L'alibi chiamato riforme
Si attribuivano loro poteri taumaturgici: è quasi un bene che siano slittate
di Piero Ottone - Rep. 14. 06. 98
Adesso che tutti parlano del Mondiale di calcio, e la gente è distratta, posso finalmente dirlo: a me, che le famose riforme siano rimandate, o che non si facciano affatto, non sembra una tragedia. Anzi, è quasi una buona notizia.
Nella politica italiana vi sono periodi in cui una parola, uno slogan acquistano un significato taumaturgico. Tutti ne parlano, tutti lo ripetono in modo ossessivo, senza neanche chiedersi, alla fine, di che cosa si stia parlando. Così è stato per le famose riforme. Ma a che cosa dovevano servire, in realtà? Fra gli uomini politici o pseudopolitici, ciascuno ne faceva un uso personale, per i suoi fini particolari: uno cercava la impunibilità di fronte ai giudici, l'altro cercava la legittimazione della sua leadership, o addirittura si illudeva di passare alla storia.
In sostanza però, a parte i fini personali, le riforme dovevano darci la stabilità di governo: questo era l'obiettivo importante, quello che stava a cuore a uomini seri come Giovanni Sartori e Leo Valiani, Paolo Barile o Rodotà. Si diceva: nel passato, il sistema proporzionale ha prodotto governi instabili, e la loro breve durata non consentiva di governare bene l' Italia. Cerchiamo di avere anche noi governi di legislatura, e l'Italia sarà salva.
Ebbene: la stabilità adesso c'è. Già la abbiamo, anche senza riforme. Si potrebbe migliorare il sistema, si potrebbe perfezionare, e prima o dopo dovremo pur farlo. Ma non è quella la priorità assoluta, non è quello il compito più urgente. Prodi ha tutta l'aria di rimanere in sella, e non sembra per nulla afflitto dal timore di cadere: anzi, non perde occasione per ripetere che lui va avanti tranquillo.
Il nostro guaio attualmente non è dunque la instabilità. I mali dell'Italia sono diversi. Sono in una pubblica amministrazione sgangherata, che ha bisogno di cinque anni per prendere decisioni che altrove si prendono in cinque giorni. Sono in una magistratura che amministra la giustizia con tempi biblici. Si crede davvero che sarebbe bastato abolire la quota di proporzionale con le famose riforme per dare all'amministrazione pubblica e alla magistratura nuovo sprint? Suvvia non scherziamo. I decreti legge sono scritti in ostrogoto, sono contraddittori, incomprensibili: forse che dopo le famose riforme sarebbero stati scritti meglio? Dei treni e delle Ferrovie si è già detto tutto: con le riforme sarebbero migliorati? Per la verità, come ha spiegato l'altro giorno il nostro editorialista Marcello De Cecco, una riforma delle Ferrovie è già stata messa in cantiere ma in modo lacrimevole: forse che col semipresidenzialismo sarebbe andata meglio? Non parliamo poi della corruzione, della immoralità: con le riforme, grazie ai signori Berlusconi, Boato e Pera, sarebbero semmai peggiorate, certo non sarebbe stato più facile combatterle.
La stabilità di governo è importante, e infatti a qualche cosa è servita: l'inflazione è scomparsa, siamo stati ammessi in Europa. Ma all'origine dei nostri malanni, il cui elenco è ormai stucchevole, c'è la scarsità di cultura politica, quella che consente di individuare i problemi urgenti e di concertare soluzioni fattibili. Manca nella classe dirigente il senso dello Stato, manca la sollecitudine per il bene pubblico, manca una elementare onestà. Mancano insomma le premesse per il buon governo.
Sono sempre mancate. E dai giorni dell'unità in avanti gli italiani si arrabattano a riformare i sistemi elettorali, ad architettare ora questa ora quella formula, alla ricerca della pietra filosofale. Se si ha il proporzionale si crede che i mali saranno risolti e tutto andrà bene con l'uninominale; quando si ha l'uninominale si vuole tornare al proporzionale. Alla fine, i sistemi cambiano, qualche riforma si fa, ma la sostanza rimane come prima, o quasi.
Siamo onesti: qualche piccolo progresso ogni tanto si fa. Ma lo si fa con grande lentezza, e non per la adozione di formule magiche. Più che di riforme è questione di uomini giusti al posto giusto: già Einaudi e Carli, come adesso Prodi e Ciampi, avevano ridato consistenza alla lira, tanto per fare un esempio, anni luce prima che comparisse all'orizzonte una Bicamerale.