1. Carenze di tecnica agraria e accuse di politica feudale nella denuncia illuministica di Galanti
La Relazione sulla Capitanata di Giuseppe Maria Galanti, datata il 27 settembre 1791, è la più importante del sec. XVIII, sia per la personalità dell'autore, appartenente alla eletta schiera di illuministi e riformatori napoletani, sia per l'età in cui fu redatta, per cui si pone come il maggiore riflettore economico-sociale del periodo precedente la rivoluzione del 1799.
Si ricordi la globalità degli aspetti indagati: stato naturale della provincia, stato politico demografico della popolazione, stato dei prodotti e dell'agricoltura, delle arti e del commercio, istituti, costumi ed usanze: questi ultimi appaiono come fanalini di coda, che ricevono più luce dai precedenti elementi e fattori, i quali, per proprio conto, fanno da supporto alla materia rappresentata nel museo cerignolano, che è l'unico in Capitanata dedicato specificamente al lavoro contadino e alla produzione agricola.
Alla sommità dei suddetti fattori è il basso livello demografico della popolazione pugliese. Il fenomeno, che in proporzioni maggiori investiva la Capitanata (103 persone a miglio quadrato, mentre se ne contavano 234 in Terra di Bari e 147 in Terra d'Otranto), è per Galanti effetto e causa della desolazione delle campagne, dove l'alto grado d'insalubrità è a sua volta dovuto alla mancata regolamentazione di scolo delle acque di fiumi e torrenti, che quindi stagnano formando paludi, i cui "effluvii pestilenziali ... sono ancora cagione di guazze notturne, così copiose e così micidiali".
Un secondo fattore d'insalubrità delle campagne e di conseguente spopolamento fu la persistenza della Dogana delle pecore, che, se apportò indubbi benefici economici nel tempo in cui fu istituita da Alfonso I d'Aragona, ha fatto aumentare di troppo col suo perpetuarsi l'estensione delle terre incolte.
Altra causa di spopolamento rurale era costituita dall'assoluta maggioranza dei demani feudali, comunali ed ecclesiastici, che limitavano i mezzi da destinare alla bonifica delle campagne paludose e al miglioramento delle terre coltivabili.
Galanti fu particolarmente forte e tenace nel rivolgere il dito accusatore contro l'effetto distruttivo che provocava la politica feudale sostenuta da baroni ed ecclesiastici, mirata a convertire finanche l'anima dei lavoratori della terra, sfruttando con abusi e ingiustizie la loro debolezza sociale e ignoranza culturale.
Da qui lo stato deplorevole della stessa coltura del grano, stata sempre primaria in Capitanata, giacché il castaldo, sostituto del proprietario assenteista, affidava l'esecuzione dei lavori a mano d'opera forestiera, per solito meno impegnata:
vengono gli aratori dall'Abruzzo, i mietitori ed i battitori dalla Peucezia, dalla Basilicata, da' due Principati.
Onde Galanti ribadiva l'opinione di Genovesi che "i piccoli poderi rendevano molto di più delle grandi proprietà". Anche le coltivazioni secondarie, quali l'orzo, le fave, le viti, gli ulivi, sono praticate in Capitanata con mezzi inadeguati, sono dispendiose e danno scarso frutto. In particolare Galanti constata che le viti, come nelle altre province pugliesi, sono piantate in profondità, per cui i grappoli d'uva poggiano a terra; e che "in molti luoghi mancano i torchi, per cui si estrae l'olio pigiando le olive ne' sacchi con l'acqua calda", epperò ammira la "grandezza singolare" degli ulivi e magnifica la dolcezza e delicatezza dell'olio di Vieste. Non meno severa è la denuncia che Galanti fa per il settore zootecnico, dove "s'ignorano i buoni principi e le buone pratiche, per avere buona lana e buoni formaggi". La categoria di pastori più danneggiata è quella dei transumanti:
Le pecore hanno un cattivo stallo nella Puglia, ed in 45 anni dal 1745 al 1789 sono avvenute quattro morìe a cagioni delle nevi e di freddi eccessivi: il che non sarebbe avvenuto, se i pastori si fabbricassero de' capannoni aperti in siti opportuni, quali si possono avere da' soli proprietari. Non solo l'intemperie delle stagioni, ma le cattive acque fanno contrarre a questi animali molte malattie ... Tal volta tali malattie sono contagiose e spengono le mandre intere.
Alla natura dei luoghi Galanti attribuiva lo stato di salute di pastori e contadini:
Comincia l'aria malefica alla fine di giugno, e sono i primi a risentirla quelli che segnano e battono il grano. Questi miseri operai si addormentano all'aria umida e fresca della notte, bevono acqua cattiva e vino salmastro e con eccesso. Di qui hanno origine le febbri terzane, le pleurisie, l'asma, il reuma, le ostruzioni del basso ventre, la tisi, la cachessia.
Alle cause naturali si aggiungono le persistenti e non rimosse cattive abitudini degli abitanti dovute all'ignoranza dei contadini, all'incuria di chi dovrebbe insegnar loro sane regole di vita e all'inesistenza di istituti educativi:
La plebe rustica è attaccatissima ad usi i più contrari alla sanità, di che poco si brigano i ministri dell'altare, che nell'ordine civile sono gli ufficiali del costume.
Dove più si fa sentire lo spirito laico dell'illuminista napoletano è nel rimprovero rivolto da Galanti proprio ai sacerdoti, i quali "si preoccupano di insegnare il catechismo, ma non qualche nozione pratica, più utile per la vita della povera gente".
Il commercio dei prodotti agricoli e caseari è reso difficile dalle "cattive strade": quelle del Gargano "sono impraticabili e non vi si può viaggiare senza rischio", sì che "in tutti i mesi d'inverno il commercio è sospeso e pochissimo esercitato. Le osterie, anziché costituire accoglienti luoghi di sosta e riposo, sono scomodissime ed evitate, perché chi vi capita è soggetto a soprusi e ricatti da parte degli alloggiatori. Tutto ciò ostacola la circolazione e limita le possibilità di commercio". Quindi la necessità di provvedere ai bisogni della popolazione di Capitanata, al pari che nelle altre province pugliesi, viene esplicitata nella parte finale della relazione come codicillo all'attestato di devozione al Re, da parte dei provinciali, di cui con formula piena e solenne si fa garante lo studioso molisano:
Questi provinciali come gli altri sono attaccatissimi alla sacra persona di V. M. ed amano il governo regio. Formano il perpetuo soggetto de' loro discorsi l'avversione al governo feudale, gli abusi del governo ecclesiastico, la dipendenza che sopra tutto detestano da' tribunali della capitale, le dogane interne, le cattive strade, la giustizia male ordinata nelle udienze e nelle corti locali e vivono in una certa fiducia di vedere tutto questo riordinato dal cuore paterno di V. M. e dalla saviezza de' nostri ministri superiori.
Con tale indirizzo di omaggio a Ferdinando IV sembra che Galanti volesse suggellare formalmente il marchio borbonico della sua relazione, nel momento stesso in cui sollecitava riforme che, con la rivoluzione francese alle porte e per la svolta conservatrice assunta in quegli anni dalla monarchia, non poterono essere non dico attuate ma neppure prese in considerazione. In effetti il legame con la politica borbonica non era solo di facciata, corrispondeva bensì alla concezione del riformismo moderato di stampo illuministico, che si proiettò nel decennio francese aderendo, non senza segni di collisione, alle idee e forme di rinnovamento promosse dal governo murattiano. Non a caso Galanti continuò a far parte della intelligencija riformistica napoletana chiamata a sostenere e realizzare l'inchiesta del 1811, che trovò nella nuova monarchia un più adeguato apporto burocratico per potersi attuare come inchiesta di Stato a partecipazione collettiva in tutte le province del Regno di Napoli.
A prescindere dalla forza propulsiva che porta avanti nel tempo, soprattutto per il suo manifestato antifeudalesimo, la Descrizione delle due Sicilie di Galanti ci offre un primo razionale e obiettivo spaccato delle condizioni di vita e di lavoro dei contadini meridionali, che riguarda, ora direttamente ora indirettamente, anche la Capitanata e che apre la serie delle fonti scritte di età moderna per il museo cerignolano.
Se si vuole, come si dovrebbe, fare storia comparativa di opere e azioni sincroniche, l'opera di Galanti può essere confrontata con la pratica agraria del riminese Antonio Battarra (1778) quasi opposte ideologicamente, diverse nella impostazione e nella forma, fissano entrambe l'obiettivo sull'agricoltura del territorio e sui problemi tecnici, economici e sociali che essa comportava, a distanza fra loro solo di un tredicennio: sullo scorcio del sec. XVIII, alla vigilia della rivoluzione francese, in due aree incomparabili (la Romagna e la Puglia), che, incluse di lì a poco nei rispettivi due regni italici di Napoleone, sarebbero state passate al vaglio di una più sistematica inchiesta di carattere più specificamente etnografico.