garganovede, il web dal Gargano, powered in S. Marco in Lamis

Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli editore Roma 1993
7. Sistema politico, società civile, criminalità.
b_400_282_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254125_1007027209374965_1249413067060700691_n.jpgCome si è potuto finora osservare, a partire dal 1950 lo stato italiano ha giocato un ruolo di prim’ordine, diretto e indiretto, nel promuovere e sostenere la crescita economica della società meridionale.
Diversamente da quanto accade nel resto d’Italia, dove l’economia industriale e le regole del mercato hanno un’influenza più vasta, il potere pubblico è diventato, per il Mezzogiorno, la leva più importante per lo sviluppo e le connesse trasformazioni sociali. Tutto questo, se ha avuto un effetto positivo per l’economia, non altrettanto benefico e stato per il sistema politico meridionale, per la vita e il comportamento dei partiti, per l’elevazione dello spirito pubblico, per il tono complessivo della vita civile di quelle regioni. Per quali motivi? Intanto, occorre fare una considerazione di carattere generale. Quando si parla di stato non ci si riferisce ad una entità astratta, ma ad una formazione storica, con le proprie caratteristiche, che variano da paese a paese.
Diversamente da quanto è avvenuto in tutte le società democratiche del mondo, lo stato italiano ha finito col diventare di fatto, per un buon trentennio, il monopolio di un solo partito: la Democrazia cristiana. Anche quando la composizione politica del potere governativo si è arricchita e ampliata, a metà degli anni sessanta, con la presenza di un nuovo importante partito, il Psi, che a lungo era stato all’opposizione, ciò è avvenuto per cooptazione, non per sostituzione. Vale a dire esso è stato chiamato dalla Dc a condividere una porzione limitata del potere statale, ma non è subentrato al suo posto. Non c’è stato dunque, in Italia, e non esiste tuttora, come nelle altre democrazie occidentali, un sistema di alternanza di partiti al potere. E’ venuto perciò a mancare quel meccanismo politico che contribuisce utilmente a impedire (o quanto meno a limitare la tendenza) che lo stato perda i suoi caratteri di garante impersonale della legalità generale, di potere relativamente autonomo, e che divenga perciò strumento di gruppi e poteri particolari e privati (quali sono ad esempio i partiti e le forze economiche che essi rappresentano). L’alternanza al governo da parte di forze politiche contrapposte in concorrenza tra loro ha infatti, fra gli altri, questo straordinario pregio: essa spinge gli uomini che hanno temporaneamente in mano la cosa pubblica ad un senso maggiore di responsabilità ed efficienza a vantaggio della generalità dei cittadini, perché essi sono ben consapevoli di essere sostituibili alla fine del proprio mandato. La certezza, invece, della propria inamovibilità crea il sentimento opposto, quello della impunità, che ovviamente (come accade a chi sa di essere “intoccabile” in un’azienda o in un ufficio) non produce né attenzione agli interessi generali, né efficienza. Essa crea, com’è universalmente noto, le condizioni certe della corruzione pubblica. A tali considerazioni occorre, d’altra parte, aggiungere ulteriori elementi di novità nel frattempo intervenuti all’interno del sistema politico italiano dopo la seconda metà degli anni settanta. La nuova capacità competitiva espressa dal Psi negli ultimi quindici anni, tanto nei confronti della Dc che del Pci, e il suo indubbio nuovo dinamismo politico hanno avuto riflessi particolari nella società meridionale. Soprattutto a livello di enti locali e di amministrazione periferica dello stato, la nuova iniziativa concorrenziale dei socialisti ha avuto - quale esito diretto o indiretto sullo spirito pubblico meridionale - due conseguenze distinte ma convergenti. Essa ha consentito ai gruppi sociali più intraprendenti (ma spesso più privi di scrupoli) di insediarsi nel partito e attraverso questo di usare, in concorrenza o in accordo con il partito dominante (di norma la Dc), le risorse e le opportunità delle istituzioni pubbliche per allargare le influenze politiche, per alimentare ed estendere le reti delle relazioni personali e di potere, per l’arricchimento individuale e familiare. Per questa via, le istituzioni pubbliche sono state piegate più ampiamente e profondamente che in passato ai fini e agli interessi privati di gruppi, correnti, notabili. La sovrapposizione della politica e delle sue logiche alla pratica amministrativa è diventata sempre più estesa e capillare. b_400_262_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254263_1010313255713027_6642221306083859579_n.jpgAl tempo stesso, la nuova aggressività socialista sul terreno clientelare si traduceva in un indebolimento indiretto delle capacità di opposizione e di controllo che tale partito era stato in grado di esercitare all’interno dello schieramento della sinistra. Per rendere completo il quadro occorre inoltre aggiungere che soprattutto nell’ultimo quindicennio anche la più importante forza di opposizione, il Pci (ora Pds), è venuta riducendo (per varie e complesse cause che qui non è possibile esaminare) il proprio ruolo di controllo sugli atti di governo, ripiegando spesso su una politica di mediazioni e di condizionamento. Le stesse organizzazioni sindacali, un tempo strumenti di antagonismo e di organizzazione collettiva degli interessi, e a loro modo organi di controllo e verifica - oggi alle prese con gravi problemi di disoccupazione e di disorientamento ideale - stentano a svolgere il loro ruolo e tendono a trasformarsi in strumenti di mediazione, sempre più interni alle logiche dominanti del sistema politico.
Sicché nel Sud è venuto realizzandosi un fenomeno, che in linea tendenziale attraversa l’intero paese, ma che in quelle regioni conosce manifestazioni più vistose: i partiti, che fino a un certo punto della storia della Repubblica costituivano gli strumenti attivi della democrazia e che al loro interno e nel loro operare attuavano un controllo più o meno reciproco e dell’intero sistema, ora vanno perdendo, o hanno già perduto, i mezzi e i meccanismi stessi della vigilanza. L’intero ambito della politica - costituito dal personale tendenzialmente omogeneo dei funzionari di partito, amministratori regionali e delle Usl, quadri sindacali ecc. - tende a costituirsi come universo a sé e a darsi regole interne che non sono necessariamente quelle universalmente stabilite dalle leggi dello stato. Sicché i compiti di verifica della legalità pubblica sempre di più devono venire dall’esterno: un esterno che è dato dalle istituzioni e da una società civile se non del tutto sottomesse, certamente assai condizionate dal sistema politico e dalle logiche particolari dei partiti.
Orbene, tali caratteristiche speciali del sistema politico italiano e meridionale hanno fatto sì che lo stato - il più importante centro erogatore di danaro e risorse per l’Italia meridionale - assai meno che in altri paesi democratici potesse essere controllato nelle sue scelte e nei suoi modi di operare. Volendo approfondire più analiticamente tale affermazione occorre ricordare tuttavia alcune importanti trasformazioni istituzionali avvenute in questo dopoguerra e nell’ultimo ventennio. Nel 1947 la più grande delle regioni del Mezzogiorno, la Sicilia, è diventata regione autonoma a statuto speciale. Essa cioè è stata dotata di un proprio governo amministrativo, con capacità di spesa e di investimento nei settori più importanti dell’economia e dei servizi, dall’agricoltura al commercio, dalle strade alla scuola. Nel 1970, con la nascita delle regioni a statuto ordinario (cioè non dotate di particolari privilegi come quello della Sicilia e della Valle d’Aosta), ogni realtà regionale è venuta ad acquisire, per la prima volta nella vita dello stato italiano, una consistente porzione di potere autonomo decentrato. Dunque anche nel Mezzogiorno si è prodotta una importante novità che non va in nessun modo sottovalutata.
b_400_279_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254267_1008429632568056_7019579690761072896_n.jpgNegli ultimi vent’anni, indubbiamente, i governi regionali hanno svolto un ruolo importante, in linea di massima, nel processo di modernizzazione delle realtà economiche e sociali. Essi, infatti, rispetto al passato, hanno sicuramente realizzato un avvicinamento fra attività economiche locali e sostegno pubblico, fra cittadini e amministrazione. La distanza fra governanti e governati si è di sicuro accorciata, con vantaggio per la democrazia. E d’altra parte, non a caso, dove l’amministrazione regionale ha funzionato relativamente bene, come in Abruzzo, Molise e Basilicata, si è avuto più che altrove un evidente miglioramento dell’economia e della vita civile nel suo complesso.
L’ottimismo di queste affermazioni va tuttavia subito attenuato con alcune precisazioni che ci riportano alle riflessioni generali dell’inizio. Con il venir meno, infatti, di una politica concentrata e mirata di sostegno alle strutture dell’economia, la spesa pubblica nel Mezzogiorno si è sempre di più trasformata in uno strumento di assistenza, di integrazione dei redditi delle famiglie, di spese per il mantenimento e l’alimentazione di rapporti clientelari e di affari fra il ceto politico e i vari gruppi attivi nella società civile. L’assenza di seri e severi criteri di controllo sull’erogazione dei finanziamenti e la presenza di massicce risorse da parte delle Regioni - migliaia di miliardi solo in parte provenienti dal prelievo fiscale, ma in gran parte ricevuti dai trasferimenti dello stato e dagli aiuti della Cee – hanno trasformato alcune di queste articolazioni dello stato in strumenti discrezionali di potere di vari gruppi e correnti politiche locali. Una discrezionalità accresciuta dal fatto - come appare ormai chiaro a non pochi osservatori, e come si è appena ricordato - che la gran parte delle risorse a disposizione dei governi regionali non proviene dal prelievo fiscale diretto sui cittadini. Dunque, viene a mancare in questo modo una delle condizioni essenziali della democrazia: la vigilanza e il controllo da parte della collettività che è interessata a conoscere la destinazione sociale del proprio denaro.
Basti pensare, per avere un’idea di quanto l’impersonalità della legge, specie in alcune regioni, abbia operato nella gestione della cosa pubblica, che in Sicilia fino al 1963, su 8.887 dipendenti della Regione (tra amministrazione periferica e centrale) ben 8.236, pari al 92,7% del totale, erano stati assunti senza concorso: e per di più la grande maggioranza di essi proveniva da una provincia ad elevato grado di infiltrazione mafiosa, quella di Palermo. Tale appiattimento è subordinazione del governo della Cosa pubblica a richieste, pressioni, appetiti (spesso illeciti e talora violenti) dei diversi strati sociali e gruppi organizzati ha ormai portato in moltissime realtà ad un duplice paradosso. Infatti, quanto più lo stato è presente nella società (ma uno stato che rappresenta assai meno gli interessi generali dei cittadini che quelli particolari dei partiti e dei gruppi) tanto più esso perde legittimità e prestigio agli occhi della collettività. Quanto più, attraverso i partiti, lo stato impiega risorse al fine di rafforzare il consenso della società civile alle sue scelte e al suo potere, tanto più quest’ultima si frantuma e disgrega, diventando spesso preda di fazioni, gruppi, famiglie in lotta reciproca, che degenera - quando vi si infiltrano le cosche mafiose - in conflitti sanguinosi per la spartizione di risorse e di potere. Tale netta e paradossale divaricazione può essere rappresentata da due tendenze sociologicamente ormai ben evidenziabili. Mentre, infatti, nell’Italia meridionale i partiti di governo, soprattutto dal 1980 ad oggi, vengono rafforzando il loro peso elettorale e di potere, non si accresce affatto la loro capacità di governare la società, di organizzarne la vita civile, di sollevarne lo spirito pubblico.
Non è certo privo di significato il fatto che i partiti facenti parte dell’area della coalizione governativa (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) passino in Italia nel complesso - fra le elezioni regionali del 1970 e quelle del 1990 - dal 62,8% al 57,1%, mentre ben diverso e il loro comportamento elettorale al Sud. Qui essi son passati dal 64,6% al 71,5%, pervenendo quindi a un potere assai elevato di controllo sulle amministrazioni periferiche.
b_305_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254324_1013522838725402_5906267567614026057_n.jpgIl sistema politico, dunque (e le logiche che dominano la vita dei partiti), ha un potere assai vasto nel condizionare la vita sociale del Mezzogiorno di oggi. Intanto, data la relativa debolezza della struttura economica di quell’area, esso possiede una enorme forza di riproduzione. Qual è, infatti, uno dei suoi più potenti canali di autoalimentazione? Oltre a quelli noti e intuibili, uno sicuramente assume un ruolo Centrale: la disoccupazione, in primo luogo la disoccupazione giovanile. Nel Mezzogiorno, a metà degli anni ottanta, i disoccupati compresi nella fascia di eta fra i diciannove e i ventinove anni rappresentavano il 74% del totale dei senza lavoro; e di questi ben il 47% erano forniti di diploma o di laurea, contro il 32% della media dei disoccupati nazionali. Nel 1989, secondo altre rilevazioni, su oltre 1.600.000 disoccupati meridionali, il 46% comprenderebbe giovani fra i quattordici e i ventinove anni, 900.000 dei quali in cerca di prima occupazione.
Ebbene, il momento dell’ingresso nel lavoro, per un giovane, costituisce un passaggio fondamentale della sua vita: e allora che egli si rende autonomo dalla famiglia, acquista per la prima volta la propria libertà e dignità di cittadino, grazie al percepimento di un reddito autonomo in cambio di una prestazione di lavoro. Ora, laddove esiste un maturo mercato del lavoro, regolato da criteri di merito e di efficienza, il passaggio dalla famiglia all’autonomia individuale rappresenta per un giovane una transizione relativamente normale. Nel Mezzogiorno non è così. Proprio al momento del trasferimento dalla famiglia alla società, il giovane che cerca lavoro è costretto nella gran parte dei casi a subire il “battesimo” della raccomandazione clientelare. Se vuole conseguire l’occupazione a cui ha diritto, o per la quale crede di possedere i requisiti, egli deve, assai spesso, mettere in moto la catena delle conoscenze e delle influenze della famiglia, della parentela, delle amicizie, per arrivare agli uomini politici che possono decidere del suo destino sociale. Così, al loro “atto di nascita” gran parte dei cittadini meridionali vengono bollati per sempre dal marchio dei favori ricevuti, che dovranno restituire in seguito, dando vita in tal modo a un intreccio di scambi destinato ad allargarsi e a perpetuarsi.
Ma un tale meccanismo porta a conseguenze che nessuna società industriale moderna può sopportare a lungo senza inceppi gravi nel suo operare. Accade, ad esempio, sempre più spesso che l’occupazione, la carriera, il destino sociale di ingegneri, biologi, medici, di tante nuove e importanti figure di professionisti, vengano a dipendere dalle logiche e dai calcoli di politici e sindacalisti di nessuna cultura e competenza, nuovi “padroni” senza scrupoli di pezzi importanti della macchina statale periferica. Il criterio di selezione dell’élite professionale - di quelle figure che devono garantire lo sviluppo economico e il funzionamento dello Stato - sempre meno è quello della competenza, sempre più quello dell’appartenenza a partiti, gruppi, correnti attorno a cui si sono venute ricostruendo, in questi anni, nuove gerarchie e geografie di potere.
Il lavoro dunque, condizione essenziale dell’affermazione e della libertà individuale, diventa in tanta parte del Mezzogiorno (ma per la verità non solo in esso) un bene ricevuto per intercessione e favore, e che perciò non rafforza il legame di consenso fra cittadini e stato, ma fra privati in condizioni di bisogno e privati potenti. Cosi il sistema ha trovato il modo per riprodursi tendenzialmente all’infinito.
b_267_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254437_1013522675392085_5407177541709820355_n.jpgVa peraltro aggiunto che un tale fenomeno viene a collocarsi e ad agire all’interno di trasformazioni profonde che negli ultimi decenni hanno investito lo spirito pubblico meridionale. E’ vero che quest’ultimo - il senso civico dei meridionali, il loro sentirsi membri responsabili di una collettività, dotati di diritti ma obbligati anche al rispetto di regole e di doveri - non ha mai goduto di buona fama neppure in passato. Alla fine dell’Ottocento, Pasquale Turiello (Link: https://www.garganoverde.it/storia/risorgimento/pasquale-turiello/governo-e-governati.html) definiva il cittadino tipico del Sud come un “individuo sciolto”, cioè privo di vincoli obbliganti con il resto della comunità, senza un particolare sentimento di appartenenza a un organismo sociale più ampio. E in questo dopoguerra un sociologo americano ha addirittura coniato il termine “familismo amorale” per definire il comportamento prevalente dei membri di una comunità contadina del Sud, dominata a suo dire dalle logiche individualistiche dell’interesse familiare più che da quello della comunità. Si trattava spesso - e ancor oggi si tratta – di stereotipi che cercano di afferrare fenomeni difficili da decifrare, quale può essere, appunto, il sostrato antropologico di una cultura per realtà regionali così ampie e socialmente stratificate. Ma, certo, anche gli stereotipi sono a loro modo rivelatori di tendenze profonde e di lungo periodo. Resta da aggiungere che nell’ultimo ventennio alle tradizionali debolezze dello spirito pubblico meridionale si sono aggiunti elementi nuovi, che hanno potentemente contribuito a disgregarlo. Non bisogna infatti dimenticare che i fenomeni di inurbamento - come del resto si è già visto - hanno riguardato anche l’Italia meridionale. Migliaia e migliaia di famiglie hanno abbandonato le campagne, i loro paesi (dunque i loro antichi legami sociali e le loro culture) riversandosi nelle città e ingrossandone le periferie: ma le città del Sud non erano né Milano né Bologna, con le loro capacità di integrazione, di assorbimento dei nuovi venuti in un più elevato ordine sociale e culturale. Sicché le vecchie amministrazioni cittadine sono state travolte da compiti inediti, senza essere riuscite a imporre ai nuovi ceti le superiori regole di una talora antica civiltà urbana.
Assai spesso, sono i nuovi venuti che hanno emarginato le vecchie e dignitose borghesie cittadine, hanno imposto i loro spregiudicati punti di vista nell’amministrazione della cosa pubblica, incoraggiati anche dalle prospettive di rapido arricchimento e di ascesa sociale che l’inserimento all’interno del potere locale può oggi garantire.
Nel frattempo, tuttavia, ai mutamenti sociali si intrecciavano trasformazioni d’ordine politico e ideale. Per almeno un paio di decenni, essere comunista o socialista aveva significato - per milioni di meridionali - essere membri di una comunità particolare, sentirsi parte di un organismo collettivo, di una più larga patria ideale in cui l’altro e gli altri, il loro vantaggio - condizione del vantaggio di tutti - costituivano il fine superiore dell’agire individuale. Per quanto ideologica potesse essere simile visione delle cose, essa penetrava le coscienze e forniva orientamenti, educava a pensare la realtà in termini di interesse generale, a guardare alla soluzione possibile dei problemi sotto il profilo dei fini collettivi. Quante migliaia di contadini hanno lasciato i loro campi, lungo i decenni di questo dopoguerra, sono andati ad affollare le città del Nord e dell’Europa, portandosi dentro questa superiore e solidale visione dei rapporti sociali? Ebbene, anche tale identità ideologica si è andata ormai sfaldando specie nell’ultimo decennio, facendo emergere un impasto nuovo e ibrido di realtà culturali, in cui domina l’individualismo orientato all’arricchimento personale e che tende a sfuggire ad ogni vincolo, a violare ogni regola. Così, tutto ciò che è pubblico, nell’Italia meridionale - ma in diverso grado ciò vale anche per il resto del paese - dal verde cittadino ai mezzi di trasporto, dagli spazi ai servizi, più che bene di tutti tende, in maniera crescente, a essere considerato possibile oggetto di uso o di appropriazione privata.
b_400_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254483_1006033809474305_3314425389057414531_n.jpgA questo punto, anche lo storico, che per professione è chiamato a ricostruire e interpretare il passato, è costretto a porsi una domanda con un occhio rivolto all’avvenire: è, questo modo di operare del sistema politico e questa condizione della società civile, senza costi e pericoli per il Mezzogiorno e per l’intero paese? La crescita della criminalità organizzata, fenomeno di drammatica evidenza sotto gli occhi di tutti, ci suggerisce che qualcosa di patologico si è inserito nella vita civile e pubblica meridionale.
Che cos’è la mafia oggi, cosa sono le “famiglie” della camorra e della ‘ndrangheta? Quali sono i loro campi di attività e che cosa ha consentito la loro impressionante espansione?
Intanto, una prima precisazione. La mafia e la camorra esistono, in Italia, da oltre un secolo e sono attive sul territorio, fra ali e bassi, con immutata persistenza. Non esiste in Europa, e probabilmente nel mondo, un altro paese che possa vantare un così triste e terribile primato. Cosa spiega la durata ormai secolare di tale fenomeno? Essenzialmente, il fatto - come già si è cercato di spiegare - che esso costituisce un aspetto interno alla costruzione dello stato nazionale italiano, non un semplice fenomeno di banditismo sociale o di pura criminalità. Ma cosa ha reso tali forme di organizzazioni illegali e violente, così forti e diffuse negli ultimi dieci anni? Prima di rispondere a tale domanda va aggiunta qualche ulteriore informazione sull’ampiezza conseguita dal fenomeno negli ultimi tempi.
Ad arricchire il quadro delle regioni segnate dalla malavita (Campania e Sicilia) si è aggiunta a partire dagli anni settanta la “‘ndrangheta” in Calabria, prima socialmente irrilevante (o presente a fasi alterne) come realtà organizzata e stabile. La camorra, sino a questo dopoguerra localizzata a Napoli e nei dintorni, si è estesa (o ulteriormente rafforzata) al territorio provinciale e nel Casertano. All’interno della Sicilia un’area fino a dieci anni fa apparentemente indenne, come quella di Catania, si presenta ora segnata dall’inquietante presenza di gruppi criminali agguerriti. In regioni prima immuni da simili fenomeni, come la Puglia, si affacciano ormai apertamente e si vanno diffondendo sul territorio forme criminali organizzate come quella della “sacra corona unita”. Negli ultimi dieci-quindici anni si sono verificati mutamenti assolutamente impensabili e imprevedibili.
Esistono città, come Reggio Calabria, che si sono trasformate, nel giro di pochi anni, in città “pericolose” perché le loro piazze e le loro strade sono diventate il luogo pubblico di regolamento di conti fra cosche rivali. Esistono paesi della Calabria, pezzi di territorio di questa Repubblica, dove la sicurezza e la stessa libertà personale dei cittadini, questo bene Supremo che i tempi moderni hanno strappato al sopruso feudale, sono gravemente compromesse.
Qualcosa di inaudita gravità è accaduto nella società dell’Italia contemporanea, nel cuore dell’Europa civile, fra l’impotenza, la rassegnazione, il cinismo del ceto politico, di vastissimi settori dell’opinione pubblica e dei gruppi intellettuali di tutto il paese.
Ma che cosa ha portato le organizzazioni criminali a tale potenza e diffusione? Crediamo di aver fornito già in parte alcune risposte a tale quesito. Restano da aggiungere alcune brevi ma non marginali considerazioni. Non v’è dubbio che negli ultimi quindici anni i gruppi criminali si son venuti alimentando e rafforzando grazie al controllo degli appalti: in ciò favoriti dalla forte presenza di attività economiche legate alle opere pubbliche (costruzioni di strade, dighe ecc.) e al fatto che lo stato fosse il principale erogatore delle risorse.
Penetrando nei partiti politici, dunque, i vari gruppi criminali hanno potuto piegare le deboli strutture statali meridionali alle proprie logiche, trasformando parte della ricchezza statale in introiti per i propri affiliati.
Questi gruppi si sono cosi progressivamente trasformati in vere e proprie “imprese”, attive in diversi ambiti: dal taglieggiamento dei commercianti ai sequestri di persona, dal controllo del mercato ortofrutticolo alle operazioni nelle costruzioni edilizie e nelle opere pubbliche. In tutte queste attività essi esercitano forme diverse di intimidazione e di violenza, battendo ogni possibile concorrenza, imponendo un invisibile controllo territoriale su vaste zone. Muovendosi inoltre sul piano legale e su quello illegale riescono a godere di particolari condizioni di vantaggio rispetto alle imprese “pulite”, ponendo spesso queste ultime in condizioni di difficoltà economica ed usufruendo in generale di tutti i vantaggi connessi con la possibilità di giocare su “due tavoli”.
b_400_268_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254486_1010313829046303_1281077557229562073_n.jpgVa aggiunto, peraltro, che un’ulteriore novità si è affacciata nella vita sociale di questo dopoguerra, nella quale i gruppi mafiosi si sono inseriti con cinica intraprendenza: il traffico internazionale della droga. Gli enormi profitti ricavati da tale commercio hanno finito col dotare le varie cosche di solidi poteri finanziari, che esse oggi cercano di collocare e convertire in attività lecite. Di fronte a questa realtà, di fronte a tale crescita di potenza finanziario-militare delle cosche, i governi dello stato, succedutisi in questo dopoguerra, portano la responsabilità gravissima di aver lasciato la macchina della giustizia in condizioni di estrema inadeguatezza e precarietà. Le scarse risorse che il bilancio dello stato ha destinato all’amministrazione giudiziaria hanno privato i tribunali, soprattutto quelli meridionali, di mezzi, uomini e strutture che ancor oggi risultano inadeguati. Al tempo stesso, specie nell’ultimo decennio, leggi, sentenze, regolamenti carcerari, disposizioni - per responsabilità di tutti i partiti rappresentati in parlamento, ma anche di settori della magistratura - hanno creato condizioni di particolare favore ai gruppi criminali. Con una miopia che oggi sconcerta, i legislatori italiani hanno offerto ulteriori vantaggi a formazioni paramilitari che storicamente si sono sempre organizzate e attrezzate per raggiungere due scopi essenziali: conseguire guadagni illeciti e potere, e difendere se stesse dalla macchina della giustizia. Terrorizzare o uccidere testimoni, distruggere prove, imporre la fedeltà e il silenzio all’interno della cosca e nella società circostante, consumare omicidi con tecniche da agguato lungamente preparate, è il modo stesso di essere della mafia; un modo di porsi in condizioni di superiorità rispetto alla possibile azione repressiva dello stato.
La singolare cecità del ceto politico e di governo, di gran parte della magistratura e degli altri organi dello stato nel non vedere la singolare pericolosità sociale di tali formazioni e di approntare strumenti adeguati e speciali di repressione ha costituito una delle condizioni ormai palesi della crescita senza precedenti della criminalità mafiosa. Ma lo storico ha anche l’obbligo di ricordare, a tale proposito, che una responsabilità speciale ricade senza dubbio sul maggiore partito di governo, che dal 1946 a oggi (1992) ha retto ininterrottamente in condizioni per cosi dire di “monopolio politico” l’organo centrale del controllo statale sui movimenti criminali: il ministero dell’Interno. E quanto decisivo e importante fosse il comportamento di questo pezzo dell’amministrazione pubblica è stato possibile apprezzarlo - per prova contraria - non appena gli ultimi due ministri (Scotti e Mancino, democristiani e pur continuatori di una vecchia condizione di monopolio) hanno impresso al dicastero, negli ultimi anni, una operatività prima sconosciuta, conseguendo apprezzabili risultati nella lotta ai poteri criminali.
Un cupo orizzonte, dunque, disteso sul confuso paesaggio dell’Italia meridionale? Intanto, corre l’obbligo di riconoscere e ricordare, proprio in considerazione del carattere espansivo del fenomeno criminale, che se esso non verrà combattuto e controllato energicamente, l’orizzonte, sotto questo profilo, diventerà uniformemente cupo per l’intero paese.
b_400_273_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13254515_1008429695901383_8134712396843489262_n.jpgMa non va mai perduto di vista un fatto fondamentale: le organizzazioni criminali sono pur sempre nulla più che dei gruppi, delle minoranze, formazioni che vivono certamente grazie alle caratteristiche della società meridionale e del sistema politico nazionale, ma restano, come centri operativi e di comando, delle realtà delimitate.
Benché l’area dell’illegalità, o comunque del non rispetto delle regole, sia socialmente assai diffusa - e talora il confine di separazione con la mafia sia assai esile - non bisogna confonderla con l’attività criminale. Non bisogna commettere l’errore di scambiare i vari aspetti della degradazione dello spirito pubblico, il “malcostume”, con l’attività malavitosa, che rimane per propria necessità obiettiva (cioè per ragioni di segretezza) ristretta e delimitata, anche se le cosche, come singole unità, tendono a moltiplicarsi su un territorio sempre più largo. Oggi, infatti, secondo calcoli approssimativi ma attendibili della polizia, gli affiliati nelle diverse organizzazioni criminali si aggirerebbero intorno alle quindicimila unità, distribuite fra il Napoletano, la Calabria e la Sicilia. Ma il Mezzogiorno, quale aggregato sociale considerato nel suo complesso, e composto in grandissima maggioranza da gente che lavora e produce, da operai, impiegati, tecnici, professionisti, intellettuali che aspirano caso mai a condizioni di vita migliori, civilmente più elevate. Di sicuro l’Italia meridionale può rinunciare a inseguire qualche frazione percentuale di reddito o di consumo rispetto al resto del paese: ciò a cui non può rinunciare è una più elevata qualità del vivere civile, un obiettivo la cui realizzazione dipende certo anche dai cittadini che nel Mezzogiorno vivono ed operano: dalle loro scelte, dal loro impegno, dal loro comportamento quotidiano, dalla capacita di esprimere tutte le energie e la creatività che sonnecchia spesso frustrata negli individui, nei gruppi, nelle associazioni. Ma esso, visibilmente, rinvia a problemi più generali, che investono la struttura del sistema politico nazionale, il modo di essere dello stato: sempre più luogo di conflitto di logiche particolari e sempre meno stato di diritto. Non è d’altronde, per l’Italia intera, la riforma della macchina politica la questione sicuramente più grave, quella che rende il nostro paese così diverso e lontano dalle altre democrazie dell’Europa? E dunque, come non vedere che, ancora una volta, i problemi del Mezzogiorno sono, aggravati, nulla più che i problemi dell’Italia nel suo insieme?

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?