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Atteezzi dello scalpellino
Atteezzi dello scalpellino
La presenza a Cerignola dell'attività artigianale dello scalpellino (*) viene documentata storicamente dal Catasto Onciario del 1742, nel quale troviamo notizie relative a tale Nicola Farruso di Cristoforo, "chianchiero", cioè lavoratore della pietra, di 35 anni, tassato, con la moglie, cinque figli e la madre, per 16 once.
Scalpellino Dal web
Scalpellino Dal web
L'attività dello scalpellino fu molto fiorente tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, nel periodo in cui la città si arricchisce di costruzioni a carattere civile e religioso che esaltano l'utilizzazione del tufo a vista con decorazioni plastiche in pietra. L'abilità dello scalpellino si rivelava in tutta la sua maestrìa e creatività nelle decorazioni plastiche di ingressi monumentali, scalinate, stipiti, architravi, mensole per i balconi, cornicioni, doccioni, ed ancora nei fregi, negli stemmi, nei girali e nelle iscrizioni; nella realizzazione dei cordoli, dei termini lapidei delle fosse granarie con incise le iniziali dei proprietari, i loro stemmi e il rispettivo numero della fossa in loro possesso; nella preparazione dei termini lapidei che segnavano i confini delle proprietà terriere dell'agro di Cerignola; nella messa in opera dei lastricati e dei marciapiedi.
Alla fine dell'Ottocento i grossi monoliti di pietra, di circa 4 x 2 metri, giungevano a Cerignola, dalle cave di Trani, Bisceglie, Apricena, Bitonto, Monte Sant'Angelo, per mezzo della rete ferroviaria. Si trattava di vari tipi di pietra, da quelle più dure (Trani e Bitonto) a quelle più tenere (Gargano). Arrivati allo scalo ferroviario della nostra città (soppresso negli anni '60 e situato nello stesso luogo in cui è stato costruito il nuovo palazzo di città, nell'articolato complesso urbanistico del rione Ferrovia) venivano caricati su pesanti carri di legno trainati da più cavalli ed avviati ai cantieri di lavorazione.
La lavorazione iniziava con il taglio o spaccatura dei grossi blocchi. Operazione molto delicata e difficile in quanto anche un solo colpo male assestato poteva creare scheggiature e fenditure non previste, "guastando" la pietra. L'artigiano con una matita ed un listello di legno tracciava una linea sul blocco squadrandolo superficialmente. Tale linea veniva tracciata sempre a qualche centimetro dal bordo in modo tale da evitare possibili scheggiature. Quindi, il blocco veniva solcato leggermente per tutta la sua lunghezza - in senso longitudinale e nella zona mediana - con un piccolo piccone dalla corta impugnatura; il solco veniva poi rifilato con la bocciarda, la buggiarde, un grosso martello con bocca munita di un numero vario di punte piramidali (quattro, cinque, sei, otto, dodici), a seconda del tipo di lavorazione.
Il blocco veniva lavorato prima nella parte inferiore, poi in quella superiore, mantenendolo sempre in posizione inclinata e fermo per mezzo di alcuni cunei di legno, i kugne. Veniva disgrossato e livellato con uno scalpello di 20 cm con taglio a cuneo, u skupezzoune, o con un martello adatto, u martidde a skapezzoune, oppure u martidde de la kianke. Infine, veniva rifinito con vari attrezzi, fra i quali ricordiamo: lo squadro, u squadre; il trapano, u trapene; gli scalpelli, i skarpidde; il calcagnuolo, la gravenèdde, una specie di scalpello con una tacca in mezzo alla punta; i punteruoli, puntidde, puntèdduzze, puntidde grusse; lime e raspe, leime e rraspe de la kianke; le martelline, a più denti, la marteddeine a quatte, a cc inke, a sseije, a gotte, a ddudece.
Fra i tanti altri attrezzi ricordiamo anche la martellina per lavorare gli abbeveratoi e il mazzuolo, la mazzètte, per rompere la pietra.
Fra gli scalpellini operanti a Cerignola nel nostro secolo ricordiamo: Domenico Carducci; Pasquale Desantis e il figlio Cosimo; Antonio Graziano; Gioacchino Lisanti e il figlio Matteo; i fratelli Michele e Nicola Santoro; Giuseppe e Salvatore Caggiano; Michele Giannacco; Francesco Monopoli ; Giuseppe Ventrella; Sergio Claudio; Giuseppe Claudio; Vincenzo Bufano; Daniele e Vincenzo Ventrella; Nunzio Dirienzo.
(*) Da www.scalpellino.eu Fino a quarant' anni fà arrivando nelle vicinanze di una cava si udiva come suono predominante il tintinnio dei martelli sugli attrezzi d'acciaio e il brontolio di qualche pistola ad aria compressa che preparava le cognare per tagliare le pietre. Oggi si sente il forte rumore delle seghe diamantate e delle bocciarde ad aria. Le cave si sono trasformate in moderni laboratori che producono opere perfette e lo scalpellino può lavorare solo grazie all'intenditore o realizzando lavori che le macchine non possono fare come opus incertum, pavimentazioni con pietre spuntate, opere in facciavista, restauri su rustici rifacendosi agli originali. Nel periodo in cui s'udiva ancora il rumore dell'acciaio dei ponciotti e giandini, in altre parole i ferri che servivano per tagliare e per rifilare la pietra, erano spesso ricavati dall'acciaio degli assi dei camion poi forgiati e battuti e alla fine temperati per avere i requisiti adatti allo scalpellino. Le punte per la spuntatura della pietra erano delle verghe d'acciaio ottagonali di 17-18 mm di diametro, tagliate a pezzi poi forgiate, battute e temperate adeguando l'acciaio alla durezza della pietra. Gli scalpelli erano dello stesso genere delle punte ma predisposti a fine forgiatura con taglio. Oggi i pochi scalpellini rimasti utilizzano le punte temperate come una volta oppure usano le esagonali da muratore o quelle più dure con le punte in widia; i veri scalpellini s'improvvisavano fabbri forgiandosi, battendosi e temperandosi i propri attrezzi a secondo della pietra da lavorare. I giandini, scalpelli e bocciarde hanno ormai di solito placche in widia. I martelli utilizzati sono tipo mazzetta da 1 kg circa per i lavori comuni, più piccoli ma con la stessa forma per fare alto-basso rilievo, mazza da 5 kg circa per battere i ponciotti o cunei che tagliano le pietre. I manici dei martelli come da tradizione, erano ricavati solitamente dal legno di bagolaro o albero delle sassaie (Celtis Australis), visto le sue qualità di durezza ed elasticità. I rami venivano tagliati e lasciati riposare per un paio d'anni e poi lavorati secondo l'impugnatura desiderata.

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