Non Mollare (1955), a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri 200
L’Italia Libera
Ernesto Rossi (https://www.garganoverde.it/storia/l-astrolabio/ernesto-rossi.html)
Erano disgustati dai dirigenti dell’Associazione nazionale combattenti, che volgevano le vele a seconda del vento, per navigare tranquilli.
La prima riunione fu tenuta nello studio dell’avvocato Enrico Bocci, che doveva essere torturato e assassinato nel giugno 1944, quale capo della Resistenza a Firenze. Ci trovammo in una dozzina di persone, fra le quali - oltre ai quattro promotori - Enrico Bocci, Carlo Rosselli, il dottor Luigi Rochat, Ernesto Menichetti e il dottor Dino Vannucci.
Ci mettemmo d’accordo sul fine che volevamo dare all’Italia Libera fiorentina: condurre una metodica propaganda contro le leggi vigenti e quelle che prevedevamo sarebbero state presto emanate in difesa del “regime”. Ci distribuimmo l’opera, che ognuno di noi avrebbe svolto nell’ambiente in cui aveva amicizie e conoscenze. Stabilimmo anche l’ammontare delle quote sociali, e senz’altro pagammo il nostro contributo per le spese necessarie al primo manifesto.
Fu un’associazione segreta; ma senza riti di iniziazione, senza giuramenti su pugnali ed altra roba del genere. Gli iscritti proponevano al direttivo le persone che ritenevano meritevoli di fiducia. Il direttivo assumeva informazioni su ogni candidato: moralità, precedenti politici, attività professionale, composizione famigliare e conoscenze.
Incomparabile raccoglitore di queste informazioni era Nello Traquandi, conosciuto da tutta la città più della betonica, col nomignolo di “Satiro”. Il direttivo incaricava poi un amico sicuro di interrogare il candidato, per conoscerne direttamente le idee politiche, i propositi, le possibilità finanziarie e di lavoro. Soltanto dopo avere esaminato collegialmente tutti i dati raccolti, veniva deciso se accettare o no il nuovo iscritto. Questo esame portava via molte ore delle nostre riunioni notturne a casa Vannucci (di giorno eravamo tutti troppo occupati).
Cominciammo col non essere più che una cinquantina. Reclutavamo aderenti, raccoglievamo quattrini, provvedevamo alla pubblicazione e alla distribuzione dei fogli clandestini, verniciavamo le scritte sui muri, affiggevamo la notte i manifesti, mandavamo ai giornali di opposizione tutte le notizie che riuscivamo a raccogliere sugli atti criminali dei fascisti, tenevamo nascoste le armi, che avrebbero potuto servire in caso di crisi rivoluzionaria.
Un capogruppo dell’Italia Libera ha conservato una copia del modulo per l’iscrizione, che sul rovescio enunciava le idee a cui aderiva chi era ammesso nella organizzazione. Queste idee meritano di essere ricordate: I combattenti che aderiscono all’Italia Libera non pretendono a nessun privilegio politico e sociale (impieghi, cariche pubbliche, onorificenze, ecc.) per il solo titolo di essere stati combattenti: essi anzi lottano contro questo spirito combattentistico, che fu ed è una delle principali cause di confusione, ed uno dei più comuni motivi di speculazione per i peggiori arrivisti della nostra vita pubblica.
Chi si iscrive all’Italia Libera non deve aspettare né onori né prebende; ma assume l’obbligo di rivendicare, in qualunque occasione, a costo di qualsiasi sacrificio, la propria dignità e responsabilità di libero cittadino, e di contribuire con tutte le sue forze alla restaurazione di un regime di libertà e di giustizia per tutto il paese.
I combattenti dell’Italia Libera vogliono:
1) che sia sciolta la milizia nazionale e che il mantenimento dell’ordine sia nuovamente affidato a corpi indipendenti dai partiti, liberi da ogni vincolo di fedeltà personale a singoli uomini politici e soggetti solamente all’impero della legge;
2) che le elezioni politiche ed amministrative avvengano senza sofisticazioni e senza prepotenze, e che la Camera dei deputati sia reintegrata nel suo diritto di fare le leggi (abolizione dei decreti legge) e di licenziare i ministri quando questi abbiano perduto la sua fiducia;
3) che venga ristabilita la libertà di stampa;
4) che i reati siano imparzialmente ricercati dalla polizia e puniti dalla magistratura senza distinzione di partito fra i delinquenti;
5) che si ritorni al rispetto della libertà di riunione e di associazione.
I combattenti dell’Italia Libera sono antifascisti, perché è necessario riconquistare contro il fascismo le sopradette condizioni elementari della moderna civiltà, e perché non credono che il governo fascista, nato dalla sopraffazione armata, possa perdere questo suo carattere originario e garantire al paese una legge eguale per tutti.
L’Italia Libera è formata esclusivamente di combattenti, perché i combattenti possono, in questo momento della vita pubblica italiana, più efficacemente di tutti gli altri cittadini, lottare contro l’equivoco del “combattentismo”, e demolire la mistificazione colla quale il governo pretende di rappresentare l’Italia di Vittorio Veneto.
L’Italia Libera non è un partito politico permanente, né assumerà mai il carattere di comitato elettorale. Essa è la riunione temporanea di tutti i combattenti antifascisti allo scopo di raggiungere il programma innanzi indicato. Ottenuto questo scopo l’Italia Libera si scioglierà e ciascuno dei suoi iscritti, se vorrà ancora svolgere un’azione politica, dovrà farlo aderendo a quel partito che meglio corrisponde ai suoi sentimenti ed ai suoi interessi.
I combattenti dell’Italia Libera si rendono conto che il fascismo è un fenomeno doloroso specialmente perché è il resultato della scarsa maturità spirituale del Paese: il fascismo ha potuto travolgere tutte le istituzioni che garantivano la libertà e la dignità dei cittadini (parlamento - magistratura - scuola - esercito - polizia) perché, nello smarrimento del dopo guerra, troppi italiani hanno creduto di potersi assicurare il quieto vivere abdicando alla propria libertà ed alla propria dignità.
Contro questa vigliaccheria diffusa in tutti i ceti sociali bisogna reagire.
Non vogliamo essere considerati come un popolo di schiavi degni di essere dominati ed avviliti dalle violenze e dalle intimidazioni.
Più, forse, che ai fascisti, noi stavamo sulle scatole ai benpensanti dell’antifascismo. Questi non solo rifiutavano di dare qualsiasi contributo, per timore di compromettersi; ma teorizzavano anche la loro vigliaccheria con i più sublimi principi politici e morali, accusando di avventatezza, di incoscienza, di pazzia, quei pochi che, dopo la “marcia su Roma”, non si rassegnavano al fatto compiuto.
“Che cosa, dunque, dobbiamo fare, mentre i fascisti distruggono, assassinano, imbavagliano la stampa, demoliscono tutti gli istituti costituzionali a garanzia delle libertà, inquinano sempre più la nostra vita pubblica?”
“Tenere accesa, sotto il moggio, la fiaccola dell’ideale”.
Ricordo l’indignazione contro di noi di uno fra i maggiori tromboni socialisti. Con la sua oratoria costui aveva fatto, per anni, rintronare le piazze d’Italia con l’annuncio dell’imminente avvento della rivoluzione. Noi eravamo - egli diceva - degli incoscienti, perché mandavamo in galera la gente per delle stupidaggini: grida, scritte, foglietti clandestini. Tutte forze sprecate, forze sottratte al grande evento, che avrebbe portato alla palingenesi sociale. Nel giorno della rivoluzione egli - si capisce - si sarebbe trovato, con i compagni, in prima linea, nell’assalto alla cittadella borghese. Ma la rivoluzione era una cosa seria: non le bambinate, con cui noi ci gingillavamo.
“La rivoluzione è forse un tram che si aspetta al capolinea? Per “scendere in piazza” vorrete leggere il manifesto affisso sui muri, come per le chiamate di leva?”
“La rivoluzione è il proletariato che si desta. Non sarete certo voi intellettuali ad interpretarne le esigenze”.
Uno dei capi più autorevoli dell’opposizione condannava aspramente la nostra indisciplina. La periferia doveva soltanto eseguire gli ordini del centro. Facessimo pure - se credevamo - delle proposte: ma solo quelli che erano al centro potevano giudicare il pro e il contro di ogni iniziativa, nel quadro generale della politica italiana. Che ne sapevamo noi della trama che essi stavano tessendo a Roma col re, i generali, il Vaticano? Le nostre iniziative non potevano che romper le uova nel paniere a chi si era assunta la gravissima responsabilità di dirigere la lotta in tutto il paese; noi sprecavamo, in piccole azioni di disturbo, le migliori carte, che avrebbero dovuto essere gelosamente conservate, per giocare la grande partita.
“Ma se dal centro non è mai venuto niente? Non siete capaci di far altro che approvare mozioni ed ordini del giorno … “.
“Segno che non è ancora giunto il momento”.
“Quando direte che è giunto, se mai lo direte, non troverete più nessuno disposto a muoversi. I vostri comitati direttivi sono organi capaci soltanto di fare elezioni. Se vi facessimo sapere quello che abbiamo intenzione di fare, il giorno dopo saremmo tutti dentro”.
“Il solito spirito anarchico italiano: con voi non si riescirà mai a compicciare nulla di buono”.
Sentendo ripetere tante volte discorsi di questo genere, un giorno arrivai a fare a Riccardo Bauer una proposta: “Mettiamoci in tasca, te ed io, il medesimo elenco dei maggiori cacadubbi e pisciafreddo dell’antifascismo, e, in corrispondenza ad ogni nome, alla medesima data, notiamo le stesse cifre, per indicare i contributi da essi dati alle nostre spese. Quando ci arresteranno, diremo la verità: cioè che è stato uno scherzo. La polizia non vorrà crederci, ma non ne avremo colpa noi ... “.
Riccardo era troppo bene educato per fare scherzi del genere. [...]
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