Tre domande alla sinistra
Tra socialismo e liberismo
di Paul Ginsborg
A queste domande non vi sono risposte certe, ma io sono convinto che oggi vale la pena di compiere uno sforzo, anche sofferto, per ricostruire un partito di massa di sinistra in Italia. Ma con alcune avvertenze.
Prima di tutto, ognuno di noi deve essere quanto più possibile chiaro su cosa si intenda con le tre parole chiave contenute nella mia domanda iniziale.
Cosa è, oggi, "di sinistra", cosa è "politico", e cosa è un "partito"?
Essere di sinistra non può esaurirsi nel dichiarare la propria adesione a un vago, per quanto sacrosanto, socialismo liberale. Essere di sinistra significa avere la capacità di aggredire la realtà, di lasciarvi un segno. Un esempio, fra i tanti possibili. Oggi è molto in voga parlare di "uguaglianza delle opportunità", al posto di quella pericolosa e sovversiva "uguaglianza" che odora di Rivoluzione francese. Ma questo slogan risulta inutile e retorico, se non è accompagnato da un discorso molto chiaro su quanto la società italiana sia segnata da una grave e perdurante disuguaglianza strutturale delle opportunità. Storicamente, nel campo dell'istruzione sono sempre esistiti tre grandi elementi di discriminazione: il "gender", l'appartenenza geografica e la classe sociale. Se il primo è in via di superamento, gli altri due mantengono intatto il loro influsso negativo.
Essere di sinistra deve anche, per riprendere un' espressione di Pierre Bourdieu, implicare la "distinzione". Intesa non solo come eccellenza o diversità, quanto piuttosto come capacità di distinguere, di stabilire delle linee di divisione in base alle quali sia possibile elaborare un'identità politica. Nel mondo post-comunista della sinistra italiana, invece, quasi tutto è permesso: Cossiga può presiedere una Commissione parlamentare su Tangentopoli, quello che è storicamente inconciliabile può diventare oggetto di "riconciliazione", mentre l'etica pubblica e i valori dell'impresa rischiano di diventare indistinguibili. Ai vecchi dogmi si è sostituito un nuovo lassismo. Ma tutto ciò è assai pericoloso, in quanto disorienta la gente e la spinge al cinismo verso la politica. Abbiamo bisogno di un nucleo forte di valori e di posizioni, non rigide né settarie, ma chiare e storicamente motivate, con le quali sia possibile impegnarsi e identificarsi.
E il partito? Nel 1965, a Poggibonsi, nel cuore della Toscana rossa, il Pci aveva ancora 23 cellule di strada femminili, e ben 5.000 iscritti su 22.000 abitanti! Quei tempi sono finiti per sempre. Tuttavia, sono sicuro che vi sia ancora necessità e spazio per un partito di massa di sinistra. Necessità, se non altro perché vi è chi, sul lato opposto dello schieramento politico, non cessa di organizzarsi e dispone di mezzi assai consistenti. Spazio, perché negli ultimi venti anni il rapporto fra la società civile e quella politica si è profondamente trasformato. La tradizione comunista non aveva teorizzato l'autonomia della società civile, che troppo spesso considerava come una terra di conquista nella quale far prevalere la "giusta linea". Ma ora vi è il rischio opposto, che la società civile sia lasciata a se stessa e alle sue risorse (e spesso si tratta di risorse ben misere). Da un lato abbiamo quattro gatti, spesso in disaccordo fra loro, che cercano di migliorare una periferia, un quartiere, di combattere il degrado e l'inquinamento, di unire le persone in un'epoca di forte individualismo. Dall'altro, gli amministratori e i politici, impegnati in una delle loro interminabili riunioni, per decidere sulla prossima serie di nomine, mentre fuori l'astensionismo cresce a vista d'occhio. Il superamento di questo divario fra ceto politico e società civile è uno dei compiti principali di un partito moderno, di un partito che non sia chiuso e incerto allo stesso tempo, ma disponibile, democratico, profondamente diverso.