Astrolabio, n. 12 del 1972
Testimonianze
"Signor Re" - Una lettera del 1925
di Ferruccio Parri
Né occorre ricordare quale fosse la diffusione del sentimento monarchico nell'Italia meridionale, ed anche in Piemonte.
Sembra legittimo ritenere che un diverso comportamento del Re avrebbe dato diverso esito al referendum istituzionale.
I suoi “tradimenti” - la definizione è propria - hanno avuto dunque importanza decisiva per la storia del fascismo, per la sorte della Monarchia e delle nostre istituzioni costituzionali. Sull'azione e mancata azione di questo Re il suo ambiguo e introverso carattere possono forse aver lasciato dubbi non risolti. Non so invero se restituzioni sincere ed attendibili della sua personalità siano state lasciate da coloro che gli furono più vicini, e specialmente dal gen. Cittadini, fido e confidente.
Io ebbi scarse occasioni di incontrarlo nel 1918, sul fronte dcl Grappa e, come addetto al Comando Supremo di Abano, nella vicina villa-rifugio che lo ospitava a Lispida. Tuttavia qualche nota di carattere mi era parsa evidente: una certa riserva di testardaggine, una propensione alla diffidenza ed un fondo di cinismo, un senso di orgoglio dinastico, una interiore volontà di comando frenata normalmente da precisi princìpi di comportamento istituzionale, e tuttavia qualche volta esplosa, come dopo Caporetto nell'incontro di Peschiera con gli alleati francesi ed inglesi. Per questo non mi persuadono spiegazioni di viltà fisica per la fuga di Pescara e mi pare di capire meglio la decisione del 28 ottobre.
Come verosimile conseguenza della uccisione del padre a Monza per opera di Bresci, egli si era fissato come rigida regola di condotta la stretta osservanza dei doveri di re costituzionale, che vuole avere come controparte solo il Parlamento. Una regola che voleva cancellare il ricordo negativo di Re Umberto, e soprattutto della sua Corte d'intriganti che il figlio non amava.
Il compianto sen. Paratore, col quale ebbi rapporti di amicizia, che aveva avuto parte nei rapporti tra il Governo Facta, di cui era membro, e Casa reale mi confermò il voltafaccia di Re Vittorio al momento della marcia su Roma. Aveva verbalmente dichiarato che bisognava fermare i rivoltosi, ricorrendo anche allo stato di assedio; aveva poi rifiutato recisamente la firma del decreto che gli era stato sottoposto.
Non potrei negarne certamente la possibile influenza.
Ma credo si debbano aggiungere le informazioni ed assicurazioni giunte al Re che dietro le colonne dei Brancaleoni fascisti stava il consenso della grande maggioranza dei combattenti della guerra. Anche io avevo potuto constatare come l'attaccamento alla guerra fosse un dato della psicologia del Re, insieme all'odio contro i socialisti “sabotatori della Nazione” e “bastonatori dei reduci”.
Egli aveva comunque violato lo Statuto di cui era garante. Primo tradimento. I suoi confidenti dichiararono che egli sentiva coperta la sua responsabilità istituzionale dal ripristino della normalità parlamentare di cui Mussolini aveva promesso la osservanza.
Per me, poco incline ad interessarmi dei problemi di lotta politica, sino al fascismo il problema della Monarchia sino allora praticamente non esisteva.
Non mi pareva che valesse la pena di cambiare.
Conoscevo abbastanza bene la storia di Casa Savoia, ed ero d'accordo con la propaganda repubblicana che se è professione dei re quella di tradire, i Savoia non smentivano la regola. Ma per un piemontese quella antica istituzione faceva capo con la cerchia splendente delle Alpi e con l'amico Monviso. Certo ingenuo, e sempre scottato come tutti gli ingenui. Ma quel repubblicano, che nella vignetta di propaganda “dalli al tronco” bandisce l'ascia mi sapeva troppo di romagnolo.
Era tuttavia una curiosa fede che permetteva al Re di mantenere sul Governo Mussolini il controllo e la pressione dei partiti monarchici, e soprattutto dei vari gruppi liberali, e nei piani di questi doveva condurre finalmente il Monarca ad una iniziativa che li liberasse dal fascismo. Un gioco di sì e di no e vedremo, che si fece più serrato con la violenta tensione che seguì, nel secondo semestre del 1924, il delitto Matteotti, con la costituzione dell'Aventino e la violenta campagna per “la questione morale”.
Gioco sempre ugualmente deludente, e mortificante per le due parti, sempre trincerandosi il Re dietro i formalismi della prassi costituzionale che non consentivano un suo intervento se non a seguito di un pronunciamento del Parlamento. Almeno si dimettessero i ministri liberali, e così apparisse dopo l'abbandono dei popolari che anche quest'altro partito aveva ritirato il suo appoggio al governo.
Come pegno di liberalizzazione, nel giugno di quell'anno Mussolini aveva inserito nel Ministero il sen. Alessandro Casati, quasi in rappresentanza dell'amico Benedetto Croce, e il deputato Sarrocchi, entrambi liberali. Per far posto a Casati, Mussolini aveva licenziato Giovanni Gentile. Quando verso la fine dell'anno egli superò un momento di grave crisi e di sfiducia, e gli intransigenti con alla testa il bufalo Farinacci presero il sopravvento, tornò l'ora della violenza e della minaccia. Casati e Sarrocchi, dissenzienti, si dimisero, ma senza dichiarazioni e motivazione pubblica. Il Re ed i suoi consiglieri furono d'avviso che questo non era un pronunciamento del Parlamento. Con i due liberali si era dimesso anche il liberal-fascista Oviglio, ministro della Giustizia: entrò allora nel Ministero Alfredo Rocco, unico ideologo serio del regime.
Il 3 gennaio 1925 Mussolini pronunciò alla Camera un violento discorso di sfida e di minaccia, che diventò famoso. Il Re confidò poi che egli lo aveva fortemente rimproverato “per il tono”, e che il duce se ne sarebbe scusato. Forse avrà anche promesso di comportarsi d'ora in avanti da bravo figliolo.
Diceva spesso, il Re, che egli aveva la responsabilità di non esporre a pericoli non necessari la istituzione monarchica e la Dinastia. Questa è stata una costante, almeno come giustificazione, del suo operato, che ritorna negli altri momenti critici, come nel 1943. Lasciamo ai cronisti l'indagine sulle altre componenti psicologiche - ammirazione, paura - oltre ai pericoli accennati, che caratterizzavano i rapporti stabiliti tra Re e duce. E' ben probabile che egli preferisse un dittatore normalizzato ai chiacchieroni e maneggioni dei vecchi parlamenti.
Bastò il discorso del 3 gennaio perché sul bavero dei fascisti ricomparissero velocemente le cimici che erano quasi sparite. Segno che la tempesta antifascista era superata. Battaglia persa dunque. Persa male.
Una battaglia perduta disastrosamente. Crollava praticamente ogni possibilità di lotta politica efficace nel paese. Restavano rappresentanze autorevoli dell'antifascismo al Senato ed alla Camera, tollerate sin quando si fossero astenute da attività organizzative.
La nostra impressione a Milano fu enorme. Sentivamo che si chiudeva il tempo della battaglia aperta e si apriva una fase oscura ed incerta, poiché era chiaro che il nuovo dittatore si sarebbe valso del potere ormai senza limiti e senza controllo per· distruggere quanto potesse sbarrare il suo cammino. Era molto chiaro che cosa avrebbe significato la segreteria del partito affidata a Farinacci.
A Milano era il Caffè, fondato da Riccardo Bauer, Filippo Sacchi e Parri che teneva banco tra i giovani.
Ecco la lettera al Re che scrissi per il Caffè (numero del 12 gennaio 1925) dopo il 3 gennaio, rappresentativa - mi pare - della impressione di quegli ambienti giovanili.
“Signor Re,
hai sentito questo Tuo Presidente del Consiglio, incolpato di un sistema di delinquenza politica, con quale arcadica e facinorosa disinvoltura si è processato da sé, e si è assolto da sé? E si è assunto la responsabilità, che davvero gli spetta intera, del regime di violenza materiale e morale che dilania sempre più minacciosamente la Tua Nazione? Hai visto, Re, quando il Tuo Presidente ha sentito la dignità del Governo?
Non quando ha malfatto, non quando sono stati incarcerati i suoi fidi, ma quando si è sentito vilipeso. Ed hai visto in che modo ha sentito questa dignità? Non purgandosi dalle accuse od offrendo il modo di purgarsi: ma strozzando la stampa, che lo accusava. E come ha parlato questo Tuo Ministro!
In quel giorno tra lui e la Camera, che partecipa con Te della podestà legislativa, Tu proprio non c'eri: c'era un dittatore che minacciava 48 ore oscure per liquidare non i suoi avversari ma i suoi accusatori: che gli accusatori minacciava di stroncare come fossero nemici d'oltre confine: come se sopra le parti in Italia non ci fossi Tu, la Tua magistratura ed uno Statuto. Quest'uomo, che grida di voler ridurre tutta l'Italia ad accettare da lui per forza una pace che non sa dare perché la sua statura è troppo più piccola della pace; quest'uomo ha parlato come un Re, al quale la Tua Maestà non serve che come espediente polemico. Io, Re, al Tuo posto, l'avrei licenziato come un servo petulante. O Re, questa è l'ora nella quale la solidità della Tua dinastia e della Tua tradizione è chiamata a prova decisiva. Il disordine morale ha generato il disordine politico, e questo quello.
Manca ogni certezza nei fondamenti della vita costituzionale: il potere legislativo non è mai stato così in basso: la camera di Mussolini ha prodotto l'Aventino, incapace non solo di rinnovamento politico, ma nemmeno di quelle modeste abilità trasformatrici che erano pregio delle Camere nei tempi giolittiani.
Certe impotenze umiliano troppo la Magistratura: e ne hanno già corroso il prestigio. Il potere esecutivo è tutto: anzi ormai è tutto l'arbitrio senza legge della oligarchia centrale e di quelle locali, che sfogano ora nelle perquisizioni e nei sequestri anche le loro vendette personali.
Il danno è grave e profondo il disorientamento e turbamento generale. L'unità morale del paese è sempre più profondamente ferita: le masse proletarie si alienano sempre più dalla Nazione che le comprime, le vessa e spoglia i suoi istituti. Questa propaganda di sedizione che vien dall'alto, di bolscevismo di Stato, è veramente insensata; ed è anche propaganda fieramente antimonarchica. Questo regime che alimenta e vive della vigliaccheria, che ha guastato, contaminato, confuso tutto è intimamente paralizzato, incapace di restituire al paese normalità di vita politica.
che fa il Re?
Le voci più contraddittorie corrono ad ogni ora su quello che farai o non farai. Si dice che Tu interverrai al momento opportuno con sapienza giolittiana: che l'antica prudenza e fermezza dei Tuoi avi non fallirà nell'ora decisiva. Questa è vicina, e molti dubitano di Te. Si dice che Tu attenda troppo ostinatamente dai poteri statutari - che pur sono paralizzati come Tu sai - un formale motivo di intervento. Tu hai, avallando il rimpasto, avallato ancora una volta il Gabinetto Mussolini. Ti prepari ad un avallo nuovo?
Mussolini annuncia le elezioni. Di queste elezioni nessuno che abbia avanzato contro il Governo pregiudiziali morali può discutere; nessuno può accettarle. Le elezioni, o Re, non si devono fare.
Le elezioni, o Re, se Tu le lascerai fare ad un Governo privo di autorità morale, metà del paese le riconoscerà irrise o nulle. Conviene alla Monarchia esasperare questo solco? Conviene al paese fare le elezioni in primavera con Mussolini, e ripeterle in autunno con Giolitti?
La battaglia precipita agli atti decisivi. Noi Ti diciamo, o Re, che l'inattività delle opposizioni deve cessare, e cesserà. Da esse, che hanno sin qui pessimamente condotto la lotta, verrà al Governo una perentoria messa in mora che sarà anche una chiamata in causa della Monarchia da parte dei legittimi rappresentanti del Tuo popolo. Quella denuncia diretta ed esplicita contro il capo del Governo, del Tuo Governo, che Amendola non ha fatto rintuzzando in piena Camera la sua iattanza, con uno di quei gesti di fierezza che nella vita dei popoli sono salutari, deve presto venire.
Noi siamo legalitari: noi vogliamo essere legalitari perché questa catena dei governi di piazza deve essere ad ogni costo troncata, a costo anche di prolungare questa crisi intollerabile. Ma, Re, non tradire lo Statuto che hai giurato. La crisi ha raggiunto l'estremo limite dell'ambito istituzionale: tra poco non dipenderà che da Te. E metterà forse in gioco anche Te, se non saprai essere il Re. Non ridurre gli italiani a sperar salvezza da un colpo di mano di generali, o da pronunciamenti di piazza. Non ridurli a disprezzare il Tuo Stato e il Tuo Statuto”.
Naturalmente la lettera provocò la denuncia alla Procura del Re per il reato di “lesa Maestà”.
Occorreva per procedere l'autorizzazione di Casa Reale, che fu negata. Non sarebbe stato un processo comodo.
L'on. Giovanni Boeri, buon amico, che era stato pregato di assumere la difesa, mi avvertì che egli avrebbe dovuto presentare la lettera come la espressione esasperata di una sincera e consapevole fede monarchica. Non era più la mia, anche se mi avesse fortemente offeso la dimostrazione di viltà.
Ma avevo voluto fortemente accentuare il tradimento di un dovere sacro per un re perché le molte discussioni di allora avevano voluto fissare nel modo più chiaro i compiti e le responsabilità di un sovrano costituzionale. Novello Papafava, interprete di questi pensieri, li aveva raccolti in un eloquente scritto che intitolò Fissazioni monarchiche.
Ed io volevo stabilire chiaramente per noi anche un altro giudizio di valore: il tradimento del 28 ottobre è un peccato veniale; il 3 gennaio è un peccato mortale. E' da questa data, non dalla prima che comincia la vera storia del regime fascista. Se è così, tenendo conto che gli atti successivi della monarchia italiana seguono e confermano la stessa linea di condotta diciamo che la sua responsabilitàstorica è più pesante di quella stessa di Mussolini.
E se è così, dopo il 3 gennaio la nostra strada deve scartare questi baloccamenti con la Monarchia e cercare e seguire nuovi metodi: quelli in sostanza della lotta clandestina.
E se la lettera al “Signor Re” affermava per non toglier valore alla campagna una volontà legalitaria, il suo tradimento ci autorizzava a varcare anche questo piccolo rubicone della violenza imposta da momenti rivoluzionari.
Qualche focolaio di resistenza operaia non era mancato in quei giorni, subito spento: mancavano soprattutto capi e dirigenti.
E tuttavia quando esponevo questi motivi di rincrescimento all'amico Stefano Jacini la ragione del suo giudizio assolutamente contrario stava, ancora una volta, nella carta di riserva, che sarebbe certamente intervenuto all'ora giusta. Penosa illusione.
E' una che non si spegne, ed opera anche in seno alla Resistenza, particolare di ambienti intellettuali, militari, spesso disinteressati, sempre immaginando di aprire con la forza di questa tradizione la strada della liberazione dal fascismo. Su questa linea si sviluppa il tentativo di Vinciguerra e Rendi che li porta al tribunale speciale: feroce la condanna: il Re sa, e non batte ciglio, perché non è sua competenza.
Spera nella forza di attrazione della Monarchia Lauro de Bosis, che s'inabissa in mare. Uomini di alto valore, ancor vivi nel ricordo degli uomini di cultura, come Antoni, il filosofo, sostengono i coraggiosi tentativi di Maria José, l'ultima Regina per il salvataggio in extremis di una rinnovata monarchia.
A noi il 3 gennaio ci aveva aiutato a capire la strada della Resistenza.
Ferruccio Parri