Rep. 02.12.98
Fine della politica?
L'aumento dell'astensionismo, l'Italia e gli altri paesi
di Paul Ginsborg

Adolf Hitler
Adolf Hitler
I dati parlano chiaro. A ogni elezione, il numero di italiani che non si recano a votare aumenta: per la Camera dei deputati la percentuale del non voto è stata del 15,6 per cento nel 1987 e del 23 per cento nel 1996. Nelle elezioni locali, come abbiamo appena visto, la flessione è ancora più drammatica. Mentre il 40 per cento degli iscritti ai Democratici di sinistra ha più di cinquant'anni, le indagini condotte fra i giovani ci dicono che la politica, assieme alla religione, risulta sempre agli ultimi posti nella loro gerarchia di valori. Se ne deve dedurre che dopo il 1989 stiamo assistendo alla fine non della storia, come vorrebbe Fukuyama, ma della politica? E se è così, possiamo fare qualcosa?
La risposta a questi interrogativi è necessariamente complessa. In primo luogo gli italiani si trovano soltanto adesso a dover fare i conti con quella che già da molti anni è la realtà delle "normali" democrazie dell'Europa settentrionale.
Se si escludono momenti eccezionali, la politica è materia di secondaria importanza come rivela la non elevata affluenza al voto nelle elezioni politiche e quella ancora più bassa nelle consultazioni locali. In Gran Bretagna la partecipazione al voto in occasione delle elezioni amministrative è in media intorno al 30 per cento. Nel complesso, le cosiddette democrazie "mature" non sono caratterizzate dalla partecipazione, dalla presenza di una gioventù politicizzata, da dibattiti appassionati.
Piuttosto, esse sono accomunate da un generale consenso sui valori e sulle regole del sistema democratico, ma anche da un'apatia e da un disinteresse diffusi. Si tratta di tristi realtà, forse non inevitabili, ma certamente da non nascondere.
L'eccezionalità del caso italiano non sta quindi nella direzione che il paese ha imboccato, quanto nell'esperienza da cui proviene. Quando due contrastanti visioni del mondo trovano espressione politica nei due maggiori partiti di una nazione, la politica diventa necessariamente oggetto non solo dell'impegno individuale, ma anche della conversazione quotidiana. E nonostante che negli ultimi venti anni l'importanza della politica sia diminuita in modo netto anche in Italia, sono ancora evidenti molte tracce della sua precedente e ben radicata naturalezza. Mentre non ricordo di aver mai parlato di politica con il mio barbiere in Inghilterra, posso affermare che in Italia mi è sempre capitato il contrario.
Non è del tutto vero inoltre che i giovani italiani non vengono più coinvolti dalla politica; non lo è, per esempio, per significative minoranze che privilegiano semmai la politica che si colloca su posizioni estreme.
Adolf Hitler
Adolf Hitler
Un mio amico, che insegna in un Istituto tecnico-industriale nel padovano, mi ha descritto il suo stato d'animo, assieme impaurito e affascinato, quando nella primavera del 1997 si è trovato ad assistere, giorno dopo giorno, al crescere della febbre secessionista fra i 600 studenti della sua scuola. A loro Bossi offriva avventura, identità, prospettiva di conflitto. Nelle elezioni del 1994 le più forti correlazioni fra il voto giovanile e i partiti sono state riscontrate in An, la Lega Nord e Rifondazione comunista.
Nel più ampio contesto europeo, che registra un po' dappertutto un diffuso sentimento di scetticismo nei confronti dell'attuale classe politica e delle sue motivazioni, il caso italiano si distingue per due caratteristiche. La prima è che la grande crisi del 1992-93, con la concomitante scomparsa dei vecchi partiti politici di governo, ha forse offerto la possibilità di una vera svolta nella cultura politica del paese. L'opportunità non è stata colta, e oggi nella politica italiana si respira un forte odore di stantio. La seconda, molto legata alla prima, è l'incapacità, almeno per il momento, del principale partito della sinistra di distinguersi per una sua visione innovativa.
Molti, nella sinistra italiana, operano uno sfavorevole confronto fra passato e presente: fra quello che una volta era un grande partito di massa e l'attuale rapida riduzione della sua diffusione sul territorio, il suo declino in termini numerici e l'inesorabile invecchiamento dei suoi iscritti.
Non esiste una bacchetta magica per trasformare queste tendenze. Oggi, i Democratici di sinistra sono un partito moderato di governo, e il moderatismo non si sposa bene con la militanza. Tuttavia, si potrebbe forse fare di più per saldare l'entusiasmo dei giovani a un progetto di riformismo di sinistra di ampio respiro. La prassi di partito sembra spesso più attenta alla gestione che alla trasformazione, più dominata dall'ordinaria amministrazione e dal carrierismo che da un progetto politico. Tali manchevolezze lasciano insoddisfatta la domanda di identificazione politica, spalancando la strada al populismo, che si basa su un'acritica relazione fra una massa di sostenitori e un leader carismatico. La televisione, con la sua richiesta di personaggi, di tempi rapidi e di pareri non articolati, favorisce queste tendenze.
Ciò che a sinistra è andato certamente perduto è un'arte politica che il vecchio Pci, nonostante i suoi molti errori, aveva profondamente compreso: quella di far sì che anche il militante o la militante più modesti sentissero che il proprio contributo rappresentava una minuscola parte di un progetto più ampio, mirante a cambiare in meglio le sorti dell'Italia. Dovrebbe ancora essere possibile, perfino in una democrazia "matura" e televisiva, riuscire a stabilire questo tipo di connessione, che sia libera dai dogmi e dai settarismi del passato e rispettosa di una società civile indipendente e in costante crescita.
(traduzione di David Scaffei)