L'Astrolabio n. 6-1971
L'Italsider a Taranto: il mare è nostro
di Giuseppe De Lutiis
Lo Scritto di De Lutiis rispecchia bene ed utilmente le reazioni che le inserzioni delle “cattedrali nel deserto”provocano presto o tardi nelle città meridionali chiamate ad ospitarle. Le lagnanze di Brindisi sono analoghe a quelle di Taranto, e così quelle della zona di Priolo e di Augusta, e così purtroppo avverrà per il quinto centro siderurgico da costruire a Gioia Tauro e per i nuovi grandi impianti di alluminio. Città e fabbrica sono due entità che non si fondono, che vivono entro cerchi d'interessi distinti e diversi. Forse diversa sarà la sorte di Pomigliano d'Arco, che avrà forse difficoltà diverse, quale quella di reggere il violento assalto delle legioni di Donnarumma disoccupati.
Ma il quadro per essere obiettivo ha bisogno di una controparte che aggiunga al processo che i tarantini credono dì poter fare la constatazione della parte di responsabilità dei meridionali nelle carenze della industrializzazione che li riguarda, ed essi subiscono ed attendono come la manna che deve scendere dal cielo.
È ben noto che l'industria pesante, siderurgica o chimica, non è occupazionale. È attività industriale di base, necessaria nei limiti adeguati agli sviluppi industriali del paese, non delle singole zone, o a politiche di prestigio altamente costose, a scapito sempre dei grandi consumi sociali. A Taranto ogni posto di lavoro richiede ormai più di 100 milioni d'investimento, e una classe dirigente meridionale, e tarantina, avveduta avrebbe dovuto preferire e puntare sin dall'origine su medie, ed anche piccole, industrie trasformatrici che con 100 milioni d'investimento danno lavoro a 10-20 operai. Non occorre ripetere le ragioni per le quali i ceti dirigenti meridionali preferiscono il dono delle capitali nel deserto.
La programmazione e localizzazione dell'industria pesante non la fa l'Italsider: la fa il Governo, e adesso il CIPE, non ancora così insensati da investire a Taranto 2.500 miliardi quanti sarebbero necessari a dar lavoro ai 25.000 dipendenti sognati dalla sbrigliata fantasia locale. È buona politica difendere il paesaggio da manomissioni non necessarie e cercare di stabilire rapporti di osmosi tra fabbrica e città. Ma è cattivo indirizzo mentale immaginare che le imprese, anche parastatali, non debbano obbedire a criteri di produttività e di convenienza economica e tecnica: se i tonnellaggi delle navi per i trasporti alla rinfusa arrivano e superano 200.000 tonnellate occorrono nuovi porti d'attracco con fondali di 20-25 metri.
Ferruccio Parri
L'opera è iniziata l'anno scorso alla chetichella, ma solo ora le associazioni culturali e le forze politiche cittadine si sono rese pienamente conto della gravità ecologica, sociologica ed economica di quanto si va progettando e stanno correndo ai ripari. Sia pure con diverse sfumature si può dire che il progetto non ha che nemici; da Italia Nostra all'ARCI, dai partiti di sinistra ai sindacati, alle ACLI. Italia Nostra ha inscenato una manifestazione indubbiamente coreografica, con tinteggiatura di prati e di alberi, ma ponendo l'accento sull'inquinamento ha finito col trascurare l'aspetto più grave, cioè il fatto che un'azienda possa “programmare” liberamente e a suo vantaggio, costruendo opere che incidono sull'avvenire di mezza regione.
Abbastanza contraddittoria, per non dire altro, appare la posizione dell'Italsider: da un lato pubblica un lussuoso libro bianco dove afferma che la tutela del paesaggio è la condizione perché in Puglia si ricostituisca un equilìbrio ecologico, dall'altro si prepara a deviare fiumi, spianare colline e “bonificare” il mare, con tanti saluti per l'ecologia e per il paesaggio. I fautori del progetto Italsider hanno come cavallo di battaglia una parola magica: “competitività”. Certo, avere l'industria a diretto contatto col porto, “a ciglio di banchina”, come usa dire chi è nel “giro”, comporta un risparmio non indifferente. E siccome, a quanto pare, spesso (e per certi versi fortunatamente) queste industrie pubbliche hanno una dirigenza con una perfetta mentalità “aziendale”, la scelta è stata rapida, direi quasi scontata. E a chi, senza contestare l'ampliamento, prospetta uno sviluppo orientato verso nord, oppongono le “cospicue” spese per il trasporto dei prodotti al mare che questa soluzione comporterebbe.
Ci sarebbe un'aria meno inquinata in città? Un buon depuratore e passa la paura. È lecito a questo punto domandarsi in che conto le grandi industrie pubbliche tengano le conseguenze delle loro scelte sulla collettività. D'altro canto tutta la storia dell'industrializzazione di Taranto, che è poi la storia dell'Italsider, è sovente una storia di interessi aziendali malamente coperti con i discorsi “aperturistici” di qualcuno.
Si cominciò dieci anni fa, proprio con l'arrivo del colosso siderurgico, la popolazione della zona venne infiammata di speranza, si parlò di 25 mila posti di lavoro, di “Milano del sud”, di avvenire luminoso. Poi la delusione: i posti risultarono 8.500, ma non è stata tanto la robusta decimazione che ha raffreddato gli entusiasmi, quanto lo stile tutto privatistico con cui è stata condotta l'operazione. Le infrastrutture civili sono praticamente inesistenti, il 95 per cento delle abitazioni dei dipendenti sono private. Le conseguenze, ben prevedibili, non si sono fatte attendere: una esplosione di cambiali, di traffico e le attrezzature scolastiche oltre i limiti di saturazione. A questo si aggiunga il dramma degli edili, richiamati in gran numero dalla costruzione del mastodonte e poi messi educatamente sul lastrico: “la festa è finita, andate in pace”.
Col passare degli anni l'esigenza di creare un tessuto industriale omogeneo si è fatta sentire sempre di più, e nel 1964 è stato varato un piano di sviluppo coordinato che prevedeva quattro agglomerati industriali oltre Taranto: Massafra, Castellaneta, S. Giorgio Jonico e Grottaglie. È il “Piano Tekne”, che pur seguendo la tradizionale politica dello sviluppo a poli, appare abbastanza ben concertato e poteva costituire nna buona base per lo sviluppo omogeneo della zona. Forse o proprio per questo è stato sabotato: per Taranto ad esempio negava l'utilità di una industria petrolchimica; ebbene dopo poco tempo vi si è installata la Shell. Quanto alle industrie satelliti deII'Italsider, anche col piano la situazione non muta: non ne sorge neanche l'ombra, un pò perché la produzione dello stabilimento, lamiere e tubi di grosse dimensioni, diffìcilmente interessa le piccole industrie, e un pò perché i bilanci “pericolanti” di alcune aziende IRI hanno consigliato l'ItaIsider a servirsi presso di loro.
Segue un periodo di silenzio, che ha termine nel ferragosto 1969 quando, approfittando della “siesta nazionale”, viene introdotta alla chetichella la variante Carbonara, quella appunto che prevede l'interramento di 800 ettari di mare. Da allora la situazione è più o meno allo stesso punto: il Comune non ha mai concesso la licenza edilizia, ma di fatto l'interramento è già cominciato. La soluzione del problema in un senso o nell'altro condiziona strettamente l'avvenire cittadino: se verrà approvato il progetto Italsider, i piani di un nuovo grande porto cittadino vengono ovviamente a cadere, e anche i cantieri navali e l'arsenale, di cui è da tempo in predicato il trasferimento dal Mar Piccolo al Mar Grande, riceverebbero un colpo definitivo. Infatti è solo nella prospettiva di un grosso porto a carattere regionale che le industrie possono avere un avvenire. Per non parlare del problema urbanistico: Taranto vive da venticinque anni senza piano regolatore; o meglio il piano c'è, è quello del camerata architetto Calzabini, il glorioso “architetto della quarta sponda”, che negli anni ruggenti ha fedelmente esportato in Libia il “maschio” stile littorio che ha allietato l'Italia per vent'anni. Per porre termine all'attuale anarchia urbanistica, la città avrebbe bisogno dello spazio intorno al Mar Piccolo, proprio di quello spazio che è attualmente occupato dall'arsenale militare e dai cantieri.
Comunque se a Venezia una scelta sbagliata ha conseguenze certamente gravi, a Taranto può averne di ancor più drammatiche: la città jonica ha la Lucania e la Puglia alle spalle e la Calabria di fronte; quel profondo sud dove i grossi complessi industriali invece di portare un benessere generale sono andati configurandosi come isole di privilegio all'interno di una struttura sociale che non è in grado di amalgamarsi ad essa. È stato scritto che il sistema ha distrutto il contadino e non riesce a trasformarlo in operaio. Forse sarebbe più esatto dire che ne trasforma alcuni e li rinchiude nelle cittadelle privilegiate della grande industria, lasciando fuori gli altri, i meno capaci o solo i meno fortunati, che hanno tagliato i ponti con la campagna e si ammassano nei ghetti suburbani, oscillando tra la speranza e la rabbia. Allargare ancora la grande industria senza un piano organico di sviluppo può servire forse a far entrare nella cittadella qualche altro migliaio di “privilegiati”, ma serve sicuramente ad ingrossare le fila degli esclusi, sempre pronti al richiamo dei Matacena e dei Ciccio Franco.
Giuseppe De Lutiis