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L’Unità del 14 novembre 1999
Chi vuole rivalutare il fascismo?
La campagna del Foglio e l’intervista a Bobbio
Piero Sansonetti

13 Non Mollare
13 Non Mollare
Ho l’impressione che si sia aperta una specie di campagna politico-giornalistica, ben organizzata, che punta a mettere sulla difensiva e a smantellare la cultura italiana di sinistra. Contestandole tutto e spingendola a sentirsi in colpa.
Qual è l’obiettivo?Non so, credo che l’obiettivo, di per sé, sia anche abbastanza nobile: quello di costruire in Italia una cultura di destra,visto che da diversi decenni la cultura di destra, qui da noi, è davvero gracile, minoritaria, poco fantasiosa. Una parte della destra italiana si è resa conto che è difficile realizzare un disegno serio di “presa del potere” se si è completamente disarmati sul piano culturale.
Non si può scommettere tutto sul qualunquismo.
Per un periodo breve va benissimo, poi ci vuole qualcosa di più solido. Evidentemente si è pensato che una cultura di destra può nascere, pur tra tante difficoltà, solo se il campo è vuoto. Se ci si è del tutto affrancati dalla cultura precedente.
Punta di lancia dell’offensiva contro la cultura di sinistra è il Foglio di Giuliano Ferrara. Fatto curioso, ma forse molto razionale.
Giuliano Ferrara è un intellettuale di sinistra prestato alla destra. O forse sarebbe meglio dire, un intellettuale di sinistra che ha fatto la scelta tattica di schierarsi a destra. Forse non è un caso che la campagna parta da lì: il deserto culturale della destra non dà spunti per iniziare una battaglia. L’unica soluzione è affidarsi a un esponente dell’altro campo, a un uomo di formazione marxista e addirittura togliattiana. Il Foglio ha costruito in questi ultimi giorni la campagna di autunno su due pilastri. Il primo è la polemica contro il manuale di storia Camera- Fabietti, uno dei più diffusi nei nostri licei, accusato, in sostanza, di filo-comunismo.
Il secondo pilastro è stata l’intervista a Norberto Bobbio nella quale il vecchio studioso liberale ammetteva di avere avuto - negli anni 20 e nei primi 30 - un comportamento di doppiezza di fronte alla dittatura.
L’obiettivo della campagna contro il Camera-Fabietti, suppongo, è ottenere il ritiro di questo libro dalla scuole e la sostituzione con un testo più conservatore, possibilmente anticomunista.
L’obiettivo dell’intervista a Bobbio - pubblicata l’altro ieri e ripresa ieri con grande evidenza - è quello di iniziare a far lavorare il tarlo anti-antifascista (due volte anti). Cioè, in parole povere, far filtrare questa tesi storica: tra fascismo e antifascismo passò un confine sottile.
Esagerato solo successivamente dai comunisti.
Tra Pitigrilli, intellettuale torinese che faceva di nascosto la spia dell’Ovra, e Leone Ginzburg, che fu arrestato e praticamente ucciso su spiata di Pitigrilli, non c’era poi una distanza abissale. Non c’era distanza tra Ciano e Pajetta, tra Gentile e Gramsci.
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
E’ normale che la destra sviluppi questa campagna e ci metta impegno. Perché?
Per il semplice motivo che l’antifascismo è ancora la più potente carta di credito della sinistra italiana.
Ritirargliela sarebbe un gran colpo, la si lascerebbe al verde.
Nei giorni scorsi si è molto parlato della Libertà e del suo rapporto coi vari sistemi politici e con i diversi pensieri politici di questo secolo. Lo si è fatto a proposito del rapporto tra comunismo e libertà. Allarghiamo il discorso: la borghesia italiana sa perfettamente di avere riottenuto la libertà e la dignità nazionale, dopo il tragico errore di aver appoggiato il fascismo, solo grazie alla straordinaria azione, politica e militare, dell’antifascismo, guidato soprattutto dal partito comunista e dalla componente liberaleazionista di Gl.
Non è così? Si può discutere sul peso militare che l’antifascismo e la Resistenza hanno avuto nella liberazione del paese; non si può discutere il peso morale che hanno avuto, permettendo il riscatto di una dignità nazionale che era stata annientata dal fascismo, dalla monarchia, dalla viltà delle vecchie classi dirigenti borghesi e liberali.
Ecco perché annullare il valore dell’antifascismo è un gioco che vale una posta politica enorme. E’ la condizione per la conquista dell’egemonia politica e culturale da parte della destra.
Non si capisce però perché la sinistra sembri un po’ intimidita di fronte a questa offensiva. Non ha le carte, le idee per rispondere?
Il Giornale l’altro ieri ha pubblicato, lungo ben tre pagine, un nuovo testo che ricostruisce l’intera storia del socialismo europeo, sia dal punto di vista teorico che da quello politico. Era firmato da Berlusconi. Che dobbiamo fare? Dire che sì, forse Berlusconi è uno storico più attendibile di Villari e Spriano?
L’Unità del 16 novembre 1999
Cara Unità: attenta all’azionismo
Giuliano Ferrara
Caro direttore, mi accusate di essere un togliattiano di formazione che ha scelto tatticamente la destra e che manovra, da destra, per svuotare la cultura di sinistra del suo primum movens, l’antifascismo (parlo dell’articolo di Piero Sansonetti, pubblicato domenica). È un po’ quello che dice Fausto Bertinotti di Massimo D’Alema: un togliattiano di formazione che ha scelto tatticamente (opportunisticamente) l’alleanza con una certa destra, e che lavora per svuotare la sinistra del suo primum movens, la sociologia classista dell’antagonismo e del conflitto. Per D’Alema non so.
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Per quanto mi riguarda, quel che pensate non è vero per due motivi: il primo di dettaglio e il secondo un poco più complicato.
Il motivo di dettaglio è che faccio, come te, il giornalista, dirigo un Foglio, cerco di alimentare il giornale, con l’aiuto dei miei collaboratori, di cose che abbiano interesse.
Se uno studente mi scrive e riporta brani faziosi di un manuale di storia, faccio una verifica e cerco di costruire su questo un’iniziativa giornalistica e culturale. Tagliata, con un’opinione, ma senza faziosità di rimando. Come spiegato nella prima pagina del supplemento del Foglio sulla “storia stupefacente”, non esistono “libri da buttare”, come esistevano per i Quaderni piacentini degli anni Sessanta, perché nel secolo dei roghi nessun libro si può disprezzare ed eliminare fisicamente, nemmeno il faziosissimo e influentissimo Camera-Fabietti. Se Norberto Bobbio vuole parlare del suo fascismo giovanile con Pietrangelo Buttafuoco, che amo e pubblico più che posso perché lo considero un eccellente scrittore civile, ovviamente non mi sottraggo alla primizia, allo scandalo e alla bellezza di una vecchiaia che si dà con tanta generosità. Niente manovra, dunque.
Il motivo più complicato per cui Piero Sansonetti sbaglia è questo.
Non è dall’arsenale di destra che prendo le mie idee, ma dalle cose che mi hanno insegnato tra l’altro anche i miei padri comunisti togliattiani, i maggiori della mia giovinezza comunista, che erano molto diversi (nel male e nel bene) da quella variante discutibile del liberalismo e dello stesso azionismo che è “l’azionismo torinese” dei non-molto-miti-giacobini (da me conosciuto bene e combattuto a tempo nell’epoca della violenza politica e del terrorismo, anche per ragioni biografiche che qui non interessano). Che erano molto diversi (parlo sempre dei togliattiani) dal grande partigianato secchiano-longhiano del ribollente e combattente Nord.
Il punto chiave è quello dell’antifascismo cosiddetto militante.
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Per me ancora oggi l’antifascismo è un presupposto, un’ovvietà costituzionale. È un principio di legittimazione della Repubblica, che però non mi vieta di credere nel superamento di quella Repubblica ciellenista come forma istituzionale e non mi obbliga al bigottismo dell’antifascismo come “religione civile”. Se Sergio Romano, autore che stimo molto, scrive cose intelligenti e eterodosse sulla guerra di Spagna, e sulla funzione in essa della tattica cominternista e staliniana, lo leggo avidamente. Se conclude con spirito paradossale che il franchismo è stato un esito preferibile a quello, virtuale, di una vittoria dei repubblicani, perché la Spagna in quel caso sarebbe divenuta una democrazia popolare, esprimo il mio amichevole dissenso di metodo e di sostanza sul mio giornale, senza problemi. Ma che il franchismo non fosse un “fascismo” come gli altri, un regime totalitario assimilabile ai demoni degli anni Trenta, l’ho imparato a suo tempo da mio padre, che me ne parlava apertamente (i comunisti togliattiani avevano una doppia verità e una doppia cultura, ma sapevano all’ingrosso come stavano le cose). E sono laicamente felice di reimpararlo dalle ricerche di Romano. E mi indispettisce che qualcuno, su giornali che si ergono a tutori e custodi di un’ortodossia ideologica che non è la mia, ma nemmeno la tua o la vostra, lo sottopongano a una specie di linciaggio morale.
Così, quando leggo nei testi della migliore scuola de feliciana che il peso degli alleati è stato documentalmente sottostimato nell’ambito di una storiografia resistenziale che puntava sulla massima legittimazione nazionale della Resistenza (la maiuscola è generazionale), non penso a una “manovra revisionista” nel senso turpe che gli ortodossi attribuiscono a questa corrente storiografica; penso ai comunisti romani, ai Ferrara, ai Trombadori, ai Bufalini e agli Alicata, e forse anche Giorgio Amendola, che custodiva l’ortodossia da vero eretico, permettendosi verità che negava il diritto di dire agli altri. Penso che ho imparato da loro come il principio del realismo politico fosse stato decisivo nel dare all’Italia la chance di non affondare nel pantano della guerra civile, ma di risollevarsi invece, per un tratto con il Re e con Badoglio, dalle sabbie mobili di un partigianato nobile ma senza una politica.
Se sento parlare delle sconcezze e delle mascalzonate perpetrate in nome dell’antifascismo dopo la Liberazione (la maiuscola è generazionale), nella sindrome assassina di Piazzale Loreto, penso ad antiche lezioni familiari, ad Antonello Trombadori che difendeva Moranino ma, in privato, mi diceva con tremito della voce sua forte e chiara: Moranino ha fatto cose che non doveva fare. E non posso scordare la testimonianza resa all’autore, nel Togliatti dell’azionista torinese Giorgio Bocca, da Luigi Longo: Penso che Togliatti abbia capito l’importanza della Resistenza quando fucilammo Mussolini a Dongo.
Il che significa, e significava anche allora nonostante omissioni e reticenze e manipolazioni della nostra giovinezza, che c’erano stati due partiti della Resistenza, uno nazionale creato dalla svolta di Salerno e uno di ortodossia garibaldina, legato al vento del Nord e all’esperienza partigiana con le sue glorie e le sue tragedie, i suoi massimalismi e i suoi residui malmostosi che si porteranno fino al dramma del terrorismo degli anni Settanta, fino ai Giambattista Lazagna e ai disperati miti feltrinelliani e alle campagne borghesi-azioniste per la messa fuorilegge del Msi.
Negli anni in cui una sinistra estremista diceva che uccidere un fascista non è reato, e passava all’azione, noi stavamo dall’altra parte. Manifestavamo per impedire ad Almirante di parlare in Piazza San Carlo, a Torino (e sbagliavamo già allora, gravemente, in folta e ambigua compagnia), ma sudavamo sette camicie per cercare di espellere dalla piazza occupata dagli antifascisti l’ideologia del professor Guido Quazza, degli Istituti storici della Resistenza, e di altri guru del militantismo antifascista che parlavano della Resistenza come di un’occasione mancata, come di una stagione in cui all’intransigentismo morale (degli azionisti) si era sostituito il realismo machiavellico di Togliatti, con tutte quelle che i guru consideravano le degenerazioni successive (in sostanza: la politica del Pci contestata da sinistra).
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Vedi dunque, caro direttore, che una certa sensibilità politica e storica non ufficiale, come sempre nella storia delle idee e della politica, può avere radici disseminate in campi diversi, che oggi possono sembrare sorprendenti.
La stessa idea del fascismo come regime reazionario di massa, predicata alla radio da Ercoli (Togliatti), conteneva in nuce il ragionamento di Bobbio sullo sdoppiamento, la possibilità di essere fascista normalmente e ordinariamente, in famiglia e nella vita accademica giovanile, pur sdoppiando il proprio destino in un antifascismo che nessuno vorrà contestare meschinamente allo stesso Bobbio. E una volta che dovevo fare lezione a Pistoia, nella casa del popolo, ai ragazzi del partito, studiai i discorsi di Togliatti sul grande malinteso tra le generazioni: molti anni prima di Violante il capo dei comunisti disse chiaro e tondo che l’ansia nazional-patriottica, e perfino (ricordo bene) i riti della romanità imperiale che oggi ci sembrano una comica in costume, ebbero un senso e una funzione malintesa nell’avvicinare i giovani italiani, nell’età del fascismo del consenso, alla politica e alla civitas.
Come poi sia successo che le nuove generazioni berlingueriane e lo stesso Pds, dopo il crollo dei partiti di democrazia laica e cattolica, abbiano stipulato un patto tattico con la cultura azionista, imbalsamando i riti militanti del repubblicanesimo e dell’antifascismo in qualcosa che non ha niente a che fare con la realtà culturale e morale della vita del Pci, questo è materia di curiosità e di discussione. Ma non è necessariamente o solo da destra che arrivano campagne e manovre per ridiscutere i dogmi fondativi della Prima Repubblica. Queste idee fantasma parlano del nostro passato e dovrebbero eccitare il gusto della libertà di dire e di sentire senza costrizioni la nostra storia.
Ti ringrazio per l’ospitalità a questa testimonianza resa all’impronta, con i più cordiali e anche fraterni saluti.
GIULIANO FERRARA
CARO FERRARA
L’ANTIFASCISMO NON È DA REDUCI
Piero Sansonetti
Conosco Giuliano Ferrara da trent’anni, credo. Lui stava alla Fgci, l’organizzazione dei giovani comunisti, io invece stavo al Movimento studentesco, corrente capanniana.
Noi lo consideravamo un po’ di destra. Come adesso.
Ma gli riconoscevamo che tra tutti i “figiciotti” (noi dicevamo, con un po’ di disprezzo, “i revisionisti”) lui era quello più aperto. Ci si poteva discutere. Come adesso.
Non volevo insultarlo quando gli ho dato del marxista e del togliattiano - nell’articolo che ho scritto su l’Unità di domenica e al quale si riferisce questa polemica - volevo fargli un complimento.
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
E non volevo insultarlo neppure quando ho scritto che mi pareva si fosse posto alla testa di una campagna contro la cultura di sinistra. Le campagne non sono vigliaccate, sono il sugo della politica vera, la parte migliore. Non è così?
Questa sua lettera -pubblicata qui a fianco -mi pare una lettera seria e pacata, anche molto interessante, ma che conferma in pieno, direi, la tesi che avevo sostenuto domenica: cioè che è in corso un’offensiva culturale, robusta, che punta a rivalutare il fascismo italiano (diciamo a liberarlo dal ghetto di ignominia nel quale lo aveva posto la storiografia repubblicana, di sinistra) e a ridimensionare, appiattire un po’, il valore politico dell’antifascismo. Credo che l’obiettivo della campagna sia molto semplice: quello di togliere alla cultura di sinistra le sue fondamenta, la sua specialità, e quindi di abbatterla, o comunque indebolirla seriamente, perché solo così facendo si può tentare di costruire in Italia una cultura di destra - che latita da decenni - indispensabile ad un assetto politico conservatore.
Non c’è nulla di illegittimo in tutto ciò. La cosa di cui mi lamentavo - e mi lamento - è un’altra, e Ferrara non c’entra: non mi pare che la sinistra risponda nel modo adeguato a questa offensiva culturale. Mentre ne avrebbe i mezzi (non sono affatto d’accordo con l’articolo scritto ieri sulla Stampa da Pierluigi Battista a proposito dell’arretratezza degli intellettuali di sinistra: su questo tornerò più avanti).
La lettera di Ferrara tocca molti argomenti.
Provo - con la discrezionalità e la faziosità propria di tutti i riassunti – a sintetizzarne il senso in poche battute: il partito comunista era un doppio partito, aveva un’anima “democratico-togliattiana” e un’anima “resistenzial-partigiana”. L’anima resistenziale era la sua parte peggiore, ha generato il terrorismo, ha prodotto l’anti-politica, e soprattutto ha sofferto della nefasta influenza dell’azionismo e del giellismo (per intenderci: Rosselli, Valiani, Parri, Rossi, Foa eccetera, cioè la componente liberal-socialista della sinistra italiana). Nel vecchio Pci togliattiano dice Ferrara - l’azionismo era stato emarginato. Soprattutto grazie ad Amendola, cioè alla destra comunista, sempre realista.
L’azionismo è tornato a firmare un patto tattico col Pds in quest’ultimo decennio, e oggi ne costituisce l’anima nera.
Per questo un certo antifascismo “reducista” (appunto, azionista), estremista e apolitico, è da considerare - secondo Ferrara - la malattia dalla quale la sinistra deve guarire.
Dissento da queste tesi per varie ragioni.
La prima, la principale, è che trovo fuori posto le polemiche sul reducismo anti-fascista.
Non ci sono tanti tipi di anti-fascismo, non mi sembra. Naturalmente la discussione storica sul fascismo è assolutamente aperta e lo sarà per molti anni, e in questa discussione hanno spazio le tesi di tutti, comprese quelle un po’ paradossali di Sergio Romano. Ma un punto fermo c’è.
Espresso in “formule” è questo: il fascismo (e il fascismo inizia in Italia e non in Germania) non fu semplicemente un regime autoritario, fu un fenomeno politico internazionale che portò l’occidente alla barbarie e lo portò sull’orlo della perdita della civiltà.
Per sconfiggerlo fu necessaria una straordinaria alleanza politica e militare tra Stati e popoli diversissimi tra loro, e che nutrivano ideali, progetti, speranze politiche molto lontani gli uni dagli altri. Si ebbero milioni e milioni di morti, città rase al suolo, e si rischiò addirittura l’estinzione completa di un popolo, il popolo di Israele.
Per queste ragioni il fascismo non è paragonabile a nessun altro fenomeno politico – per quanto autoritario, sanguinoso e abietto - e per queste ragioni gran parte della storia e della teoria politica occidentale successiva al 1945 si fonda sui valori antifascisti.
Queste idee accomunano - o hanno accomunato - i liberali di sinistra del partito d’azione e i comunisti? Si, certo, ma non fu un male. La vicinanza con l’azionismo, sin dai tempi della clandestinità, è stato forse l’impulso più forte, dal punto di vista del pensiero, che ha spinto il Pci verso la sua maturazione democratica.
Siamo d’accordo?
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Non mi pare. Per questo, senza criminalizzare nessuno, penso che la sinistra dovrebbe ingaggiare una battaglia politica su questi temi. Sul campo della storia, della politica, della filosofia. E non c’è niente di male se noi e l’amico Giuliano Ferrara ci troveremo su trincee opposte.
Non condivido neppure la rilettura della storia del Pci che fa Ferrara. Mi pare che racconti di una destra comunista, amendoliana, saggia e democratica e di una sinistra quasi amica dei terroristi e – probabilmente - staliniana. Non è vero. Quando io mi iscrissi al Pci, circa un quarto di secolo fa - e Giuliano ne era già un dirigente – la ”mappa politica” era diversa: mi ricordo una destra molto stalinista, guidata da Amendola- che pure fu un grande e saggio personaggio politico - un centro berlingueriano e longhiano (Longo e Secchia, per carità, non erano affatto la stessa cosa...) relativamente anti-sovietico, e infine una sinistra che, sebbene avesse ancora molte confusioni ideologiche (per esempio il maoismo), faceva però della polemica contro la Russia e il comunismo-reale uno dei suoi punti di forza. A un certomomento, forse, le parti si invertirono, destra e sinistra comunista si cambiarono di posto.
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Dall'Astrolabio n. 25 del 1967
Si invertirono probabilmente nel 1989. Ma per un lungo periodo gli ingraiani, cioè la sinistra, erano gli innovatori, mentre Amendola - ancora nel 1980 - fu tra i pochi a non condannare l’invasione dell’Afghanistan.
E a questo proposito vorrei dissentire anche da Pierluigi Battista (mi riferisco all’articolo già citato, sulla Stampa di ieri).
È ingiusta la sua analisi sugli intellettuali di sinistra che sarebbero più conservatori dei dirigenti di partito. Non è mai stato così.
Sin dal 1956 il dissenso degli intellettuali – condannato ma non cancellato da Togliatti - spinse il Pci a rinnovare le sue posizioni e a riflettere su certi dogmatismi.
Gli intellettuali erano “avanti” rispetto al partito. È avvenuta la stessa cosa anche molti anni dopo, con la svolta. Gli intellettuali, e i giornali di sinistra, prima della Bolognina precedevano di un bel tratto di strada Botteghe Oscure. Mi ricordo che subimmo feroci reprimende quando nel 1988, con Renzo Foa, pubblicammo sull’Unità un articolo di Biagio De Giovanni che prendeva le distanze da Togliatti (era intitolato “c’era una volta Togliatti...”). Ci sgridarono anche molti attuali dirigenti del Pds, ci difese solo D’Alema. Due anni prima avevo rischiato il licenziamento per aver pubblicato un articolo di Umberto Cardia che metteva in dubbio i buoni rapporti tra Gramsci e Togliatti (quella volta mi salvò Chiaromonte).
Oggi una parte degli intellettuali non è d’accordo con Veltroni che dice “comunismo incompatibile con la libertà...”, o con D’Alema che “riabilita Dc e Psi”? Non è mica un delitto, o una prova di conservatorismo: è una prova di indipendenza.
Una sinistra forte ha bisogno di intellettuali indipendenti, che pensino da soli, che dissentano, che discutano. Non ha bisogno di intellettuali che corrano sempre appresso, per principio, a qualunque cosa dicano i capi.
Non è così?
Anche la destra ha bisogno di questo.
Mi pareva di aver capito che è esattamente l’obiettivo di Giuliano Ferrara.
Piero Sansonetti

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?