Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda, Mondadori 2022
Storia di Giacomo Matteotti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli
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Carlo (1899-1937) e Nello Rosselli (1900-1937)
Il vecchio leader del socialismo milanese era la bestia nera del Duce, da lui per primo definito “il capobanda”. Mussolini odiava Turati fin da quando capeggiava i rivoluzionari contro i riformisti. Preso il potere, ordina di rendergli la vita impossibile. Turati viene pedinato, privato di ogni fonte di sostentamento, la sua casa sistematicamente perquisita. Lui chiede di poter espatriare; il Duce glielo vieta negandogli il passaporto. È evidente che ci ha preso gusto. L’episodio più vergognoso avviene ai funerali di Anna Kuliscioff, da quasi quarant’anni la compagna di Turati. È il 29 dicembre 1925. I fascisti non rispettano neppure la morte e il dolore.
Aggrediscono le persone che seguono il feretro, strappano i nastri delle corone funebri, costringono lo stesso Turati a fuggire, saltando su un taxi, dalle esequie della sua donna. Gli squadristi cantano: “Con la barba di Turati noi farem gli spazzolini/per lustrare gli stivali di Benito Mussolini”.
È allora che un gruppo di personaggi d’eccezione decide, a rischio della propria stessa vita, di salvare il vecchio leader dalle persecuzioni e dalle umiliazioni. Le menti della fuga sono due. Il primo è Ferruccio Parri: eroe della Grande Guerra, più volte ferito, tre medaglie d’argento al valor militare, decorato pure dagli alleati francesi e americani; sarà il punto di riferimento morale della Resistenza. Il secondo è Carlo Rosselli.
Ventisette anni, è figlio di una famiglia ebraica, di ascendenze risorgimentali: Giuseppe Mazzini ha trovato rifugio ed è morto a Pisa a casa di suo nonno, Pellegrino Rosselli. Sua madre è la zia di un giovane scrittore, Alberto Pincherle, che diventerà celebre con il nome di Alberto Moravia. Suo fratello maggiore, Aldo Rosselli, è andato in guerra da volontario ed è caduto in combattimento nel 1916, gli hanno dato una medaglia d’argento alla memoria. Carlo è amico di Piero Gobetti. A Firenze ha frequentato il Circolo di Cultura di Gaetano Salvemini, più volte devastato dagli squadristi e chiuso dal prefetto con questa motivazione: “La sua attività provoca il giusto risentimento del partito dominante”.
Carlo Rosselli è antifascista e antistalinista. Teorizza un socialismo liberale. Con suo fratello Nello ha fondato un giornale clandestino e l’ha chiamato Non mollare. Vi collaborano Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, oltre a Salvemini. Scrive Rosselli: “Forse non avrà apparentemente alcuna positiva efficacia, ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi”.
Il regime se ne accorge, e cominciano le violenze. Salvemini è arrestato per “vilipendio del governo”; liberato in attesa del processo, si rifugia dai fratelli Rosselli; gli squadristi lo seguono e devastano la casa. Altre camicie nere aggrediscono Carlo Rosselli a Genova, dove insegna economia politica all’università. Il governo interviene; non per punire i bastonatori, ma per togliere la cattedra al bastonato.
Turati viene nascosto prima a Ivrea, nella casa di un imprenditore antifascista, Camillo Olivetti, e poi a Torino, da Giuseppe Levi: in famiglia c’è anche una bambina che ricorderà per sempre quella notte, Natalia Levi, che sposerà un martire del nazifascismo, Leone Ginzburg.
Parri ha verificato che passare in Svizzera o in Francia via terra è impossibile, i valichi sono presidiati. Si decide per la fuga via mare, in Corsica, partendo da Savona. Il punto di riferimento sul posto è un giovane avvocato, che è già stato aggredito tre volte dai fascisti: l’hanno bastonato perché portava una cravatta rossa, e perché rendeva omaggio alla memoria di Matteotti; quaranta giorni prima gli hanno spezzato un braccio a manganellate. È stato anche in carcere, per aver diffuso un opuscolo dal titolo Sotto il barbaro dominio fascista. Si chiama Sandro Pertini.
Con il denaro di Carlo Rosselli un amico di Pertini, Lorenzo Da Bove, si procura un motoscafo. Al timone c’è Italo Oxilia, capitano di lungo corso.
La sera dell’11 dicembre 1926, un’auto corre veloce da Torino a Vado Ligure, evitando i posti di blocco. Turati è a bordo. La guida il figlio di Camillo: Adriano Olivetti.
La barca attende attraccata a un molo dismesso. È notte. Il mare è in tempesta, cadere in acqua equivale a morte certa, ma rimandare non si può.
Oxilia e Da Bove si alternano al timone, e la loro abilità si rivela provvidenziale.
La traversata dura dodici ore. Turati, Pertini, Parri e Rosselli attraccano al molo di Calvi, dove vengono arrestati. Ma quando i gendarmi corsi capiscono chi hanno di fronte, l’atteggiamento cambia: il circolo repubblicano di Calvi organizza un ricevimento in onore di Turati, che viene poi portato a Nizza. Non tornerà più in Italia. Morirà a Parigi sei anni dopo. Il suo corpo sarà traslato in patria nel 1948. Ora riposa al Monumentale di Milano, accanto ad Anna Kuliscioff.
Dei quattro protagonisti di quell’avventura, il primo - Parri – diventerà presidente del Consiglio, il secondo - Pertini - presidente della Repubblica, il terzo - Adriano Olivetti - sarà il più innovativo industriale della Ricostruzione. Il quarto, Carlo Rosselli, verrà ammazzato dal regime.
Parri e Rosselli ritornano con il motoscafo a Marina di Carrara, dove vengono arrestati. Mussolini è furibondo per lo smacco internazionale.
Il processo si apre il 9 settembre 1927. Quando la parola spetta agli imputati, Rosselli dichiara:
“Il responsabile primo e unico, che la coscienza degli uomini liberi incrimina, è il fascismo … che con la legge del bastone, strumento della sua potenza e della sua nemesi, ha inchiodato in servitù milioni di cittadini, gettandoli nella tragica alternativa della supina acquiescenza o della fame o dell’esilio”.
Poi tocca a Parri:
“Io che ho creduto nel valore civile della storia nazionale, che insegnavo in iscuola, io che nel 1916 ho inteso combattere per la grandezza morale della Patria e per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento e il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi”.
I giudici del tribunale di Savona sono uomini di coraggio. Rifiutano di trasmettere gli atti al Tribunale speciale, appena istituito da Mussolini, e applicano la pena minima di dieci mesi. Rosselli ne ha già scontati otto; tra poco sarà libero. Le leggi speciali, però, consentono al regime di infliggergli altri tre anni di confino, da scontare a Lipari.
Il 27 luglio 1929 Carlo Rosselli evade dall’isola, insieme con due compagni dalla vita avventurosa. Uno è Francesco Fausto Nitti: figlio di un pastore evangelico bastonato dai fascisti, pronipote dell’ex presidente del Consiglio, combatterà in Spagna contro Franco e nella Resistenza francese contro i nazisti. L’altro è Emilio Lussu, l’autore del più bel libro scritto da un italiano sulla prima guerra mondiale, Un anno sull’altipiano. Nel 1929, però, quelle vicende sono soltanto dentro la sua memoria; Lussu le fisserà sulla carta otto anni dopo. Nel 1926 i fascisti sono andati all’assalto della sua casa a Cagliari; abituati a picchiare vittime inermi, si sono dimenticati che di fronte hanno un “balente”, un capitano della brigata Sassari. Lussu non si è fatto intimidire e ha affrontato gli aggressori con le armi in pugno, ne ha ucciso uno che stava scavalcando la ringhiera di casa, ha messo in fuga gli altri. Il tribunale ha dovuto riconoscergli la legittima difesa. È al confino in quanto antifascista.
Rosselli, Nitti e Lussu fuggono da Lipari in motoscafo. Al timone c’è di nuovo Italo Oxilia, che li porta in Tunisia. I tre raggiungono la Francia, dove con altri fuoriusciti fondano Giustizia e Libertà. Furibondo, il Duce fa arrestare la moglie di Carlo Rosselli, Marion Catherine Cave, incinta di una bambina. Londra protesta: Marion non ha fatto nulla, inoltre è cittadina britannica, deve essere rilasciata. La figlia Amelia, detta Melina, nasce il 28 marzo 1930.
Dall’esilio francese, Rosselli e i suoi scrivono i Quaderni di Giustizia e Libertà, e tentano di farli arrivare in Italia. Un gruppo di giovani torinesi, tra cui alcuni allievi del professor Augusto Monti al liceo D’Azeglio, si riuniscono per leggerli e discuterne. Non hanno alcuna esperienza politica, sono lontanissimi da qualsiasi idea di violenza, non si rendono neppure conto del pericolo che corrono. Scoperti dall’Ovra, la polizia segreta del regime, pagheranno un prezzo altissimo. Mussolini se ne occupa personalmente, anche perché l’episodio risveglia la sua idiosincrasia per Torino: così dà indicazione al tribunale di essere particolarmente severo.
Per un giornale e qualche chiacchiera poteva succedere, nell’Italia del Duce, di essere condannati a quindici anni di carcere, come accade a Vittorio Foa, che ne sconterà otto, sino alla caduta del regime.
Quando nel 1936 scoppia la guerra civile spagnola, Carlo Rosselli prende le armi. Ad agosto combatte la sua prima battaglia, alla testa di una colonna di 150 antifascisti reclutati in Francia: si spara sul fronte dell’Aragona, su un’altura che uno dei volontari, il repubblicano Mario Angeloni, prima di cadere in combattimento chiama Monte Pelato, e così passerà alla storia. È il tempo del fronte popolare contro il fascismo; per i comunisti ora Rosselli non è più un “ideologo reazionario”, un “fascista dissidente”, come l’aveva definito Togliatti. Rosselli però avrà sempre un rapporto teso con i comunisti; simpatizzerà semmai con gli anarchici.
Il 13 novembre 1936 pronuncia a Barcellona parole destinate a restare:
“È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta … “.
Ammalato, Carlo Rosselli passa in Francia per curarsi, a Bagnoles-del’Orne, in Normandia. Lo raggiunge il fratello Nello, cui stranamente il regime ha concesso il passaporto. È una trappola: Nello serve per arrivare a Carlo. Ciano ha ordinato al generale Mario Roatta, capo dei servizi segreti, di organizzare un complotto per uccidere i due fratelli. Il Duce ovviamente sa. Gli esecutori materiali saranno i miliziani della Cagoule, formazione eversiva della destra francese.
A Carlo e a Nello viene teso un agguato. Li fanno scendere dall’automobile, poi sparano. Nello è il primo a cadere. Carlo muore sul colpo, il fratello è ancora vivo: viene finito a pugnalate. I corpi saranno trovati due giorni dopo e sepolti a Parigi, al Père-Lachaise. Ai funerali partecipano 150 mila antifascisti italiani e francesi. La Cagoule ha ricevuto in cambio dal regime una partita di armi, mille fucili che devono servire a un colpo di Stato contro il Fronte popolare, che l’anno prima ha vinto le elezioni. Una voce sostiene che nell’assassinio fosse coinvolto anche il futuro presidente socialista François Mitterrand, che a vent’anni simpatizzava per la Cagoule. Non ci sono prove; ma il fatto che Mitterrand e i suoi successori non abbiano mai rimosso il segreto posto da De Gaulle sul dossier dei Cagoulards ha finito per alimentare un sospetto magari infondato.
Nessuno ha mai pagato per quel delitto, né in Francia né in Italia. Dopo la guerra il generale Roatta troverà scampo nella Spagna franchista. Nel 1951 le spoglie di Carlo e Nello saranno traslate nella loro Firenze, nel cimitero di Trespiano, sulla via Bolognese. Riposano vicino a Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Spartaco Lavagnini, assassinato dai fascisti nel 1921, e Piero Calamandrei. Fu proprio Calamandrei a dettare l’epitaffio inciso sulla lapide di Carlo e Nello Rosselli:
Giustizia e libertà
Per questo morirono
Per questo vivono.