Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda, Mondadori 2022
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Leggende e falsità sono fiorite, dai diari apocrifi alle ultime parole inventate, per nascondere l’amara realtà: Mussolini non ha avuto una fine gloriosa. Ha vagheggiato di combattere sino all’ultimo, di chiudersi nel “ridotto della Valtellina” con le ceneri di Dante, come a dire che l’Italia moriva con lui. Ma poi ha cercato banalmente di salvarsi la pelle. Ha tentato di riparare in Svizzera, come avevano fatto molte delle sue vittime, ebrei, antifascisti, resistenti. Ha portato con sé denaro, oro, documenti, fedelissimi, e la sua amante, Clara Petacci, che ha voluto morire con lui. È salito su un camion e si è travestito da soldato tedesco, indossando un’uniforme non sua, tentando di nascondersi sotto l’elmetto, simulando di dormire o di essersi ubriacato. È stato riconosciuto da un partigiano, o forse è stato venduto dai camerati nazisti, che hanno potuto proseguire indisturbati dopo aver consegnato il Duce.
Tutto precipita, in un clima plumbeo e triste, almeno per quel che resta del regime. Mussolini manda avanti il figlio Vittorio, per prendere contatto con il cardinale Schuster. Cerca un rapporto con la Resistenza, in particolare con i socialisti, che pure aveva perseguitato per venticinque anni. Nega spudoratamente con i tedeschi di voler trattare, e intanto parte verso Milano, per farlo.
È la sera del 18 aprile. “Non c’è più nulla da fare. È finita!” dice alla moglie Rachele, che resta a Gargnano. Poi scrive a Clara e la informa che il progetto coltivato per diciotto mesi è fallito: la fuga in Spagna è impossibile. Anche la Petacci parte per Milano, qualche ora dopo di lui.
Nella notte un motoscafo getta nel lago una cassa piena di documenti.
A Milano, Mussolini prende possesso della prefettura. I cavalli di frisia proteggono quello che definisce “il quadrilatero di Monforte”. Non sa bene cosa fare. Ora vagheggia di portarsi in Valtellina, ora di resistere in città e fare di Milano “la Stalingrado d’Italia”, “l’Alcázar del fascismo”, evocando ora la resistenza dell’Armata Rossa, ora quella dei franchisti. Rilascia un’intervista al Popolo di Alessandria, un giornale che lo incuriosisce perché vende ben 300 mila copie: “Ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece era isterismo collettivo”.
E ancora: “Mi hanno tanto rinfacciato la forma tirannica di disciplina che imponevo agli italiani. Come la rimpiangeranno! E dovrà tornare, se gli italiani vorranno ancora essere un popolo e non un agglomerato di schiavi”.
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I rappresentanti del fronte antifascista sono in ritardo. Mussolini conversa, paragona la sua Repubblica ai cento giorni di Napoleone.
Finalmente, dopo un’ora, arrivano Riccardo Lombardi del partito d’Azione, Achille Marazza per la Democrazia cristiana e il generale Raffaele Cadorna (non è un omonimo: oggi quasi nessuno sa o ricorda che il capo militare della Resistenza italiana era il figlio di Luigi Cadorna, il nipote del Raffaele Cadorna capo dei bersaglieri che presero Roma; insomma, non un bolscevico).
Gli uomini della Resistenza chiedono la resa incondizionata entro due ore. Mussolini risponde che gliene basterà una per decidere. Si intromette il generale Graziani, per urlacchiare che la lealtà e l’onore impediscono di trattare all’insaputa dei tedeschi; Marazza lo informa che i tedeschi stanno trattando la resa da più di dieci giorni.
Mussolini se ne va. Non ha alcuna intenzione di tornare dal cardinale, anzi sbotta con i suoi: “Sapete cosa mi ha detto? Di pentirmi dei miei peccati!”. Sulle scale incrocia il rappresentante del partito socialista, che però non lo riconosce, altrimenti - dirà - l’avrebbe ucciso con la sua pistola: è Sandro Pertini.
Quello che accade dopo è abbastanza noto. Non è una pagina gloriosa per nessuno; forse per questo la si è voluta ammantare di fantasticherie e di misteri. Come per nobilitare la fine di un uomo che sta soltanto cercando di salvarsi.
Il Duce, sempre seguito dalle SS che Hitler gli ha messo al fianco, sale su un’auto del convoglio, accanto a Bombacci, che gli sente dire: “Sono stato tradito dagli italiani e dai tedeschi”. Clara lo segue sull’Alfa Romeo del fratello. Tra i gerarchi e il loro corteo di familiari, collaboratori, amanti c’è anche Graziani, che riuscirà a cavarsela. Il Duce si è portato dietro pure la figlia, Elena Curti, e la cameriera, Maria Righini. Nei bagagli ci sono bauli pieni d’oro e di denaro.
La notte arriva a Como, dove ci sono già Rachele con i figli piccoli, Romano e Anna Maria. Mussolini non riesce o non vuole incontrarli. È a un bivio. Può risalire il lago lungo la sponda orientale, verso la Valtellina, o lungo la sponda occidentale, verso la Svizzera; la resistenza a oltranza, o la fuga. Sceglie la Svizzera. Il valico di Chiasso è chiuso, ma a Grandola c’è un passaggio ben noto agli spalloni, che la notte precedente hanno portato in salvo Doris Duranti, l’attrice.
Clara ora siede accanto al suo uomo, tuta da aviatore e casco da motociclista. Passa la notte in albergo con lui, a litigare per la presenza della giovane Elena: il Duce nell’agitazione inciampa in un tappetino, cade, si ferisce a uno zigomo.
Il giorno dopo cambia idea, torna sul lago, si aggrega a un gruppo di duecento tedeschi diretti in Tirolo. Rinuncia alla macchina, sale sull’autoblindo di Pavolini.
A Musso il convoglio viene fermato dai partigiani. L’accordo è che i tedeschi possono passare; gli italiani no. Un tenente delle SS convince il Duce a indossare un cappotto della Luftwaffe, l’aviazione nazista, e a calarsi un elmetto sulla fronte. Gli mettono un paio di occhiali scuri e un mitra in mano, per completare la messinscena. Ma forse sono proprio i tedeschi a consegnarlo.
“Gh’è chì el Crapun”, c’è qui il Testone, dice il partigiano Giuseppe Negri al suo comandante, Urbano Lazzari, nome di battaglia Bill. Un tedesco chiede di lasciare in pace il camerata, che si è ubriacato.
Secondo quanto è stato sempre raccontato, Bill lo scuote: “Siete italiano?”. È allora che Mussolini ha un fremito: “Sì, sono italiano”.
Ma lo stesso Bill, nell’ultima intervista a Repubblica, racconta un altro dialogo: “Lo chiamai. Prima gli dissi: “Camerata!”. Niente, nessuna risposta. Allora feci: “Eccellenza!”. Ancora niente. Provai così: “Cavalier Benito Mussolini!”. Ebbe come una scossa elettrica”.
Lo portarono a Dongo. Gli Alleati lo reclamavano; ai partigiani parve una ragione in più per fucilarlo alla svelta. I comunisti mandarono da Milano Walter Audisio, il colonnello Valerio. Fu crudele: finse di essere un fascista venuto a liberarlo, e poi riferirà la frase sconnessa che gli avrebbe detto Mussolini: “Lo sapevo che non mi avrebbero abbandonato. Bravo! Ti darò un impero!”.
Lo fucilarono contro il cancello di una villa, insieme con Clara. Poi li portarono a piazzale Loreto, dove il 10 agosto 1944 le camicie nere avevano ucciso quindici partigiani, e li appesero a testa in giù.
Sarebbe stato meglio processare il Duce? Forse sì. Si sarebbe dovuto rispettare il suo corpo? Certamente sì. Sarebbe stato meglio evitare di ostenderlo, di mostrarlo in pubblico? Anche a questa domanda a noi verrebbe da rispondere di sì. All’epoca parve necessario che tutti sapessero che il dittatore era morto. Anche se poi nacque lo stesso la leggenda secondo cui sul lago di Como era stato fucilato un sosia, che quello non era il corpo del Duce, che il vero Mussolini era riuscito a fuggire in Sud America e prima o poi, come Napoleone dall’Elba, sarebbe tornato …
Infine, dopo il 25 aprile, arrivò la vendetta. Termine generico che indica eventi molto diversi: esecuzioni di criminali; regolamenti di conti privati; assassini dettati dalle ideologie.
La figura di Beppe Fenoglio, cui si deve la meravigliosa frase sul partigiano “ritto sull’ultima collina” che apre questo libro, è ricordata a cent’anni dalla nascita come quella dello scrittore che demitizzò la Resistenza, raccontando i resistenti - compreso lui - per quello che erano: esseri umani. Tutto vero. Ma Fenoglio ebbe sempre chiarissima quale fosse la parte giusta e quale la parte sbagliata. Non solo. C’è una pagina terribile di Una questione privata, il suo capolavoro, in cui un vecchio contadino delle Langhe dice al protagonista, Milton, cioè Fenoglio stesso:
"Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno cattivo di loro. Con tutti voglio dire proprio tutti. Anche gli infermieri, i cucinieri, anche i cappellani. Ascoltami bene, ragazzo. Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti dice: tutti, fino all’ultimo, li dovete ammazzare … “.
Questo non giustifica; ma aiuta a capire.
Prima che qualcuno ci lanci addosso l’accusa di apologia della violenza – che invece va sempre condannata -, è importante chiarire un punto, anzi due.
Tutto quello che hanno fatto i fascisti dal 1919 al 25 luglio 1943 è rimasto, di fatto, impunito. Non soltanto gli apparati dello Stato, dalla magistratura alla polizia, dall’alta burocrazia alle forze armate, sono diventati gli apparati dello Stato repubblicano, a prescindere dal bene e dal male, dalle competenze e dalle responsabilità. È accaduto qualcosa di diverso e di più: i capi del fascismo, inclusi coloro che si erano macchiati di delitti di sangue, non hanno in sostanza avuto problemi nel dopoguerra.
Neppure il maresciallo Graziani, il capo dell’esercito collaborazionista (grassetto mio).
Hanno pagato alcuni di coloro che scelsero Salò, cioè la Germania nazista, con quello che comportava, compresa la persecuzione e lo sterminio degli ebrei. Molto spesso hanno pagato con la giustizia sommaria.
A bloccare la giustizia ordinaria e i processi furono l’amnistia firmata nel 1946 dal ministro della Giustizia, che era Togliatti, e l’interpretazione che ne diede la magistratura. L’amnistia non copriva le torture “efferate e continuate”; furono mandati assolti uomini che avevano evirato altri uomini, con il pretesto che non di tortura continuata si era trattato (grassetto mio).
Poi certo ci furono vendette private, e crimini dettati dall’ideologia, in particolare - ma non solo - nel “triangolo della morte” emiliano, dove molti comunisti, prima che Togliatti e i suoi li facessero smettere, credevano che la rivoluzione fosse imminente e pensarono di anticiparla eliminando “nemici di classe”, dai proprietari terrieri ai sacerdoti. Altre volte, anche durante la guerra civile, le vittime furono partigiani “bianchi”, come a Porzûs.
Sono crimini di cui per molto tempo si è parlato poco. Invece vanno studiati e condannati. È una pagina nera, che noi antifascisti non possiamo e non dobbiamo rimuovere. Noi per primi dobbiamo conoscere e raccontare queste vicende; proprio come quelle dei crimini fascisti, che le hanno precedute.
Nella storia la parte giusta e la parte sbagliata non coincidono con il Bene e con il Male. Dalla parte dell’antifascismo c’era anche una minoranza di persone malvagie, che commisero delitti che non dobbiamo nascondere ma denunciare. E dalla parte del fascismo c’erano sicuramente brave persone, che a volte pagarono per colpe non loro. In ogni caso, l’antifascismo resta la parte giusta; il fascismo quella sbagliata.
E l’antifascismo sarà anche fuori moda; ma non è fuori tempo. Perché il fascismo non è morto del tutto con Mussolini. È finito il fenomeno storico sorto in Italia tra le due guerre mondiali. Ma migliaia di uomini, nel nostro Paese e altrove, hanno continuato a professare quelle idee, e dove hanno potuto le hanno tristemente realizzate. Aggiungendo sangue a sangue, crimini a crimini.
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