Salvemini in America
(Palazzo Giustinani, Dicembre 2007)
Poiché Salvemini era uno storico ben affermato, oltre che spiccato personaggio politico, la sua fama gli permise di lavorare esercitando la sua professione, una possibilità che molti esuli non avevano. Dopo aver vissuto in Francia e Inghilterra, venne negli Stati Uniti dove diventò professore di Italian Civilization all’Università di Harvard. Altri professori italiani antifascisti insegnavano in altre università americane, ma nessuno di loro aveva l’esperienza politica o il prestigio di cui godeva Salvemini e riconsocevano Salvemini come il loro maestro nel compito di mobilitare l’opinione pubblica americana contro Mussolini.
Per chiarificare la cronologia e l’azione del periodo di esule del Salvemini, è utile ripercorrere i viaggi e le varie “fermate” che fece. Ricordiamo, inanzi tutto, che Salvemini fu costretto a cominciare ad imparare l’inglese quando aveva 50 anni e che non parlò mai la lingua molto bene. Come vediamo dalle sue Memorie di un fuoruscito e dai rapporti di ufficiali fascisti tuttora conservati nell’Archivio Centrale dello Stato, visse gli anni dal 1925 al 1932 prevalentemente in Inghilterra. Durante quegli anni viaggiò spesso in Francia e participò alla lotta antifascista sia in quel paese che in Inghilterra. Fu molto vicino a Carlo Rosselli e collaborò alla fondazione di Giustizia e Libertà.
Durante quegli anni, pubblicò molti articoli in riviste antifasciste e due libri importanti, The Fascist Dictatorship in Italy (1927) e Mussolini Diplomate (1932).
Nel 1927 e 1929, Salvemini fece un giro di conferenze negli Stati Uniti che gli permisero di guadagnare i fondi per vivere e di continuare la sua lotta contro il fascismo.
Durante il secondo viaggio nel 1929, insegnò a Yale e alla New School for Social Research a New York. Fece inoltre una tappa a Cambridge, Massachusetts per incontrare Giorgio La Piana, un italiano specialista della storia della Chiesa e professor ad Harvard.
Non solo divennero “amici eccellenti,” come scrive nelle sue memorie, ma La Piana lo introdusse ad alcuni dei più famosi storici americani del periodo, tra cui Arthur Schlesinger Sr., capo del dipartimento di Storia e padre del futuro consigliere di John F. Kennedy.
Mentre era negli USA, il giovane Lauro De Bosis venne a trovarlo. De Bosis era un monarchico e liberale e capo dell’America Italy Society, considerato da Salvemini di essere un fronte fascista. De Bosis si fece ricevere spiegando a Salvemini che aveva abbandonato il suo filofascismo di un tempo e che aveva in mente di condurre un raid aereo sopra Roma lanciando dei volantini in cui incitava gli italiani a porre fine al regime fascista. Salvemini gli fece presente i pericoli di una tale spedizione (gli aerei di allora avevano poca autonomia), ma non lo scoraggiò: una mancanza che gli fu rimproverata quando De Bosis non tornò più. Partendo da Marseilles, De Bosis sorvolò Roma ma non raggiunse mai la Corsica a cui era diretto, probabilmente per la mancanza di carburante. Alcuni anni dopo la sua scomparsa, venne istituita una cattedra in suo onore che fu assegnata a Salvemini, permettendogli così di insegnare ad Harvard.
I Consolati contro Salvemini
Questa battaglia cominciò presto e fu molto intensa. Un telegramma datato l’11 agosto 1926, ad esempio, informò la polizia italiana che l’Ambasciatore aveva mandato un suo funzionario all’International Institute of Education (IIE) per protestare il viaggio di Salvemini negli USA. Secondo l’Ambasciata, il giro di conferenze progettato dal Salvemini era inopportuno perché, anche se non attaccava l’Italia Fascista all’Institute, nulla vietava che lo facesse in altre sedi dove avrebbe parlato. Se questo fosse accaduto, secondo l’Ambasciata, le sue parole avrebbero provocato dei disordini nella comunità italoamericana che non avrebbe sopportato degli attacchi contro il governo italiano. Il segretario dell’Institute rispose che il viaggio di Salvemini era ancora incerto, ma, in ogni caso, l”Institute avrebbe insistito che Salvemini si astenesse da attacchi politici nelle sue conferenze.
Alla fine, Salvemini non venne negli USA con lo sponsorship dell’IIE, ma tramite un manager, come notò il Console Generale di New York il 2 novembre 1926 e come Salvemini stesso nota nelle sue memorie. Nel frattempo, però, il Console Generale aveva già contattato un certo “Professor Bigongiari” e gli aveva chiesto di andare alla conferenza di Salvemini alla Foreign Policy Association per controbattere quello che lo storico avrebbe detto nel suo discorso in quella sede. Bigongiari si rifutò perché, disse, si era già confrontato con Salvemini in un dibattito a Firenze, ma suggerì, invece, Bruno Roselli, capo del dipartimento d’italiano al Vassar College, come la persona che poteva meglio confutare Salvemini. Roselli, infatti, aveva un bell’aspetto e parlava perfettamente l’inglese, due qualità che mancavano all’esule antifascista. Roselli diventò il consigliere del Consolato sul problema Salvemini presenziando tutti i suoi discorsi e controbattendo in modo sistematico e martellante qualsiasi cosa dicesse contro Mussolini. Infatti, Il Consolato organizzò una campagna serrata contro Salvemini e mandò sempre qualcuno a controbatterlo durante tutte le sue conferenze.
L’Ambasciata ammise che il Dipartimento di Stato aveva fatto il suo dovere, ma enfatizzò i disordini che la presenza di Salvemini avrebbe certamente provocato nella comunità italoamericana, la quale stimava moltissimo il Governo italiano.
Le relazione dei consolati e dell’Ambasciata al Ministero dell’Interno durante il secondo giro di conferenze fatte da Salvemini rivelano come lo storico aumentò la sua critica sul fascismo durante questo periodo. Un telegramma datato il 6 giungo 1930 che descrive una sua conferenza alla “Casa del Popolo” di New York spiega come e perché questa critica era avvenuta. Salvemini, nel passato, aveva pensato che il fascismo sarebbe caduto, ma che avrebbe impiegato tempi lunghissimi. Adesso, però, aveva cambiato idea, a causa dell’organizzazione perfetta delle forze d’opposizione e dei disordini che erano scoppiati in diverse regioni d’Italia. In verità, la grande crisi economica aveva rianimato gli antifascisti e aveva provocato in loro una speranza illusoria. Quello che rende il pensiero del Salvemini durante questo periodo particolarmente significativo era il nuovo ruolo che egli assegnava agli italoamericani nella futura caduta del regime fascista: cioè, quello di finanziatori della rivoluzione. Nell’esprimere questa opinione, citò la lotta degli irlandesi contro gli inglesi: questa lotta si concentrava in Irlanda e in Inghilterra, ma i fondi arrivavano dall’America. Come gli irlandesi americani, il compito degli italoamericani era di finanziare la rivoluzione in Patria.
Una più profonda conoscenza della realtà italoamericana avrebbe presto convinto Salvemini e i suoi amici che questa idea non era realizzabile. Infatti, gli italoamericani erano dei duri lavoratori che cercavano di sopravvivere in una realtà economica molto difficile non prestando molto attenzione alla politica. Inoltre, essendo maltrattatti e soffrendo di discriminazione nella nuova terra, apprezzavano il prestigio che agli occhi degli americani il fascismo aveva recato alla loro Patria. Durante le conferenze salveminiane di solito i rappresentanti delle banche che avevano fatto dei prestiti all’Italia mussoliniana erano presenti e attaccavano Salvemini facendo notare che il Duce aveva tranformato l’Italia e aveva aumentato la fiducia che gli americani davano all’Italia.
L’orientamento pro-fascista degli americani durante questo periodo è stato bene descritto nel libro di John Diggins, Mussolini and Fascism: The View from America.
Questo valeva anche per Salvemini: pur essendo nato povero, la sua istruzione elegante lo separava dalle sue origini e dagli italoamericani. Anche se in Italia Salvemini aveva mantenuto i contatti con le sue origini, purtroppo non aveva capito il milieu della gente comune italoamericana, che era ben diversa da quella italiana. Un abisso separava i raffinati e sofisticati intellettuali dalla maggioranza degli italoamericani; Salvemini ed i suoi amici professori di Harvard, di Smith, della University of Chicago e di altri atenei di cui il normale italoamericano non conosceva neppure i nomi, non erano in grado di contrastare i consolati italiani, la Chiesa Cattolica e i “prominenti” italoamericani per l’appoggio della comunità italoamericana.
Senza dubbio una persona dell’intelligenza di Salvemini sapeva che solo una piccolissima percentuale di italoamericani erano fascisti convinti. Salvemini, però condusse delle indagini praticamente da solo contro persone che considerava fascisti.
Rimane il dubbio se queste indagini violavano i diritti civili di almeno alcune delle persone contro cui lanciò queste accuse e se li bollò ingiustamente d’essere fascisti.
Sappiamo dai suoi scritti storici che era un ricercatore bravo, ma c’è qualcosa di vendicativo nel suo approccio a questo problema. Compilò un lavoro sulla questione, pubblicato postumo da Philip Cannistraro, Italian Fascist Activities in the United States, con l’intento di focalizzare l’attenzione del Congresso americano sulle attività dei Fascisti italiani, la cui presenza alle radunate ispirate da fascisti servivano come prova delle fortissime simpatie fasciste. Durante la Seconda Guerra Mondiale, diede il manoscritto all’FBI.
Possiamo citare un’altro esempio. In una lettera a Hugh DeLacy, presidente dell’American Committee for Protection of the Foreign Born, Salvemini rifiutò la sua firma ad una lettera contro una proposta di legge che permetteva la denaturalizazzione di cittadini quando le loro “espressioni, scritti, azioni o condotta” mettevano in dubbio la loro lealtà agli Stati Uniti. Salvemini obbiettò che questo provvedimento non era una cattiva idea, ma suggeriva che la sua applicazione pratica doveva essere lasciata alla magistratura normale. Informato sulla inutilità di questo vago provvedimento, poiché il Dipartimento di Giustizia americano aveva già il potere di procedere contro i cittadini naturalizzati che erano sleali e il provvedimento indeboliva i diritti dei cittadini naturalizzati, Salvemini rispose irritato il 13 aprile 1942 che mentre era difficile dimostrare che una persona aveva giurato lealtà agli Stati Uniti in malafede: “Viceversa non era difficile dimostrare che gli scritti, i discorsi, le attività di un uomo non erano consistenti con il suo giuramento di lealtà, sia che venissero prima o dopo il suo giuramento. Io stesso - diceva - conosco moltissimi italiani che hanno preso la cittadinanza a cui si potrebbe applicare tale legge e che meriterebbero di perdere la loro cittadinanza”.
Anche se l’organizzazione di De Lacy era un fronte comunista, questo non giustifica l’atteggiamento duro di Salvemini, da cui traspare un’incapacità emotiva di capire l’esperienza italoamericana, un’insensibilità verso i diritti civili e un punto di vista vendicativo. D’altro canto, questo atteggiamento non si manifestò solo in questa occasione o in questo periodo, perché Salvemini aveva la nomea di essere burbero, di esprimersi in modo forte e frequentemente in modo immoderato sia negli Stati Uniti che in Italia.
La Connesione con Harvard e la Seconda Guerra Mondiale
Anche se ad Harvard c’era stata una dura opposizione alla nomina di Salvemini.
Il capo del dipartimento di Storia, Arthur Schlesinger, Sr. lo appoggio` con coraggio (fu lui a suggerirgli lo strategemma della richiesta dell’estradizione) e si dovette aspettare il cambio dei presidenti, da A. Lawrence Lowell (lo stesso che fece parte di un comitato che rifiutò di rivedere il processo Sacco e Vanzetti) a James Conant per la nomina definitiva di Salvemini. Fu nella casa di suo padre che Arthur Schesinger, Jr. conobbe Salvemini e l’Italia e, come consigliere di John Kennedy, spinse gli americani ad appoggiare il centrosinistra negli anni sessanta.
La sconfitta delle autorità fasciste nella battaglia contro Salvemini era molto importante. Dalla sua base di Harvard, Salvemini organizzò le sue attività antifasciste.
Alla fine, i “prominenti” filofascisti italoamericani, come Pope, abbandonarono Mussolini, si allearono con i socialdemocratici antifascisti, come il sindacalista Luigi Antonini, e mantennero la loro influenza nella comunità italoamericana. Fra gli intellettuali, però, la storia fu diversa.
L’introduzione delle leggi razziali in Italia provocò un esodo di ebrei italiani negli Stati Uniti che si aggiungevano ai ranghi antifascisti. La sconfitta della Francia nel 1940 portò negli USA altri antifascisti di prestigio come Carlo Sforza ed Alberto Tarchiani. Sperando di influenzare una politica americana verso l’Italia, di scatenare più opposizione al regime fascista in Italia e favorire la nascita di una repubblica italiana, Salvemini ispirò la fondazione della Mazzini Society nel 1940. Max Ascoli divenne presidente della nuova associazione e Tarchiani ne divenne il segretario. La Society si scisse dopo poco tempo, e non solo perché c’erano delle divergenze sulla questione dei prominenti che mollarono Mussolini, ma anche per le divergenze sulla politica americana.
L’intransigenza salveminiana contrastava con gli altri leader della Mazzini Society, particolarmente Sforza ed Ascoli, che erano restii ad attaccare frontalmente Roosevelt e Churchill e consigliavano prudenza, qualità che Salvemini non aveva mai avuto. Il risultato fu la scissione della Mazzini Society tra i seguaci di Salvemini e quelli di Sforza, una disputa che coinvolse anche alcuni uffici del Dipartimento di Stato.
Secondo il collaboratore di Salvemini, Enzo Tagliacozzo, Salvemini temeva che la posizione di Sforza avrebbe compromesso la sua campagna in favore di una repubblica italiana. L’opposizione serrata di Salvemini alla politica americana riguardo l’Italia portò alla possibilità da parte del Dipartimento di Giustizia americano di iniziare il processo di denaturalizazzione contro di lui. Il dibattito riguardo la forma del governo in Italia dopo la guerra fu la ragione della pubblicazione di un libro con La Piana, What to do with Italy? Questo libro riassumeva in modo molto chiaro e senza compromessi la posizione di Salvemini, soprattutto era una critica serrata alla politica inglese nei confronti dell’Italia. Secondo Salvemini, incolpare per la guerra solo Mussolini e non l’intero regime e incitare gli italiani a rovesciare “un uomo e solo un uomo” era sbagliato. Churchill diceva agli italiani che “dovevano semplicemente sostituire il ‘Fascismo con Mussolini’ al ‘Fascismo senza Mussolini’ dopo di che tutto sarebbe andato bene.” Questo libro, e il suo appoggio alla Resistenza erano le ultime battaglie di Salvemini sul suolo americano. Nell’ottobre del 1949 riprese l’insegnamento all’Università di Firenze e morì a Capo di Sorrento il 6 settembre 1957 all’età di 84 anni.
Come dobbiamo giudicare l’esperienza americana di Gaetano Salvemini? Questa è una domanda difficile. E` chiaro che influenzò i suoi studenti americani che per molti anni parlarono delle loro esperienze con Salvemini (per non parlare di Arthur Schlesinger, Jr., che lo ricordò sempre), e mentre vive ancora negli articoli e nei libri di quel periodo, la sua influenza rimane sfuggevole: inafferrabilità che non è limitata al suo periodo americano, ma anche in Italia. In tutti e due i paesi, fu ammirato per la sua onestà, la sua coerenza, le sue capacità logiche ed analitiche e per la finezza della sua ricerca storica. Ma Salvemini non era il tipo di uomo che poteva lasciare in eredità una scuola o un partito. Forse era invece il prototipo del “ribelle sofisticato” della fine del Novecento descritto in un libro di un altro professor di Harvard, H. Stuart Hughes: un intellettuale sganciato dai partiti, che resiste in modo cocciuto al volere di gruppi potenti e dei governi ma che, in qualche modo, alla fine, prevale.
Spencer Di Scala