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di Beatrice Cuccovillo

Bovini al lavoro
Bovini al lavoro
Agli inizi dell'Ottocento il Tavoliere delle Puglie, un territorio di circa 300 mila ettari, per due terzi esteso in Capitanata, è integrato nel sistema economico interregionale che collega Puglia, Molise e Abruzzo ai fini della pastorizia transumante. Il perno istituzionale del sistema è rappresentato dalla "Dogana della Mena delle Pecore in Puglia", istituita da Alfonso I d'Aragona nel 1447. Per secoli le greggi abruzzesi hanno svernato e pascolato sui vasti appezzamenti del Tavoliere, dopo essere state debitamente controllate, smistate e sottoposte a imposta tramite la Dogana.
Foggia: vecchia foto Dal web
Foggia: vecchia foto Dal web
Nel corso dell'Ottocento, tuttavia, si verifica un cambiamento radicale, per cui il regime di pascolo viene progressivamente smantellato e il territorio messo a coltura. Un processo innescatosi a partire già dai primi anni dell'Ottocento e sviluppatosi tra momenti di forte avanzata del seminativo (gli anni '40 del secolo) e periodi di ripresa del pascolo, in relazione anche alle vicende dell'economia internazionale, alle condizioni di scambio più o meno favorevoli per il grano o per la lana.
All'interno di questo processo una data rilevante è il 1865, infatti il 26 febbraio viene approvata la legge per l’affrancamento del Tavoliere, che sancisce la vittoria dei sostenitori degli interessi della società agricola, impegnati in un lungo braccio di ferro con i sostenitori degli interessi della società pastorale.
Secondo autorevoli opinioni,  però, il neonato Regno d'Italia ha voluto la legge del 1865 non tanto per promuovere una organica e moderna politica economico-agraria in Capitanata, quanto - molto più semplicemente - per rimpinguare l'erario con le entrate del capitale d'affranco per tale demanio dello Stato.
La legge, inoltre, è considerata dai suoi accaniti oppositori causa di una frattura insanabile in un sistema pastorale che ha retto per secoli, adattandosi al territorio, e che si andava progressivamente e "naturalmente" avviando verso un efficiente sistema binario integrato cerealicoltura/pastorizia.
Antonio Lo Re, alla fine dell'Ottocento, traccia in Capitanata triste uno sconsolato consuntivo della situazione della Capitanata e sostiene che tale lenta e progressiva integrazione è del tutto vanificata, dopo l'affrancamento del Tavoliere, dalla comparsa di nuove colture, soprattutto vigneti, che gli agrari giudicano, invece, più produttive e capaci di fornire facili guadagni, ma in realtà - per Lo Re - estremamente dannose a lungo termine.

Il meccanismo innescato dalla legge del 1865, sostiene ancora Lo Re, ha dimezzato il numero del bestiame "grosso" e ridotto notevolmente il numero degli ovini che in Capitanata da 1.500.000 passano, nel 1881, a 232.196, con evidenti ripercussioni negative sulla situazione del settore caseario e, soprattutto, tessile.
L'industria tessile è considerata da Lo Re ormai morente: "la produzione nostrana non basta a soddisfare il consumo interno”, e tutto ciò mentre, a fronte di una crescente domanda rivolta all'estero, in Capitanata, un tempo "il più grande mercato di lana nazionale", i pascoli vengono di giorno in giorno dissodati.

Le affermazioni del Lo Re sono evidentemente di parte e contrastano con le opinioni di quanti, invece, ritengono che lo sviluppo economico del Tavoliere sia stato frenato e abbia continuato ad esserlo, anche successivamente alla legge del 1865, dai latifondisti assenteisti dediti all’agricoltura pastorale.
Tuttavia è innegabile che il sistema economico pastorale si stava modificando a tutto vantaggio della cerealicoltura. Dagli inizi dell'Ottocento fino al 1864 vengono dissodati oltre 28 mila ettari, le terre a pascolo e il numero degli animali calano progressivamente e si affermano, nella gestione del territorio, aziende miste cerealicolo-pastorali, dove la pastorizia certo non appare definitivamente superata, ma tende ad integrarsi nel sistema agricolo e a divenire maggiormente produttiva.
Nel corso di questa ridefinizione dell'assetto economico di Capitanata anche il baricentro del sistema si sposta. Foggia, un tempo asse portante in quanto centro della Dogana della Mena delle Pecore, viene lentamente ma inesorabilmente soppiantata da Cerignola, divenuta importante centro di raccolta granaria, e da Barletta.

Per quanto concerne Cerignola, questa già nel 1855 - dieci anni prima della legge d'affrancamento - è definita da Luigi Conte un paese agricolo, ma, per la massiccia presenza di vincoli sul Tavoliere, anche ricca di "prati ubertosi, ne' quali, all'approssimar dell'inverno recano a pascolare numerosi greggi di pecore i pastori Abruzzesi, oltre ai non pochi bovi, vacche, buffali e giumente che vi trovano il loro nutrimento".Queste bestie, dice ancora il Conte, fornirebbero una certa quantità di prodotti caseari e lane molto pregiate.

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Vecchia cartolina da Foggia Dal web
Vecchia cartolina da Foggia Dal web
'analisi dei mutamenti colturali nel corso del XIX secolo permette di affermare che a Cerignola "mentre nel 1814 il 35% della superficie agraria era a seminativo e ben il 64% a pascolo, agli inizi degli anni ottanta il rapporto tra le due destinazioni colturali si è ribaltato".
Anche nel caso di Cerignola la dinamica del cambiamento mostra un ritmo non omogeneo, "modifiche più lente negli anni quaranta e, poi via via più intense a partire dalla metà degli anni cinquanta".
Ad esempio, dopo il 1865 "la superficie seminata a grano passa da 10.400 a 18 mila ettari".
Foggia: vecchia foto Dal web
Foggia: vecchia foto Dal web
Agli albori del nuovo secolo, la situazione delle due grandi aziende agricole cerignolane dei Pavoncelli e di La Rochefoucauld conferma l'ipotesi generale, avanzata in precedenza, di una Capitanata orientata essenzialmente verso un 'economia agraria - cerealicola o viticola - entro cui si ritaglia un certo spazio l'allevamento, non transumante, di bestiame. Nell'azienda La Rochefoucauld, a fine Ottocento, su 4.745 ettari solo 245 sono destinati a prati e pascoli. L'allevamento e la cura del bestiame si giustificano esplicitamente in funzione della gestione dell'azienda stessa.
Difatti fanno parte del bestiame da lavoro per i campi 250 buoi, 8 bufali; altri 100 capi, tra cavalli, muli e mule, vengono utilizzati per il traino dei carretti e altri lavori ausiliari. Oltre all'allevamento di circa 100 vacche fattrici, con relativi tori, giovenche, vitelli, nell'azienda del duca di Doudeauville sono attestati l'allevamento di una piccola mandria di cavalli e un gregge di circa 1.000 ovini, di cui si cerca di migliorare la razza con l'immissione di capi Merinos, ai fini di un allevamento qualitativamente più produttivo.
La condizione delle proprietà Pavoncelli è pressoché simile: su circa 12 mila ettari, 1.500 sono destinati al pascolo per "tradizione del passato e necessità di ogni bene ordinata industria agricola".
Di queste terre a pascolo, alcune fanno parte della masseria e sono chiamate "mezzane", altre costituiscono vaste estensioni territoriali chiamate "poste". In entrambi i casi si tratta di prati permanenti. Nelle "mezzane" pascola il bestiame da lavoro (buoi e vacche di razza pugliese, il cui numero dovrebbe rispettare il rapporto di un capo da lavoro per ogni 4 ettari di terra), nelle "poste", invece, pascolano, d'inverno, 3.500 pecore merinos, in grado di fornire buona lana e formaggi, e piccole greggi di capre. Queste greggi, d'estate, continuano nella tradizione transumante, dirigendosi verso i monti aquilani.
Anche i Pavoncelli aspirano a un salto qualitativo nell'allevamento così come in agricoltura. Per questo motivo, cercano riproduttori di razze qualificate (Rambouillet), affidano la cura delle bestie a personale specificamente preposto a ciò (massari e butteri delle pecore), insomma mirano ad un allevamento “modernizzato”.

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