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 Gianni Marongiu, La politica fiscale dell’Italia liberale dall’Unità alla crisi di fine secolo, Prefazione di Guido Pescosolido, Olski Firenze 2010
Prefazione
b_400_294_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13240049_1008336009244085_6334340745126817511_n.jpgIl Risorgimento italiano e il secolo e mezzo di storia nazionale unitaria che si compirà a breve sono stati sempre oggetto in Italia e all'estero di giudizi tra loro fortemente contrastanti. Dalle prime ricostruzioni di alcuni degli stessi protagonisti del processo di unificazione, a quelle di storici di epoche successive, visioni molto differenziate e spesso ideologizzate della storia del Risorgimento e dell'Italia unita si sono susseguite nel tempo a rappresentare una vicenda giudicata da alcuni come processo di energica affermazione nel continente europeo di un nuovo e forte soggetto nazionale, portatore di libertà politica e civile e di progresso economico e sociale, pur con innegabili limiti, incompiutezze e discontinuità; vista invece da altri come costruzione di una realtà nazionale e statuale debole, nata grazie al decisivo aiuto francese e autrice di un successivo percorso storico segnato assai più dalle sconfitte, che non dai successi conseguiti in molti campi della vita politica, sociale, economica e anche militare. Per i critici della soluzione sabaudo-cavouriana del Risorgimento e della successiva storia unitaria, Lissa e Custoza, Adua e Caporetto sono sempre state lì, a gettare ima lunga ombra sulla gloria di San Martino e Solferino, sulla stessa epopea garibaldina e su Vittorio Veneto, e a riproporre l'antico stereotipo degli italiani che non si battono e che, quando si battono, non sanno battersi - uno stereotipo che invece, per i difensori dell'unità nazionale, proprio il Risorgimento e il suo martirologio smentirono e Vittorio Veneto e i caduti della Grande Guerra, definitivamente liquidarono. Ugualmente, sul piano delle istituzioni politiche, la negativa visione di un processo di unificazione strettamente élitario, estraneo alle grandi masse popolari specie delle campagne, generatore di un ordinamento basato su una ristretta percentuale di accesso ai diritti politici fondamentali, è stata sistematicamente e quasi ossessivamente ribadita e contrapposta alle letture di chi vedeva invece nel Risorgimento uno dei capitoli più importanti della storia del liberalismo e delle nazionalità europee, scritto a durissimo prezzo di sangue italiano contro la compatta schiera dei regimi assolutistici degli stati preunitari, nei quali non c'era traccia delle fondamentali libertà civili e di qualunque forma di limitazione costituzionale dei poteri assoluti del sovrano: un capitolo che si era chiuso con l'introduzione per la prima volta in tutta la penisola di un regime che a metà Ottocento si era proposto come uno dei pochi esempi in Europa di liberalismo costituzionale e rappresentativo, non troppo inferiore, quanto a livelli di partecipazione alla vita politica, a quello della stessa Inghilterra e che seppe poi nel tempo mostrare possibilità e capacità di progressivo allargamento, sia pure in un quadro politico e sociale sensibilmente condizionato dalla presenza di forze antisistema, cattoliche e anarco-socialiste.
b_400_399_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13240062_1007027256041627_2630245390469931431_n.jpgNello sviluppo di queste energiche e non di rado vibranti contrapposizioni interpretative della storia militare e politica del nostro paese, accanto a una miriade di nomi di basso profilo, detrattori o agiografi di scarso peso, spiccano quelli di grandi storici italiani e stranieri. Si cominci dai democratici ottocenteschi come Ferrari, Cattaneo, Anelli, Pisacane, Gabussi opposti ai moderati cavouriani come Farini, Zini, La Farina, Bianchi. Si continui con le letture sottovalutative della storia dell'Italia liberale da parte dei nazionalisti alla Oriani e per certi versi alla Volpe, o dei liberali di sinistra come Piero Gobetti, o di comunisti come Antonio Gramsci, per giungere nel secondo dopoguerra alle versioni variamente demolitorie dei Mack Smith e della storiografia gramsciana. Si ricordino di contro le visioni largamente positive del Risorgimento e dell'Italia liberale dei Bolton King, Trevelyan, Seton Watson, le difese di Omodeo e Croce, Carlo Antoni e Chabod, Valsecchi e Romeo, per non dimenticare Salvatorelli e Spadolini. In ogni caso si potrà constatare che, sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, al di là della durezza dello scontro e delle ideologizzazioni in qualche caso sconfinanti nell'ideologismo, è stato condotto un dibattito di alto livello nel merito e nel metodo storiografico, a opera di storici di alto profilo sorretti da una chiara e forte motivazione etico-politica. La sintesi finale di quel dibattito, per quel che riguarda il Risorgimento, la si può individuare nelle conclusioni delle due opere più rappresentative dell'intero dopoguerra (il Cavour e il suo tempo di Rosario Romeo per la storiografia liberale e la Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro per quella marxista), in entrambe le quali si riconosceva impraticabile e persino controproducente l'interpretazione gramsciana del Risorgimento come rivoluzione agraria mancata. Da ciò derivava che anche da parte marxista i processi al Risorgimento potevano considerarsi chiusi e l'unità nazionale nella forma liberal-cavouriana accettata come grande fatto positivo nella storia della modernizzazione dell'Italia contemporanea.
Dagli anni Novanta in poi, però, molte cose sono cambiate nella storiografia politica sull'Italia unita, e non in meglio. Dopo la scomparsa, sul versante della storiografia liberal-democratica di Ruggero Moscati, Franco Valsecchi, Rosario Romeo e Giovanni Spadolini, e di quella marxista di Ernesto Ragionieri e Giorgio Candeloro, il tema dell'unità nazionale è rimasto come in balia di incursioni forse in buona fede, ma certo senza forza di pensiero e senza metodo, spesso prive delle più elementari conoscenze dell'enorme dibattito svolto su questi temi da grandi storici che non possono essere sottovalutati o peggio ignorati a cuor leggero senza un serrato confronto con il loro lavoro. In sede di larga divulgazione impazzano le "revisioni", a volte spacciate per nuove originali scoperte, di fenomeni come l'illegittimità della conquista garibaldina e piemontese del Sud, la repressione garibaldina dei moti di Bronte e piemontese del brigantaggio postunitario, o recuperi rocamboleschi dei meriti di una dinastia come quella borbonica che nel 1860 lasciò il Mezzogiorno continentale con l'86% e la Sicilia con l'89% di analfabeti. Operazioni sulle quali si costruiscono visioni totalmente negative non solo del Risorgimento, ma dell'intera storia nazionale e della vita civile dell'Italia moderna, ossia di un paese che pure è arrivato a inserirsi tra i 10-12 più sviluppati del mondo. Operazioni che intanto forniscono le basi pseudo-scientifiche e storiche a quelle forze secessioniste, in veste federalista, che per ragioni legate a problemi maturati negli ultimi trent'anni, mettono, nei fatti, in discussione la stessa unità nazionale.
b_450_298_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13240129_1006034536140899_3319139527254194162_n.jpgIn questa parabola della storiografia generale sul Risorgimento, la riflessione sulla dimensione strettamente economica e sociale della vita nazionale unitaria ha avuto un ruolo di importanza crescente nel passaggio dal XIX al XX secolo e poi soprattutto nel secondo dopoguerra. I primi studiosi del Risorgimento di ogni tendenza diedero quasi per scontato il concetto che il processo storico che portò alla nascita del Regno d'Italia fosse di inequivocabile e predominante natura politica e militare. Nondimeno tutti ritenevano che il progetto unitario, con l'avvento di un più moderno quadro istituzionale e di una politica economica fortemente propulsiva sul modello di quella sperimentata nel Piemonte cavouriano, recasse in sé come portato naturale anche il riscatto economico e sociale della penisola. D'altronde, i problemi finanziari ed economici del nuovo Stato si imposero già all'indomani dell'unità con drammatica gravità e urgenza, per cui, soprattutto dopo la presa di Roma del 1870, i problemi dell'unificazione degli apparati pubblici e dell'attuazione di una politica economica finalizzata alla modernizzazione e allo sviluppo occuparono una posizione di primo piano nello svolgimento della lotta politica e nel succedersi dei governi. Ciò favorì la nascita di un forte interesse anche storiografico per i problemi economici e le politiche di governo dell'economia. All'inizio del secolo XX esso si tradusse in una crescente attenzione per l'evoluzione delle strutture produttive avvenuta nella penisola tra la fine del Settecento e il 1860, e nella proposta di un'interpretazione del Risorgimento che vedeva come principale fattore propulsivo del processo unitario le trasformazioni economiche e la crescita della borghesia a esse legata, più che le motivazioni ideali e politiche degli intellettuali moderati e democratici del movimento nazionale e le spinte espansionistiche ed egemoniche di casa Savoia. Fu un'ottica sollecitata, come è noto, da George Bourgin per primo e nella quale si collocarono gli studi su scala regionale di Antonio Anzilotti e di Giuseppe Prato. La sua affermazione più sistematica e documentata per l'intera penisola avvenne nel 1916 a opera di Raffaele Ciasca e fu poi ripresentata dalla storiografia di matrice marxista con Emilio Sereni. Tuttavia essa incontrò contestazioni abbastanza precoci già ai tempi della sua prima formulazione e fu poi confutata in modo definitivo alla fine negli anni Trenta dagli studi di Greenfield sulla Lombardia e alcuni anni dopo da quelli di Luigi Luzzatto sull'intera penisola. Una linea alla quale aderirono più tardi Luciano Cafagna e in parte lo stesso Rosario Romeo. Essi ridimensionarono drasticamente l'entità dello sviluppo preunitario di una borghesia capitalistica interessata alla formazione di un mercato nazionale e tornarono a sottolineare il ruolo di avanguardia di un ceto intellettuale liberale che cercava di stimolare e irrobustire i pochi nuclei borghesi esistenti.
b_450_385_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13240545_1006693356075017_5701287974645243847_n.jpgIl ritorno alla preminenza della dimensione ideale e politica del Risorgimento, per la maggior parte della storiografia italiana e straniera non significò comunque sottovalutazione del fattore economico nella storia unitaria e nella formazione del giudizio storico complessivo sullo stato liberale. In realtà nel secondo dopoguerra gran parte del dibattito e degli scontri nella formazione di quel giudizio si è sviluppato sulla base della valutazione degli effetti economici e sociali della creazione dello stato unitario e delle politiche da esso attuate. Le contrapposizioni storiografiche che presero il via dal fondamentale dibattito suscitato dalla confutazione a opera di Rosario Romeo delle tesi di Gramsci e Sereni sulla mancata rivoluzione agraria nel 1860-61 non riguardarono tanto il problema dell'opportunità o meno della creazione di un mercato nazionale; infatti le resistenze degli stati preunitari all'abbattimento delle barriere doganali interne e all'unificazione economica della penisola continuarono a esser viste a metà '900 dalla storiografia di quasi ogni tendenza come irrimediabilmente anacronistiche e condannate dalla storia. Riguardarono invece la valutazione della natura e degli effetti della politica economica dello stato unitario sul processo di modernizzazione economica e di trasformazione sociale del paese. La storiografia di area radicale e soprattutto comunista emise un giudizio fortemente negativo sulla natura conservatrice dell'unificazione politica rimarcando che essa era stata basata sul mantenimento degli assetti sociali esistenti nelle campagne ed era stata conseguentemente volta a tutelare i ristretti interessi di classe della élite affaristica che governò lo Stato unitario sia nell'età della Destra che in quella della Sinistra storica. Strumento principale per l'attuazione di queste scelte, che furono alla radice dello squilibrato sviluppo economico del paese, sarebbe stata la politica fiscale e l'ordinamento tributario costruito per attuarla, che fecero gravare soprattutto sulle masse lavoratrici il peso della costruzione e del mantenimento in vita del nuovo stato. La storiografia liberale guidata da Romeo obiettò che, come lo stesso Candeloro poi riconobbe, una rivoluzione agraria non sarebbe stata politicamente realizzabile e, se lo fosse stata, avrebbe rallentato anziché accelerato lo sviluppo economico del paese. Invece fu proprio il ruolo assunto dallo stato unitario come grande operatore finanziario, ruolo energicamente sottolineato anche da Franco Bonelli, a dare una scossa decisiva ai processi di cambiamento dell'economia del paese e lo strumento essenziale di quella sua azione fu proprio la politica fiscale che permise allo stato di reperire parte cospicua delle risorse impiegate per promuovere i grandi processi di accumulazione di capitale fisso sociale e di ammodernamento civile, realizzati nei primi trent'anni di vita del nuovo Regno.
b_450_293_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13240750_1008429665901386_1676074885697292580_n.jpgFu un grande dibattito, le cui conclusioni, sia pure raggiunte tra forti contrasti, rivendicavano l'enorme importanza della costruzione di un apparato produttivo mediante un sistema di politiche governative all'altezza dei più progrediti stati europei, e giustificavano per questa via i pesanti oneri imposti all'intera collettività nazionale. Tuttavia la dilagante tendenza dell'ultimo ventennio alla svalutazione d'insieme del Risorgimento e della nostra storia nazionale, che abbiamo qui sopra ricordato, ha fatto via via passare in secondo piano e poi nel dimenticatoio i successi che sul piano economico e in tutti gli aspetti della vita civile si son potuti conseguire solo in seguito alla creazione del mercato nazionale e alla politica economica dello stato unitario. Nei casi migliori si è incredibilmente scivolati in una microstoria economica su base locale il più delle volte fuorviarne, perché ha spesso rievocato dinamismi produttivi preunitari che, visti nella loro specificità e senza confronti con l'esterno, hanno creato l'illusione di uno sviluppo complessivo delle diverse aree regionali, che in realtà non aveva vera rilevanza a livello europeo. Si è finito così per passare sotto silenzio l'arretratezza, per di più in crescita, che al momento dell'unità l'economia dell'Italia settentrionale accusava rispetto alle aree più avanzate dell'industrializzazione europea, e quella dell'Italia meridionale rispetto a entrambe, quella settentrionale e quella europea. Nei casi peggiori si è giunti a mitizzare con grande leggerezza, e direi irresponsabilità storiografica, le politiche economiche e i sistemi fiscali di un regime come quello borbonico, che aveva portato il Regno delle Due Sicilie all'appuntamento del 1860 con i tassi di analfabetismo che abbiamo appena ricordato, con quattro, dicasi quattro, strade nazionali e con poco più di 100 km di binari ferroviari, su un totale di quasi 2000 dell'intera penisola, dimenticando che l'Abruzzo, la Calabria, la Lucania, le Puglie e la Sicilia erano del tutto prive di strade ferrate.
Studi come questo di Gianni Marongiu, già autore negli anni Novanta di una fondamentale Storia del fisco in Italia, assumono allora un significato ed un valore che vanno molto al di là della dimensione strettamente economica. Esso costituisce la più sistematica e scientificamente fondata valutazione storica dell'operato dello stato unitario in materia fiscale. Non è ovviamente il caso di ripercorrere in dettaglio i singoli passaggi di una trattazione puntuale, ricca e articolata come quella che Marongiu ci offre. Mi limito semplicemente a ricordare il grande significato scientifico e interpretativo della sua analisi della politica fiscale della Destra. Marongiu confuta lo stereotipo di una politica meccanicamente ripetitiva di quella piemontese preunitaria, classista, volta a scaricare indiscriminatamente sui ceti popolari e sul Mezzogiorno la parte più ingente dei costi dell'unificazione e della modernizzazione del paese. Con un'analisi puntuale e un respiro comparativo internazionale, pone in evidenza, quanto a crescita della spesa pubblica per abitante, l'analogia di quella italiana con quella dei paesi europei più protesi verso la modernizzazione economica e sociale (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Prussia, Austria-Ungheria). I sacrifici non potevano che essere, se non maggiori, almeno pari in un paese arretrato e del tutto privo di risorse finanziarie esterne. Sottolinea inoltre come il sistema tributario del nuovo Stato, chiamato a un impegno straordinario richiesto dalla sua stessa nascita e dal bisogno di recupero del ritardo accumulato nei decenni precedenti, non fosse semplicemente la trasposizione del modello piemontese. Pur raccogliendo il senso complessivo del rapporto tra Stato e sviluppo economico che era stato di Cavour, il sistema fiscale della Destra storica fu in realtà fortemente innovativo non solo rispetto a quello di tutti gli Stati preunitari, Piemonte incluso. b_326_450_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13241282_1007026979374988_2066682231261798016_n.jpgAnalizzando puntualmente ciascuna imposta introdotta e le rispettive modalità di esazione, l'autore giunge alla conclusione che si trattava di uno dei sistemi tributari più avanzati del mondo, che non risparmiava a nessun ceto l'onere di salvare il futuro dello stato nazionale, certo non alle classi lavoratrici, ma neppure ai ceti più prosperi, inclusi quelli a cui appartenevano gli stessi Sella e Minghetti, il che è visto come un esempio non solo di equa, corretta e trasparente amministrazione della cosa pubblica, ma come una prova di eticità di una classe politica e dirigente con pochi eguali nella nostra storia. A ciò Marongiu aggiunge una questione di principio fondamentale: con la ricerca "ossessiva" del pareggio la Destra - egli scrive - "intese ancorare la politica fiscale a un principio, sancire la vigenza, in un regime costituzionale flessibile, di una regola di costituzione materiale sovraordinata alle mutevoli e contingenti scelte anche se e proprio perché non esistevano né nello Statuto, né nella prassi costituzionale, limiti alla spesa" (cfr. infra, p. 162). Uno strumento importantissimo per la salvaguardia di questo principio fu la regola, difesa strenuamente dalla Destra, che solo al governo e non al Parlamento fosse affidata l'iniziativa di nuove spese. Il prosieguo dell'opera è largamente imperniato sulla misurazione dello scostamento da questa prassi basilare, avvenuto negli anni della Sinistra. Non è certo il caso di ripercorrere qui la puntuale e ragionata analisi dei cambiamenti, di fondo e specifici, introdotti dalla Sinistra in materia di politica tributaria, dai governi Depretis a quelli di Crispi. Il lettore avrà modo di formulare il suo giudizio leggendo direttamente il testo.
Quel che invece mi preme sottolineare nel modo più energico è che uno studio come questo sulla politica fiscale nei primi quarantanni di vita unitaria, realizzato con la competenza del giurista amministrativo di lungo corso e alla luce di una cultura storica generale che pochi specialisti possono vantare, risulta prezioso nel momento culturale, civile e politico presente. Esso riporta al centro dell'attenzione, con un discorso fondato su solida base scientifica, uno degli strumenti fondamentali che la classe politica e dirigente costruì per salvare lo Stato liberale dalla bancarotta e la stessa unità nazionale dal crollo che non pochi dei contemporanei preconizzavano; uno strumento che contemporaneamente essa utilizzò per avviare quel processo di trasformazione dell'Italia nel paese moderno nel quale, nonostante tutti i problemi che ancora lo affliggono, abbiamo la fortuna di vivere e che sicuramente non sarebbe stato migliore nel chiuso delle asfittiche economie regionali preunitarie e all'ombra degli anacronismi delle politiche economiche e dei sistemi fiscali di regimi politici condannati dalla storia.
Guido Pescosolido

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