è vissuto, e qualcuno ci è entrato in una culla, qualcuno ne è uscito in una bara. Vederle in macerie spiana la vista, in molti casi, a un paesaggio migliore. Ma schiude la memoria, anche, a un passato dimenticato eppure prossimo, quello del primo grande Boom italiano, dai primi Sessanta fino a metà dei Settanta. Quando, scriveva Calvino, "gli edifizi nuovi facevano a chi monta sulle spalle dell'altro", e al Nord le seconde case, al Sud le prime, crescevano come l'erba, nutrite più dall'assenza di piani regolatori che dalla presenza del cemento armato, risparmiando sul quale si poteva spremere qualche milione in più da ogni lotto conquistato al mattone.
In certe disperate difese odierne dell'abusivismo di massa di quegli anni, furberia politica a parte, echeggia anche l'indifendibile ma rispettabile memoria di una fatica titanica. Fu, quella, la nostra Lunga Marcia: le rimesse degli emigrati, i risparmi degli operai, il sogno popolare di una "casa moderna", anonima ma funzionale, invece degli antichi rustici e tuguri che poi i professionisti di città e i turisti avrebbero recuperato, ma all'Italia ex-contadina parevano soltanto la faccia impietrita della miseria. Di contro l'entusiasmo degli ambientalisti, che affiancano le ruspe increduli di avercela fatta, racconta la frustrazione di mille battaglie perdute, di cento campagne inascoltate. Come certi giudici inquirenti, che per una vita si sono visti avocare i processi e insabbiare le inchieste, per gli ambientalisti italiani comincia adesso, nell'ora tanto attesa del "via libera", la difficile ricerca della giusta misura tra legalità da ripristinare e vendetta da consumare a suon di mazzapicchio.
Tolti questi due estremi sentimenti, colpisce invece la quasi totale assenza, nel paese dei roventi dibattiti, di un vero dibattito. E dire che niente ci parla con tanta eloquenza del passato, della prima Repubblica, dell'ultimo cinquantennio, quanto quei piloni pencolanti, quelle mura atterrate. Parlano di febbrile crescita e insieme di precarietà, di operosità e di leggerezza incosciente. Parlano, soprattutto, di fretta, della formidabile ma patologica fretta con la quale, in nemmeno due generazioni, il nostro paese uscì dai campi per inurbarsi, uscì dal passato per diventare "moderno". Forse che non c'è ancora traccia, di quella spaesante accelerazione, nell'affanno attuale per "raggiungere l'Europa", risanare bilanci rosi dai debiti, adeguare tutti i parametri (economici, civili, culturali) a quelli di chi, per farsi i parametri suoi, è partito con un secolo e anche più di anticipo?
Se non è un alibi, e non lo è, la fretta è però una spiegazione. Una verificabile, ragionevole spiegazione dei nostri sconquassi, del forzato bluff che fu da noi "il moderno", della debolezza strutturale che ci fa percepire noi stessi, ancora adesso, come un paese povero abitato da ricchi. Come un paese che ha condotto in porto, negli ultimi cinquant'anni, soprattutto una laboriosa finzione. Che è meno solido di quanto appaia quando si contano i suoi infiniti muri, tirati su senza troppe domande su come e quanto avrebbero retto.
Eppure l'Italia fisica non appassiona quanto l'Italia ideologica. Come se per esempio la Dc, premurosa levatrice del benessere da un lato, complice della faciloneria e dell'illegalità dall'altro, non fosse perfettamente descritta, nel bene e nel male, dall'attuale paesaggio italiano, così ricco di intonaci scrostati, di pilastri pericolanti, di ricchezze per metà legittimate dal lavoro, per l'altra metà gonfiate a dismisura dall'evasione fiscale, dall'elusione delle leggi, dall'ignoranza delle regole. Come se il nostro sviluppo, lo stesso che vediamo smottare a ogni piena, tremare a ogni seria ricognizione delle autorità, non fosse così tragicamente svelato, in tutta la sua disarmonica abnormità, da queste giornate di fango e macerie, di polvere che mozza il respiro, di bare allungate sotto un capannone.
1999 - Il paese di sabbia
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