BBC History Speciale, Hitler e Mussolini, n. 14, 2019
Mussolini se la gioca
Fino all’ultimo, l’esito della Marcia su Roma resta in dubbio. Mussolini stesso sa di potersi aspettare di tutto, persino una guerra civile. Vince la scommessa e gli eventi fanno su Hitler un’impressione enorme
”Nutro fiducia”. A pronunciare questa frase, il 26 ottobre 1922, non è Mussolini, che solo due giorni prima ha radunato a Napoli decine di migliaia di fascisti in quella che può essere considerata come una prova generale dello “spettacolo” da mettere in scena quattro giorni dopo, a Roma. La frase benaugurante viene invece da Luigi Facta, navigato politico piemontese, “giolittiano dalla personalità sbiadita”, secondo le sue stesse parole. Attualmente, Facta ricopre il ruolo di presidente del Consiglio dei ministri. Si discute molto sull’interpretazione da dare a quelle parole sibilline. Quel che è certo è che il capo di Gabinetto le usa per rispondere alla minaccia mussoliniana di recarsi a Roma con i suoi squadristi e occupare militarmente le istituzioni.
Del resto, Mussolini è stato esplicito.
Durante la grande manifestazione di Napoli, il 24 ottobre, ha preso la parola in mezzo alle falangi schierate dei suoi fedelissimi per dichiarare: “O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma”. Calando, come un’orda di nuovi barbari ... Il paragone non è del tutto peregrino, se Indro Montanelli definirà “becera e violenta” l’Italia della Marcia su Roma, benché “animata però forse anche da belle speranze”.
Proprio quest’impressione di calata barbarica sulla capitale di un Paese il cui governo è ormai al tramonto desta lo stupore e l’ammirazione di Hitler.
Alla base sta la fondamentale differenza ideologica fra i due leader. A legarli non c’è molto, a parte la viscerale avversione al bolscevismo e alle debolezze della democrazia liberale. Hitler, però, nutre un culto del popolo, del Volk, che raggiunge livelli quasi mistici. Per lui è il popolo, con le sue azioni, la sua forza, la sua determinazione, che deve costituire e modellare lo Stato, non viceversa, come invece crede Mussolini, che in questo senso è un seguace dell’idealismo hegeliano: il popolo va forgiato.
La marcia dei 25 mila
Il fatto che 25 mila camicie nere, più o meno armate, più o meno organizzate, più o meno consapevoli di ciò che stanno facendo, costringano alla resa un governo eletto mediante una semplice esibizione muscolare, esalta Hitler e lo ispira. Ignaro delle lunghe manovre politiche, dei tentativi di compromesso, delle scelte operate dalla Corona, Hitler interpreta la Marcia su Roma come un’azione militare, come un colpo di mano determinante. Anche il fascismo, negli anni a seguire, tenderà ad avallare questa idea.
Nel 14. volume dell’Enciclopedia Italiana, pubblicato nel 1932, dieci anni dopo quegli eventi, si scriverà esplicitamente: “Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, nacque da un bisogno di azione e fu azione […] la dottrina poteva mancare, ma c’era, a sostituirla, qualcosa di più decisivo: la fede”.
È una mitizzazione voluta, perché la Marcia su Roma, in realtà, non si svolge a Roma.
Ed è ben altro che “azione”, almeno in senso prettamente fisico. È piuttosto una forzatura, un far precipitare gli eventi, ma in maniera decisamente politica. La dimostrazione sta nel fatto che Mussolini, durante la manifestazione, non si muove da Milano, dirigendo strategicamente le mosse del nuovo scacchiere governativo dal suo ufficio di direttore del Popolo d’Italia.
Paradossalmente, però, è forse proprio la scelta di non muoversi, la scelta dell’anti-azione, a decidere il destino degli avvenimenti, perché fa mostra, all’esterno, di una sicurezza che Mussolini non possiede. Oltralpe, Hitler è inebriato dalla filosofia di Nietzsche, arrivatagli però attraverso gli scritti rivisti e corretti (in senso razzistico) dalla sorella del filosofo, Elisabeth: assieme al marito, l’antisemita Bernhard Förster, ella aveva fondato in Paraguay la colonia di Nueva Germania, un insediamento “ariano puro”. In questa prospettiva, Hitler legge negli avvenimenti romani l’ineluttabilità del binomio volontà-potenza, tipicamente nietzschiano, e sogna di realizzare qualcosa di analogo.
La Marcia su Roma è una prodigiosa e spettacolare esibizione propagandistica, a cui partecipano migliaia di nazionalisti, fascisti e camicie nere, cantando orgogliosamente i loro inni, ma non è un avvenimento di per sé determinante.
Le schiere, guidate dai quadrumviri Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare De Vecchi e Michele Bianchi, si muovono ordinatamente, secondo le istruzioni ricevute. Ma intanto De Vecchi mantiene prudentemente i contatti con il conservatore Antonio Salandra, ex presidente del Consiglio (dal 1914 al 1916), che può costituire un buon aggancio per introdurre comunque Mussolini nel governo, facendo cadere Facta.
La (non) decisione del Re
Il 28 ottobre, mentre le colonne fasciste confluiscono su Roma a bordo dei treni requisiti, Mussolini riceve una delegazione di industriali, che gli chiedono di trovare un accordo con Salandra per formare un nuovo esecutivo. De Vecchi e Dino Grandi, capo di stato maggiore del quadrumvirato fascista, cercano intanto accordi diversi rispetto a quelli stabiliti nel piano generale della Marcia. Anni dopo, al processo di Verona, Mussolini li accuserà, proprio per questi tentativi di accordo, di aver tradito la rivoluzione.
Ma al momento non li sconfessa, pensando (da politico navigato, quale già è) che la trattativa potrebbe aprire una buona possibilità di ripiego nel caso in cui le sue squadre si trovino costrette a smobilitare per l’intervento dell’esercito.
Mussolini, infatti, sa bene che i suoi uomini costituiscono una minaccia più rappresentativa che reale e non nutre particolare fiducia nella loro forza militare.
Si tratta di circa 25-30 mila uomini, contro i 28 mila (e poco più) soldati in armi che si trovano a difesa della capitale. Lo stato d’assedio, che inutilmente Facta chiede al re di firmare, forse risolverebbe la questione in poco tempo, inducendo Mussolini a far retrocedere le sue squadre. Tuttavia Vittorio Emanuele III nutre il timore che non tutto l’esercito gli sarebbe fedele: interrogati in proposito, i maggiori generali, fra cui Diaz e Thaon de Revel, trionfatori della Grande Guerra, rispondono che l’esercito, se messo in moto, farebbe certamente il suo dovere, ma che è più prudente non metterlo alla prova. E questo nonostante il generale Badoglio si sia espresso in maniera assai diversa, dichiarando: “Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà” (frase che egli prima smentisce, poi conferma, e che renderà difficili i rapporti con Mussolini per tutto il ventennio fascista).
La possibilità di scatenare una carneficina o una guerra civile frena il re.
O forse è solo il timore di perdere il trono se non dovesse scendere a patti con Mussolini: egli infatti sa che tra gli uomini in marcia c’è anche Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, filofascista, in attesa a Perugia nonostante il re gli abbia ordinato di restare a Torino.
Mussolini stesso lo ha indicato come successore alla carica di re d’Italia nel caso in cui Vittorio Emanuele III si opponga al movimento fascista.
Questa è la ragione principale per cui Emanuele Filiberto resterà profondamente legato a Mussolini, divenendo uno dei suoi principali sostenitori all’interno della casa reale italiana.
Quando Facta presenta al sovrano il manifesto dello stato d’assedio da rendere operativo, Vittorio Emanuele III risponde: “Far scoppiare una guerra civile è da sanguinari e da scemi: io credo di non essere né una cosa né l’altra, caro Facta”. Per il presidente del Consiglio non c’è altra via se non quella delle dimissioni. Salandra propone al re di affidare l’incarico di formare il nuovo esecutivo a Vittorio Emanuele Orlando, vecchio politico siciliano; ma De Vecchi fa capire a Salandra che la cosa non sarebbe gradita a Mussolini, al quale viene poi proposto invece l’incarico in coppia con Salandra medesimo. Il futuro Duce gioca d’azzardo, rifiuta e vince, proprio mentre il Giornale d’Italia, che fa capo allo stesso Salandra, annuncia la riuscita del compromesso. Vista l’assenza di alternative percorribili, Vittorio Emanuele III offre l’incarico di predisporre un nuovo governo a Mussolini, il quale si trova sempre fermo a Milano. Lì lo raggiunge il telegramma del generale Cittadini, uomo di fiducia del re: “Sua maestà il re mi incarica di pregarla di recarsi a Roma desiderando conferire con lei. Ossequi. Generale Cittadini”.
Il Duce in vagon-lit
Mussolini parte da Milano, in vagone letto, la sera del 29 ottobre e arriva nella capitale la mattina del 30, con grandissimo ritardo perché in molte stazioni il suo convoglio viene fermato dai fascisti locali che vogliono acclamarlo. Dopo un’ora di colloquio con il re, Mussolini annuncia che entro sera formerà un nuovo governo. Le camicie nere accampate fuori dalla città entrano a Roma, per festeggiare, solo il 30. Il 31 marciano davanti al sovrano per oltre sei ore: circa 30 mila fascisti accorsi all’inizio dell’avventura sono ora quasi 100 mila.
Se quindi la Marcia su Roma è stata un atto di forza, si è trattato di forza politica. Hitler, tuttavia, legge gli eventi italiani in ben altro modo: “In Italia, il capo dei fascisti è diventato capo di tutto il Paese non mediante una ventina di suffragi in più o in meno, ma in virtù della sua energia e della infiammata volontà delle sue schiere di salvare la loro patria dalla bestia bolscevica” dichiara. E ancora: “Quello che una schiera ardimentosa di uomini ha saputo fare in Italia, lo possiamo fare anche noi in Baviera. Mussolini ha dato la prova di ciò che può fare una minoranza, se animata dalla sacra volontà nazionale. Anche da noi deve venire e verrà quell’ora”.
Benito Mussolini, che già Hitler ammirava, è diventato ora il suo idolo, un esempio da seguire, un faro luminoso per il futuro agire del Führer come guida della nuova Germania.
2019 - La marcia su Roma
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