5. Economia agraria e società agricola nel decennio preunitario
Più organico, anche perché composto da una sola mano e frutto di una personale e diretta
investigazione, è il lavoro di  Carlo De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia (1859).
L’opera, premiata dall’Accademia Pontaniana, si articola in tre parti: nella prima tratta "Dello stato economico agrario presente nella regione pugliese"; nella seconda "Del modo di migliorare e sollevare a stato prospero l'economia e l'agricoltura pugliese, e dei mezzi per giovare alle classi agricole"; nella terza "Della cooperazione dei privati nelle vie economica ed agraria e dei mezzi come poter giovare a sé stessi, ed infine alle infime classi agricole".
Come i suddetti titoli estesamente enunciano, De Cesare riprende e sviluppa problemi già affrontati da Galanti e si pone sulla stessa linea dello studioso molisano nel rilevare difetti e proporre miglioramenti possibili. Il più evidente segno di arretratezza nella produzione agricola è dato dalla spopolazione della regione, che si avverte soprattutto in Capitanata, dove il censimento del 1852 dava 321.175 abitanti con una densità di 136 abitanti per miglio quadrato, contro i 497.460 ab. con densità di 285 ab. in Terra di Bari e i 407.654 ab. con densità di 162 ab. in Terra d'Otranto. Il minor numero degli addetti ai lavori campestri (116.923 in Capitanata, rispetto ai 145.933 in Terra di Bari e i 144.671 in Terra d'Otranto) confermava la scarsa dedizione alla terra, da attribuire alla mancanza di conoscenze tecniche e di mezzi innovativi che avrebbero consentito una resa superiore dei terreni e stimolato un maggior attaccamento dei lavoratori.
Questi invece ne uscivano sfiduciati ed emigravano o si dedicavano ad altri mestieri, avviando per questa via i loro figli. Da qui la necessità, propugnata da De Cesare, di rinnovare le cause che ostacolano lo sviluppo dell'agricoltura, ch'egli considerava come "la vera e più grande sorgente della ricchezza relativamente a noi abitanti del Napoletano", la principale fra tutte le industrie, "la quale dà vita e movimento a molteplici e svariati interessi ... ".
Si richiama quindi a T. Monticelli, Sulla economia delle acque da ristabilirsi nel regno di Napoli, nel constatare la penuria di acque, dovuta, come già aveva notato Galanti, alla incuria dei proprietari. E rileva che il problema era grave soprattutto in Capitanata. Qui:

più che altrove l'irrigazione gioverebbe all'agricoltore ed alla salute pubblica pel regolare scolo delle acque stagnanti, ma è in questa provincia appunto che non si comprende il dono inestimabile delle acque. [ ... ] Per un bene inteso sistema d'irrigazione e di prosciugamento in taluni luoghi vi sarebbe necessità di qualche buon capitale; ma i risultamenti però sarebbero così prosperi e grandi da superare le stesse previsioni e calcoli economici. Ed ove non vi fosse altro vantaggio che quello di purgar l'aria dalle pestifere esalazioni delle acque stagnanti, il prosciugamento dei laghi, delle maremme e degli stagni, e un buon sistema d'irrigazione influirebbero direttamente e indirettamente al benessere di tutti gli abitanti della regione Pugliese.

Mi pare superfluo sottolineare come la penuria d'acqua, dovuta (allora come oggi) a cause naturali o a scarso impegno dei proprietari di terra, costituisca un costante leit-motiv di giustificata doglianza in tutte le inchieste agrarie, da Galanti (e anche prima di lui) in poi: un problema non risolto, che in un museo di cultura contadina (come sarebbe più esatto intitolare il museo di Cerignola, estendendone il raggio di riflessione, specificandone e diacronizzandone il contenuto), se si vuole allestire un museo storico e moderno insieme, può essere rappresentato e debitamente illustrato nel percorso delle proposte avanzate e innovazioni realizzate per ovviare almeno in parte alle ricorrenti crisi di siccità che il problema ha determinato nei secoli XVIII-XX. Di particolare interesse per il museo, anche se si riferisce a tutte e tre le province pugliesi, è la minuziosa descrizione degli strumenti impiegati dai contadini, che sono "la vanga, la zappa, la zappetta, la marra, il marrone, l'accetta, la conca, la falce, il falcione ed altri piccoli ordigni dell'epoca di Trittolemo". E qui De Cesare dimostra di avere mentalità moderna e tendenza innovativa nel valutare la scomodità dei singoli strumenti e gl'inconvenienti ch'essi determinano:

La vanga non avendo conficcato orizzontalmente al manico quel pezzo di ferro volgarmente detto squadra o coda, e che serve a far poggiare il piede del vangatore, obbliga costui a profondarla nel terreno col fianco, impiegando così maggior tempo e fatica, e ottenendo poco resultamento. La zappa, essendo del peso di quattro rotoli di ferro, ed avendo il manico corto, molto affatica la persona, senza smuovere profondamente la terra. In taluni luoghi però l'eccesso è nella lunghezza del manico e produce l'inconveniente di non potersi profondar molto nel terreno.

Errato è anche l'uso generalizzato dell'aratro, che "è un solo e per tutti i lavori diversi, così per la semplice coltivazione dei terreni, come per la semina dei cereali e delle civaie". "L'agricoltura pugliese adunque" - nota De Cesare - "manca di macchine e strumenti agrari utili e proporzionati alle sue dimensioni, e da ciò il primo e più gran male della sua economia. Si possono citare qua e là taluni diligenti proprietari che hanno introdotto un nuovo aratro, un erpice, un seminatore: ma il loro esempio è passato inosservato".
Fra i proprietari innovatori si intravedono, per quanto riguarda il territorio di Cerignola, La Rochefoucauld per l'impiego, alla fine del secolo, di aratri americani di tipi diversi e i Pavoncelli, all'inizio del '900, per la sperimentazione di aratri più funzionali, come il trivomere Flȍther.
Per seguire fasi e modalità d'impiego degli attrezzi di lavoro in combinazione con i rapporti di produzione è indispensabile far conoscere i vari tipi di contratti con le loro clausole e condizioni. De Cesare illustra ed esamina quelli di affitto.
Altro interessante capitolo che introduce l'elemento sociale e fa microstoria umana nel museo è la organizzazione della masseria, termine con cui s'intende "una vasta estensione territoriale per uso di semina", divisa "in due, tre e fino a dieci porzioni, che si dicono pezze, ed ogni pezza si compone di un dato numero di versure.
All'ingresso sorge un ampio fabbricato, con il piano riservato al proprietario e al massaro, locali a pian terreno per i braccianti e stalle per gli animali. Nelle masserie fortificate, di tipo feudale, c era anche la chiesa.
La masseria mista, ossia agricola e pastorale, comprende anche terreni incolti adibiti a pascolo, e quindi a distanza dal fabbricato centrale un caseggiato basso: per il pastore e il gregge detto iazzo (lat. Iaceo).
L’articolazione dei ruoli per il lavoro è regolata da una rigida gerarchia del personale dipendente, al cui vertice è il massaro.
De Cesare non manca di rilevare (e anche in ciò e nel modo di considerare il fenomeno ha la stessa ottica del Galanti) dei furti compiuti dalla povera gente per estrema indigenza; se ne fanno spesso complici i massari, conseguendo ingenti guadagni a danno dei padroni, di cui finiscono per diventare creditori: tali mutamenti repentini di stato economico dei massari accadevano “alla giornata” in Puglia.
Ben gli sta! Parrebbe voler dire De Cesare ai padroni, anticipando il confronto che più avanti stabilirà fra il proprietario e il massaro in fatto di competenza e pseudocompetenza agraria e senso pratico:

Il proprietario pugliese galantuomo (fatte le debite eccezioni che sono tanto più lodevoli in quanto sono rare) è un ignorante, assai più ignorante dell’uomo volgare detto massaro o curatolo, diversamente ei non soggiacerebbe ai consigli di costui, al falso indirizzo d’una mente piena di pregiudizi e di massime opposte al senso comune.
Non conoscenze agrarie, non semplici nozioni di economia, non principi di chimica applicata alle arti, non cognizioni di tecnologia e di meccanica, non notizie di progressi agrari nelle più civili nazioni del mondo, nulla di tutto ciò, il proprietario pugliese galantuomo non sa proprio nulla.

E così lo coglie in flagrante nella sua inettitudine:

Lo vedi alle fiere con un lungo uncino in mano presso al banco delle pecore, delle cavalle, dei poledri, dei bovi, delle vacche, dei porci; ma se ti accosti per comprarne uno, il padrone si fa indietro, e il massaro t’esce davanti a dimandare il prezzo della bestia, a lodare la qualità della razza, a cantare i pregi del proprietario di essa, come se anche costui dovesse vendersi!
E ciò perché il padrone non sa nulla, non s’intende di nulla, non sa far nulla.

E’ prova di inettitudine la stessa fiducia che il proprietario mal ripone nel massaro, il quale non è meno ignorante di lui.
L’effettiva ignoranza sia del proprietario sia del massaro, quale che proporzionatamente fosse, riferita alla scienza agraria, era per De Cesare il male primario d’incompetenza da cui scaturivano tutti i mali dell’agricoltura, comprese la scarsa produzione e la diradata popolazione contadina: mali già costatati circa cento anni prima dal Galanti e attribuiti ad una corretta conduzione delle colture.
All’ignoranza tecnica (e forse non solo tecnica) di chi era preposto al comando corrispondeva l’ignoranza culturale che ottundeva la mente del contadino: ignoranza quest’ultima che un illuminista come Galanti e un suo epigono come De Cesare non potevano non condannare. Essa consisteva in un ingombrante fardello di credenze magiche, che comprendevano stregonerie, fatture, sogni e pronostici del Barbanera.
Anche per questo aspetto le cose sono viste con mentalità illuministica. L'analfabetismo o il bassissimo grado di scolarità dei contadini pugliesi (uguagliabile solo a quello rilevato allora in Russia) dipendeva dalla scarsezza o dal cattivo funzionamento delle scuole pubbliche, sì che la povertà psicologica aggravava la povertà materiale, di cui approfittavano in larga misura gli usurai; spingendo al massimo il proprio interesse fino a pretendere “il 10 per canto al mese con pegni di oro e di argento e biancheria nuova”. L'usura colpiva anche grandi proprietari, "ricchi di terre e poveri di denaro”, portando a precipizio anche talune industrie.
Questi mali economici sono denunziati da De Cesare nella terza parte della sua opera; dove egli ribadisce la necessità di un miglioramento generale dell’agricoltura sostenendo anche una più razionale regolamentazione della giornata al fine di evitare ai contadini pugliesi, specialmente in Capitanata, l'azione micidiale del Levante Scirocco, chiamato Altina; che "Spirando dal mare e passando per luoghi umidi e paludosi giunge umido-freddo, in modo da infiacchire le membra del bifolco e assiderarle; soprattutto quando le sue membra grondano sudore. Onde conviene "modificare l'orario del lavoro, e l’esempio ce l’offre la Terra Barese", dove da questo sistema è scaturito l'aumento della popolazione agricola. "E però vorrei – conclude De Cesare - “che lo adottassero le altre due provincie di Puglia, segnatamente la Capitanata”.