L’illustrazione italiana, n. 26, Garzanti editore 30 giugno 1946, p. 432
Dopo il diluvio

La società I

di Raffaele Calzini

Gibson Girls
Gibson Girls
Il crepuscolo della sconfitta plana sulle macerie ideali della “società” come su quelle reali della città; emergono avanzi di antiche strutture e si accumulano frammenti di pompose decorazioni, di presuntuose eleganze che, tra pochi anni, saranno polverizzati e soffiati via da qualche vento di uragano. Blocchi sociali reggono e si puntellano con la caratteristica tenacia dei vecchi, tra irriconoscibili rovine: altri cercano di rimarginare crepacci spalancatisi nelle loro fortune, nei loro pregiudizi, nei loro ideali. E non mancano accenni di ricostruzione ad opera di uomini nuovi col sostegno di gerarchie nuove e sotto la spinta di nuove scalate. È un fenomeno che caratterizza non soltanto la società di Milano che fu in Italia la più europea, la più dinamica e la più orgogliosa durante il primo mezzo secolo del Novecento; si estende alla società stessa della capitale e a quella di altre città che definiremo, non per ironìa, ma con ammirazione, provinciali. Per giudicare questa morente “società” nel suo sviluppo e per definirla, bisogna risalire alla sua origine che coincide con l’aurora del secolo e ne è colorata di riflessi oro e rosa, e osservarla nel pieno di quell'anteguerra che Zweig definisce “welt von gestern” [Trad: Mondo di ieri, NdR]. La borghesia vi trionfava già, l'aristocrazia vi trionfava ancora. Le forze, le idealità, le umanità di queste due classi si erano dapprima avvicinate e poi alleate per un istintivo reciproco bisogno di difesa. Le prime intese cordiali si erano stabilite attraverso i contatti dei Grandi alberghi, dei balli di beneficenza, dei teatri, dei surf: anche, ma con riserva, dei club; è si erano rinsaldate in vincoli di affari, di matrimonii, di amori, di predilezioni estetiche, di affinità politiche. Questa società che non ancora giocava al golf, ma già al tennis, che faceva le prime scampagnate in automobile, ma giudicava con scetticismo l’areoplano e la telegrafia senza fili, che applaudiva Wagner, ma non ancora Riccardo Strauss, che ballava il “boston” e fischiettava il “valzer” della Vedova allegra, che definiva D'Annunzio immorale e Fogazzaro platonico, che non aveva in fondo preoccupazioni ideali né aspirazioni religiose, si avvicinava quanto più possibile alla imitazione del costume europeo se viveva in città come Roma e Milano (“capitale morale”), ma conservava un tono procinciale e regionale, (ma più riservato e stilé) a Palermo, a Genova, a Venezia, a Firenze, dove nelle conversazioni imperavano ancora i dialetti (a Torino il francese) e nell'uso quotidiano certe predilezioni che andavano dalla cucina casalinga al taglio un po’ speciale dell'abito; e al folclore della vita in villa. Nella mondanità delle due capitali, e con minor riflesso nelle altre città italiane, un potente lievito, malgrado la sua innocua apparenza e la sua ironizzata pretesa, apportò lo snobismo. Era fatto di indiscriminata ammirazione per tutto quanto venisse d’Oltralpe; la moda femminile da Parigi e quella maschile da Londra, il teatro dalla Francia e lo sport dall'Inghilterra, la tecnica e la kultur dalla Germaria. Nazioni immense e formidabili come la Russia e la stessa America non avevano riflessi nella vita della società italiana che cominciava allora a leggere Tolstoi (e assai meno Dostoievski); conosceva Ciaicovski ma ignorava Mussorgski, Glinka, Rimski Korsakov, e giudicava con sorpresa e ironia l'ambasciatore degli Stati Uniti (l'uccisore dei leoni Teodoro Roosevelt) e sbalordiva alle eccentricità di quelle signorine “yankee” che erano soprannominate le “Gibson girls” dal nome del disegnatore che le aveva illustrate.
Gibson Girl
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Lo snobismo, ché è fisicamente internazionale, portò paradossalmente nella società italiana il retaggio. e il lustro del nazionalismo: Kipling e Nietzche fecero scuola tra gli intellettuali da salotto. Nei club più aristocratici si ammirò Chamberlain col monocolo e la gardenia, si. parteggiò per Barrés e Delcassé contro i dreyfusardi. Quando il meno elegante, il meno snob, il meno elegante “sociale” degli uomini di Governo, Giovanni Giolitti, portò l’Italia in Tripolitania, il nazionalismo, passò dalla teoria alla pratica, dalla elite alla classe e si cominciò a tingere di più accesi colori imperialisti. La società lo adottò senza riserve beandosi di leggere, o recitando nei salotti, quelle Canzoni d’oltremare che il Corriere della Sera (organo tipico e per eccellenza della società, si diceva, “benpensante”). stampava in prima pagina con una pomposa e fatidica presentazione su quattro colonne che, in antico, toccò soltanto, crediamo, alle rivelazioni mosaiche dettate sul monte Sinai! Il teatro, che in Francia imperialeggiava con l'Aiglon (e anche col Cyrano), in Italia nazionaleggiava con le commedie di Enrico Corradini; con Più che l'amore (e relativo, odore indefinibile del Sud) e poi con La nave (“fa’ di tutti gli Oceani il mare nostro”) di D'Annunzio, mentre l'irredentismo era fiancheggiato da commedie popolari Romanticismo di Rovetta e il Tessitore di Tumiati: e perfino, dopo Carducci, da inni e orazioni di poeti pacifisti come Pascoli. Su questo trampolino era fatale che l’Italia spiccasse il salto per entrare nel dramma del novecentoquattordici: la società aveva pronte le menti, le fabbriche, ma un po’ meno le ricchezze, le giovinezze per fare la guerra. A vittoria ottenuta la società si sentì, non soltanto, più nazionalistica e più imperialistica di prima; ma comunicò la sua premessa ideologica al fascismo che era sorto con la speciosità di un movimento sociale e di uno sfruttamento della vittoria. Al consolidamento di conquiste morali e materiali ottenute dalle classi dirigenti con la guerra del ’14 c'era anche un titolo; la società aveva preso parte alla guerra; figli della società (e anche snob e nazionalisti) e impenitenti elegantoni di quelli che avevano fatto il bello e il brutto tempo all’angolo di Via Condotti o di Via Manzoni, avevano combattuto: erano morti. Non tutti arruolandosi volontari nelle armi privilegiate e “chic” come l'aviazione e la cavalleria; ma anche sopportando duri mesi, e anni nella fanteria di trincea e nelle truppe l'assalto. La stessa Croce Rossa aveva mobilitato dame e signorine della borghesia e della aristocrazia; una solidarietà quasi totale aveva cementato gli italiani durante la guerra contro gli Imperi Centrali. Borghesia e aristocrazia fuse in una sola vittoria erano le stesse che, prima della guerra, furono documentate sul teatro da Giacosa (Come le foglie), da Praga (La crisi); dopo la guerra da Niccodemi (I pescecani, L'aigrette), più tardi ancora da Moravia (Gli indifferenti) se non si vuol considerare come documento la interpretazione che ne diede, poetizzando e immoraleggiando, Guido da Verona. Trionfò dopo il 1920 una nuova promiscuità, le classi si allargavano, accolsero facilmente nuovi adepti. Anche Paradisi vietati dello snobismo, come L’Unione a Milano. La caccia è Roma, Il Whist a Torino, aprirono le loro porte a uomini nuovi: le “mesalliances” non si contarono. Una frenesia ottimistica e spendereccia spingeva rampolli dell'alta borghesia e della aristocrazia divenuti maggiorenni, dame divorziate e deluse, ragazze indipendenti, sulla via della eccentricità, della stravaganza prodiga incosciente.
Gibson Girl
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Passata abbastanza presto, la mania, post-bellica degli stupefacenti, quella meno pericolosa delle “sbronze” in stile americano rimase; e rimasero e più attecchirono come una nuova moda e con la permeabilità internazionale del costume e della letteratura “maladive”, vizii e pervertimenti, che fino allora erano stati rari ed eccezionali nel belmondo italiano. Certe località in determinate stagioni “di passo”, come Venezia o Capri, divennero convegno di parassiti, di invertiti appartenenti alla “buona società” di tutto il mondo: a furia di offrire la cornice gli italiani assunsero qualche maniera del quadro. Il sincopato delle musiche negre, la lettura dei versi pornografici di Verlaine, il decorativismo dei balletti russi (vecchi di quasi vent'anni ma assorbiti e assimilati a poco a poco), le stravaganze delle mode e delle acconciature (feminizzanti gli uomini e mascolinizzanti le donne) crearono agli invertiti un pretesto eccentrico e una etichetta raffinata. La gretteria, il conservatorismo, il tradizionalissimo, la ipocrisia, il pudibondo rispetto umano, (virtuosi difetti della società precedente) furono quasi dovunque sostituiti da un “incanagliamento” tipico delle classi che hanno perduto la loro ragione di essere e la fede nella loro predestinazione. Così gran dame romane divennero celebri per il linguaggio scatologico o per la loro impudicizia; figli di industriali laboriosi, per la loro prodigalità e il far niente aristocratico, il cabotinismo delle loro pose da dilettanti.
Gibson Girl
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Le conversioni alle nuove forme d'arte, l’accettazione di tendenze che erano parse ostiche o addirittura sacrileghe divennero di prammatica per un certo “chic” e per un certo “snob”. I festival internazionali abituarono gli italiani al linguaggio degli Strawinski, degli Hindemith, degli Honegger; le mostre retrospettive al “gusto dei primitivi”, la diffusione delle riviste di arredamento e di architettura al vangelo del razionalismo. Così si videro trionfare nuovi elementi decorativi nell’ammobigliamento e nell'arredamento delle case, nuove architetture nell’urbanesimo delle città. Surrealismo. postimpressionismo cubismo fovismo - divennero vocaboli da principio rari e poi correnti nel linguaggio e nel mercato dei collezionisti che volevano essere “à la page”. Si videro i primi “match-di boxe” , le prime partite di pallacanestro. Alle competizioni sportive (sopratutto quelle dell’automobilismo, della vela, del motoscafo) la società. diede spettatori appassionati scommettitori audaci, campioni coraggiosi; e quattrini. Qualche signora della società prese il brevetto di aviatore; altre si dedicarono alla caccia perché le riserve (garantite da nuove leggi) si eran impinguate di selvaggina, e le partite di caccia con l’intervento di altezze reali erano di moda. I caporioni. della nuova plutocrazia possedettero panfili sui quali non navigavano per paura del mal di mare, scuderie da corsa alle quali poco si interessavano. Nuove ricchezze e nuove nobiltà si strusciarono accanto alle antiche, o soltanto alle vecchie, per trarne splendore e legittimità. E anche qui nozze che scambiarono i titoli nobiliari di un coniuge con titoli al portatore dell'altro. Le alleanze suggerite dalla opportunità. galvanizzavano in un tutto unico anche elementi eterogenei, né aristocratici né borghesi, accorsi alla stessa grandiosa fiera di vanità e illuminati dalla stessa parata di fuochi artificiali. Le feste della grande (o alta) società richiamavano ospiti occasionali e interventi fanatici da ogni parte d'Italia: come certi balli in casa Morosini, in casa Agnelli, in casa Giovanelli, in casa Raggio, in casa Florio. Negativamente storico rimase il famoso ballo “in bianco” dei Pecci Blunt (alla Marlia) proibito. all'ultimo momento per ragioni razziali (cosa nuova negli annali del ‘protocollo, dell’eleganza e del viver civile).
(Continua)