Gli avvicendamenti

Aratro a chiodo
Aratro a chiodo
Sulla base delle informazioni fornite dal canonico Conte, verso la metà dell'Ottocento a Cerignola era adottato comunemente un sistema di rotazione triennale del tipo: 1. maggesi vergini, o favali; 2. grano; 3. avena o orzo. Alcuni proprietari nei terreni migliori - quelli calcarei, argillosi e ricchi di ferro, chiamati polputi neri - adottavano anche un avvicendamento di tipo quadriennale: 1. maggesi vergini, o favali; 2. grano duro; 3. maiorica; 4. avena.
Sempre Conte scriveva che erano pochi i coltivatori che lasciavano i terreni a riposo per più anni (le cosiddette nocchiariche o annocchiariche), ma quasi tutti usavano dare ai suoli coltivabili un anno di riposo, rivoltandoli tre o quattro volte.
In ogni caso, dunque, i sistemi di rotazione adottati presupponevano tutti la destinazione di una parte del terreno, un terzo o un quarto che fosse a maggese, secondo tecniche tramandatesi senza variazioni nei decenni successivi, se ancora nel 1903 nella rivista L'Agricoltore Pugliese, in linea con quanto già aveva scritto Lo Re, si leggeva: "la rotazione che qui [in Capitanata] si costuma comprende circa un terzo del terreno a maggese nudo (terreno a riposo)" .
Proprio il maggese era considerato dagli agronomi degli inizi del nostro secolo uno dei principali fattori di arretratezza dell'agricoltura di Capitanata, dal momento che si sarebbe potuto ricorrere in sua sostituzione ad altri sistemi, già sperimentati, per migliorare la produttività dei suoli, come l'alternanza del frumento con le leguminose, ottenendo nello stesso tempo una certa rendita e la possibilità di poter ripartire le spese colturali, fiscali e amministrative su tutti i terreni coltivabili e non solo su quelli seminati a cereali.
Riunione a Foggia nel 1902 Dal web
Riunione a Foggia nel 1902 Dal web
Il maggese prevedeva tre distinte fasi lavorative: 1) a dicembre si provvedeva a "romper la terra", vale a dire ad una prima aratura finalizzata alla distruzione delle erbe estive ed al sotterramento della paglia non ancora macerata; 2) 40 o 50 giorni dopo si "ristoccava" (o "rompeva il maschio"), cioè con una seconda aratura si esponevano all'aria le particelle terrose; 3) in primavera, infine, si "rinterzava", ossia si arava una terza volta, in senso diagonale rispetto alle prime due arature, al fine di eliminare le erbe cresciute spontaneamente nei primi mesi invernali e di rendere il terreno più friabile. In tal modo, il suolo era sì lavorato frequentemente, ma anche in maniera molto superficiale, con la rimozione annuale o periodica di uno strato di terreno che non superava i 12 centimetri e che, producendo poco, andava verso la sterilità.
Occorrevano pertanto aratri più moderni, in maniera da rovesciare strati più profondi di terreno, pratiche colturali fondate sulla "continuità" e non sul "riposo" e sistemi di rotazione che, aumentando la superficie produttiva, consentissero anche una produzione foraggera utile a rendere l'allevamento del bestiame indipendente dalle quote di pascoli stabili presenti nelle aziende, con la conseguenza di poter disporre di maggiore forza muscolare animale e di maggiore quantità di concime organico per la fertilizzazione dei terreni.
La necessità di sostituire al maggese la coltivazione delle leguminose e/o delle piante foraggere, insistentemente propugnata da agronomi ed economisti tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, era assai poco avvertita da proprietari piccoli e grandi, se anche nelle masserie dei Pavoncelli ancora negli anni Venti del nostro secolo il ciclo degli avvicendamenti colturali era regolato dalla tradizionale rotazione maggese-grano-avena, che rifletteva una concezione e una pratica agronomiche stati che e cristallizzate sull'antica alternanza tra cerealicoltura e allevamento transumante, con il bestiame ovino pascolante nelle quote lasciate annualmente a riposo e gli animali da lavoro nutriti esclusivamente con la paglia.
La rotazione triennale costituiva anche un limite per i processi di ammodernamento delle tecniche e di progressiva meccanizzazione delle aziende, processi che ebbero peraltro particolare sviluppo già agli inizi del Novecento a Cerignola, come nel resto della Capitanata, incidendo soprattutto nella modificazione delle modalità e dei tempi del raccolto, nella riduzione dei flussi stagionali della manodopera e nella eliminazione del lavoro femminile all'interno del ciclo cerealicolo.
"E tuttavia", come ha scritto Cioffi; "l'impiego stesso dei mezzi meccanici più adatti alle lavorazioni profonde, come le trattrici e gli aratri più perfezionati, è stato condizionato entro i limiti immodificabili della profondità di lavorazione propri della rotazione terziata: la nuova forza motrice, largamente usata a partire dalla guerra mondiale, è stata così utilizzata in sostituzione e non come superamento del lavoro animato".
I lavori di preparazione del terreno
Una casa contadina
Una casa contadina
Dopo la bruciatura estiva delle stoppie, perché i due terzi (o tre quarti nel caso di rotazione quadriennale) del terreno coltivabile fossero ben preparati per la semina, all'inizio della stagione autunnale occorreva procedere ad una prima aratura profonda, ad una seconda più superficiale e ad una o più erpicature. In verità, come già si è accennato, nella maggioranza dei casi la prima aratura era profonda solo per modo di dire, dato che con l'attrezzo generalmente usato allo scopo, il tradizionale aratro chiodo del tipo pugliese settentrionale, secondo la classificazione di Scheuermeier, si riusciva a stento a raggiungere i 12-13 centimetri di profondità media, lavorando peraltro il campo in maniera ineguale e lasciando quà e là dei punti non divelti, che erano chiamati maschi.
Questo aratro in legno, che fino all'introduzione dei modelli in ferro era usato sia per la prima e seconda aratura che per le operazioni di assolcatura prima della semina, era costituito da un ceppo lungo e stretto e da una bure corta, con un bilancino o timone per l'aggancio dei bovini o degli equini impiegati per quei lavori. La stegola, quasi diritta e munita spesso di un'impugnatura, era infilata nel ceppo ad una distanza di 30-40 centimetri dalla bure. Il vomere era di ferro, a cono vuoto con la lama appuntita ed infilato al ceppo, secondo il tipo più diffuso in tutta la Puglia. Il più delle volte ai due lati dell'attaccatura della bure si trovavano anche dei piccoli versoi. Un pezzo di legno, il profime, infilato tra la bure e il ceppo, regolava l'angolo tra le due parti e, quindi, la profondità dell'aratura.
L'impiego dell'aratro chiodo era ancora agli inizi del Novecento generalizzato e, nello stesso tempo, stigmatizzato dagli agronomi, che propugnavano il ricorso ai moderni e pesanti aratri di ferro per rimuovere le zolle in profondità, rinvigorire i terreni e ottenere un aumento considerevole delle rese cerealicole.
Viceversa, l'aratro in legno descritto era considerato particolarmente utile ed adatto per la successiva aratura superficiale, che aveva lo scopo di rompere le zolle ed appaiare il terreno, oltre che naturalmente per le operazioni di assolcatura, per le quali era peculiarmente vocato. I piccoli proprietari e gli affittuari di quote concesse dai latifondisti, però, continuavano ad utilizzarlo pure per le arature profonde, considerato anche che era fabbricato nelle botteghe di Cerignola e dei paesi vicini e che, quindi, il suo costo d'acquisto era complessivamente e relativamente basso.
Vecchia immagine aerea di Foggia Dal web
Vecchia immagine aerea di Foggia Dal web
Per converso, come già accennato, Cerignola era già dagli ultimi decenni dell'Ottocento all'avanguardia nel settore della razionalizzazione e della meccanizzazione agraria.
E se già a metà del secolo nelle tenute della casa di Montmorency erano stati impiegati l'aratro Dombasle ed un altro di costruzione americana, e successivamente nella masseria Le Torri di La Rochefoucauld erano attestati oltre cento aratri di diverso tipo, più di un proprietario aveva introdotto degli aratri di ferro di un tipo Howard adattato alla meglio, con i quali si erano ottenuti da terreni ormai isteriliti dei risultati che Lo Re definiva "straordinari".
Una recente immagine del Tavoliere Dal web
Una recente immagine del Tavoliere Dal web
Nelle masserie dei Pavoncelli condotte direttamente agli inizi del Novecento, dopo aver sperimentato senza successo l'aratro Ceresa a trazione diretta ed il sistema Fowler, erano variamente usati, con discreti risultati e integrandosi a seconda delle necessità e delle specifiche situazioni, aratri Sack, Gardino, Herbert, Howard, Fissore ed i trivomeri Flother.
Negli anni successivi, nei terreni dell'azienda condotti in economia, e cioè quelli delle masserie Pozzoterraneo e Pavoni, ad indirizzo esclusivamente cerealicolo, e Tretitoli, ad indirizzo cerealicolo-pastorale, per un totale di 1.227 ettari coltivati a cereali, si continuò ad usare strumenti moderni e, alla fine degli anni Venti, erano impiegati anche due trattori, dotati di tutta la gamma di aratri Oliver, per le arature profonde, oltre a circa 150 altri aratri monovomeri, bivomeri e polivomeri.
I lavori di preparazione del terreno per la semina erano integrati dall'erpicatura, operazione condotta generalmente con un erpice rigido, costituito da un telaio quasi sempre rettangolare e dotato di denti di legno o di ferro, che, trascinato da buoi o da muli, completava la frantumazione e lo sminuzzamento delle zolle e lo spianamento del terreno già avviato con la seconda aratura. Invero, nelle piccole proprietà non sempre all'erpicatura si assegnava l'importanza dovuta; il lavoro veniva eseguito un po' a capriccio, quando il coltivatore poteva disporre di un erpice in fitto a basso costo o quando era libero dalle altre incombenze, senza che tenesse conto della necessità di erpicare nelle prime ore della mattina, col terreno possibilmente umido e in assenza di eccessivo calore e di qualsiasi vento.