L’Astrolabio, n. 12 del 1980
Un padre
di Orazio Barrese
C'era una volta una scuola sperimentale …. Potrebbe cominciare così, quasi favoleggiando, il racconto di un tentativo di riforma dell'istruzione media superiore, avviato agli inizi degli anni '70, quando ancora le passioni e le speranze delle lotte studentesche e sindacali e anche la rabbia per la strage di Milano erano intense, brucianti, come immerse nella carne viva.
Di quel tentativo, avviato “dal basso” non rimane più nulla. V'è stata la morte per consunzione. Si sono lasciati arrivare gli studenti alla licenza liceale senza ripristinare le classi precedenti, con una procedura ipocrita e sottile che ha fatto leva sugli egoismi e sul disimpegno. Chi era già all'interno della sperimentazione, infatti, è arrivato fino in fondo e dal punto di vista dell'interesse personale non aveva nessuna lamentela da proporre; chi, invece, non era ancora nella scuola sperimentale ha continuato come prima, e non ha avuto quindi argomenti da far valere.
Ho vissuto, da genitore, l'esperienza della sperimentazione incominciata quasi in sordina in una sezione del liceo romano “Giulio Cesare”. Le mie due figlie frequentavano quella scuola e i loro entusiasmi, gli entusiasmi contagiosi dei loro compagni, trascinarono noi genitori ad occuparci più o meno attivamente di problemi scolastici.
“Stasera c'è un'assemblea. Non potete mancare”. E queste assemblee di genitori o tra genitori, docenti e studenti si tenevano quattro, cinque, persino sei volte in un mese. Era faticoso: dopo una giornata di lavoro alle spalle ci attendevano almeno quattro ore di dibattito, di analisi, di scontri anche. Ma, a ritirarsi, ci si sarebbe sentiti dei vermi, dopo che per anni avevamo parlato ai nostri figli di scuola nuova, di democrazia, di partecipazione. E poi anche per gli studenti era un sacrificio di non poco conto. Lo chiedevano a noi, lo imponevano a se stessi, che entravano a scuola la mattina e finivano nel tardo pomeriggio. Tempo pieno e rinunce, particolarmente pesanti negli adolescenti.
Studenti e docenti - e in una certa misura anche i genitori - si sentivano un po' come dei pionieri, impegnati a preparare se non la scuola almeno un'ipotesi di scuola del futuro.
In effetti le premesse c'erano tutte: il diverso rapporto, quasi paritario tra studenti e professori che si consideravano, pur nella diversità delle funzioni, le componenti di un collettivo culturale e, tenuto conto degli obiettivi di fondo, anche politico; nuove materie di insegnamento più consone agli interessi dello studente e più utili dal punto di vista pratico; studio inteso come approfondimento e ricerca e non come accettazione fideistica delle nozioni dei libri di testo; rifiuto del fiscalismo e appello all'autodisciplina. Naturalmente si trattava di verificare “sul campo” tutto questo, di apportarvi se necessario dei correttivi, perché ci si trovava di fronte a un esperimento che allievi e docenti facevano sulla loro pelle.
Purtroppo questa verifica non è avvenuta e molte delle speranze sono andate deluse. Per colpa di chi? Per colpa di tutti, ma soprattutto per colpa degli organi ministeriali che mal vedevano un esperimento del genere e che sin dal primo momento incominciarono a sabotarlo. I professori, ad esempio, ogni anno venivano nominati con ritardo di mesi; i locali per i primi anni costituirono un problema serio perché il provveditorato non si adoperò a trovare una sede; gli arredi e la biblioteca scolastica furono messi su in parte col contributo degli studenti. Tutto ciò incominciò a generare stanchezza. Dalla stanchezza si passò alla sfiducia e quindi al lassismo: la democrazia venne intesa da molti studenti come permissività. Ritenevano un loro diritto andare a scuola solo quando ne avevano voglia, senza dovere rendere conto a nessuno. Anche i piani di studio incominciarono a risentire di tale situazione. Buchi paurosi nella formazione culturale, programmi lasciati a metà, scarso impegno dopo qualche anno di entusiasmo.
Bisogna pur farla un'autocritica severa, proprio perché v'erano possibilità enormi. E lo dimostra quel che si è riusciti a fare. Ad esempio, gli studenti non intendevano fare temi in classe perché “è più che sufficiente scrivere i dazebao”. Non era sufficiente, invece, e ciò nonostante coloro che hanno creduto in questa scuola hanno potuto far tesoro dei nuovi indirizzi, della circolazione di idee, del sostegno dei professori che li seguivano assiduamente nello studio e nelle ricerche, dando un senso concreto al tempo pieno. Si sono formati così dei “ricercatori” i quali, pur non essendo abituati a scrivere, agli esami di maturità hanno fatto temi e presentato tesine su Wittegestein, su Levi Strauss, sul teatro medioevale, sulla geografia economica della America Latina: piccoli saggi che hanno sorpreso glì esaminatori per la ricchezza di documentazione, la profondità di analisi, la scioltezza di esposizione. Non a caso lo scorso anno la commissione di esami di maturità ha inviato al ministero della Pubblica istruzione una lettera con la quale chiedeva che la sperimentazione venisse continuata.
Se ciò è stato possibile senza essere “allenati” alla scrittura, è facile immaginare quali livelli si sarebbero potuto conseguire. E analoghe considerazioni valgono per la matematica, per la storia dell'arte, per le altre discipline.
La scuola sperimentale, dunque, è stata un vivaio di occasioni perdute.
Si è detto delle colpe. Ma c'è anche un vizio d'origine. La scuola – e mi riferisco sempre a quella nata dal “Giulio Cesare” e che quest'anno chiude i battenti - ebbe sin dall'inizio un carattere classista: la frequentavano, infatti, soltanto studenti appartenenti a ceti borghesi e professionali e risentiva di un certo sapore di privilegio. Attorno alla sperimentazione non vi fu quindi un effettivo interesse sociale e ciò impedì la possibilità di una larga mobilitazione in difesa di tutto quel che di nuovo e di positivo doveva esserci e che in parte c'è stato.
Il bilancio di questi anni presenta zone d'ombra e zone di luce. Entrambe implicite nella sperimentazione, anche se un diverso atteggiamento ministeriale e idee più chiare avrebbero potuto ridurre al minimo le zone d'ombra.
E' per questo che la sperimentazione in definitiva non può considerarsi fallita. Intanto sono tuttora valide le premesse di dieci anni fa per una nuova scuola dove la cultura sia intesa non soltanto come crescita privata ma anche sociale e dove la democrazia e la partecipazione diventino regola di vita e non alibi per abusi e prevaricazioni. E poi non si dovrebbe partire da zero, con una scuola da “inventare”, ma da una serie di risultati che, persino nei loro limiti, indicano la strada da seguire e i correttivi da apportare. In altri termini, c'è adesso un riferimento preciso. Quel che però induce al pessimismo è il fatto che al ministero e al provveditorato sanno ben poco di ciò che è accaduto. La scuola sperimentale è andata alla deriva, ha fatto tutto da sola nel bene e nel male.
E, senza dare un'occhiata al libro mastro, dove non mancano elementi incoraggianti, i burocrati della pubblica amministrazione, ossequienti al potere politico e allo spirito del riflusso, hanno deciso di chiudere la partita.
1980 - La scuola sperimentale degli inizi del '70
powered by social2s