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Generale Teodoro De Cumis, Il Mezzogiorno nel problema militare dello Stato, Laterza Bari 1914
Il problema

Bambini sui banchi di scuola.
Bambini sui banchi di scuola.
L’accademia internazionale, che da cinquant’anni si propone la redenzione del Mezzogiorno, è caduta in un errore, forse geografico, certamente di prospettiva.
Che cosa è, e dove comincia il Mezzogiorno d’Italia?
Al Tronto: rispondono tutti. La Commissione parlamentare sulle condizioni dei contadini del Mezzogiorno ha, appunto, fissato al Tronto il confine nord delle sue esplorazioni. Si osserva, subito, che quasi tutto l’Abruzzo giace a nord del parallelo di Roma; e Roma non è ancora Mezzogiorno. Ed è pur vero, che l’Abruzzo rimase aggregato al Mezzogiorno, più che per altro, per le sue convenienze economiche. Se, facendo cerniera lungo il parallelo di Foggia - che passa per lo stretto di Bonifacio - noi facciamo compiere al margine inferiore d’una carta geografica dell’Italia un giro di 180 gradi, Capo Passero va a finire nella conca di Klagenfurt. Il Mezzogiorno, adunque, pur limitandolo, a nord, al Candelaro anziché al Tronto, ed escludendone la Libia, è una superficie italiana abbastanza vasta. Il Mezzogiorno continentale misura 76.970 chilometri quadrati con una larghezza che varia da 160 a 28 chilometri, sopra una lunghezza di Km. 720. E poiché la Sicilia ha una superficie di 25.739 Kmq. e la Sardegna, che è fra i termini del problema meridionale, di 24.109 Kmq., ne consegue, che il Mezzogiorno ha una superficie totale di circa 128 mila chilometri quadrati su 286.682 del Regno. La Calabria e la Basilicata, nel loro complesso, hanno un’estensione che supera di molto la Sassonia ed il Baden uniti insieme, ed è di poco inferiore al Belgio. La popolazione residente del Mezzogiorno è di 13.004.490 su 32.965.504. E codesto rapporto esisteva nel 1876, quando la popolazione nel Mezzogiorno era di 10.396.070 abitanti su 26.801.154 del Regno.
Né meglio appropriata, a rigor di termini, sarebbe la denominazione di ex Reame delle Due Sicilie, dappoiché la Sardegna e Benevento, non ne furono, o non ne furono sempre, parte integrante.
Il Mezzogiorno, è, forse, un’espressione geografica?
L’impalcatura rocciosa dell’Italia meridionale, passa senza alcun distacco a quella dell’Italia centrale e settentrionale.
E nell’interno della sua fisica struttura il Mezzogiorno è il regno della discontinuità.
La Calabria presenta caratteri ed esigenze diverse dalle altre terre meridionali. Essa è una gran montagna ricca di acque, pur disordinate. La Puglia è piana e siticulosa.
La Basilicata non possiede i grandi altipiani caratteristici della Calabria; i suoi terreni nord-orientali hanno già carattere pugliese ; e quelli nord-occidentali non si distinguono da quelli delle Province di Avellino e di Salerno. Non minori contrasti offrono, per struttura e per forme, l’Abruzzo e la Campania.
Etnicamente il Mezzogiorno è un mosaico. In Calabria una ventina di paesi (popolazione di alcune diecine di migliaia) parla albanese o è bilingue. Sulle pendici e sull’altipiano di Aspromonte vivono popolazioni di cinque o sei Comuni (Roghudi, Ghorio, Roccaforte, Ghorio di S. Lorenzo) che parlano ancora il greco di Omero.
Bizantina è la Puglia, originariamente illirica. Nel Circondario di Taranto cinque paesi costituiscono un’isola etnografica albanese. Nella parte meridionale della Terra d’Otranto esiste una Grecia di piccoli paesi, alcuni dei quali (Calimera, Martano, Corigliano etc.) parlano e professano il culto greco. In Calabria esiste una piccola colonia valdese. E colonie albanesi esistono nell’Abruzzo.
Taluni ravvisano l’esistenza di una mentalità meridionale.
Qualche cosa di vero c’è, ma nelle qualità negative: la concezione frammentaria dell’onnipotenza dello Stato, specie di scudo fatato, vero pozzo di S. Patrizio; l’orgoglio atavistico, comune ai nobili decaduti, e troppo accarezzato dagli scrittori: la fede eccessiva nel proprio ingegno. Ma sarebbe necessaria una forte dose di buona volontà per iscorgere linee simmetriche di mentalità, di costumi, di propositi, di tendenze fra gl’italiani di Bari, di Aquila, di Sassari, di Cosenza. Eppure recentemente, in Parlamento, un deputato ha messo in un fascio la civiltà della Magna Grecia con le antiche civiltà della Sicilia. Ciò che forma il fascio intellettuale, il comune affratellamento delle popolazioni del Mezzogiorno può essere tutt’al più la negligenza del Governo: e il parlarne male in tutti i toni.
Il Mezzogiorno si differenzia dal resto d’Italia, in quanto possiede una storia politica e militare di otto o nove secoli. E le sue popolazioni si differenziano dalle altre del Regno in quanto offrono, tutte, sintomi di depressione e di malessere. Ma ognuna di esse ha bisogno di speciali terapie. Esiste, infatti, una quistione siciliana, una pugliese, una sarda, una della Basilicata, una calabrese, una, gravissima, di Napoli. Ne son prova le leggi speciali regionali, che dal 1897 si seguono con varia fortuna. Tutto ciò non vide lo Stato italiano nei primi anni. Si ritenne che l’unità politica bastasse a formare, in breve tempo, un’Italia tutta di un pezzo e tutta di un colore. La parola Mezzogiorno riduceva, nel pensiero e nel linguaggio universale, al medesimo denominatore territoriale, demografico, sociale un aggregato di popolazioni dissimili, dissociate, lontane fra loro e dal resto.
Essa, inoltre (errore più grave), inglobava in un diminutivo geografico inesatto, un vasto ed eterogeneo aggruppamento di 16 province continentali su 60, scaglionate nella profondità di 720 su 1200 chilometri (da Monte Bianco a Capo Spartivento) e in totale di 25 su 69 province del Regno.
La penisola calabrese è lunga oltre 260 chilometri da Monte Pollino a Capo delle Armi. La Puglia, da Foggia a Gallipoli, è lunga, misurando sulla ferrovia, 326 chilometri che si percorrono con treni diretti in nove ore. Contrariamente a quel che avviene nelle altre regioni rivierasche d’Italia, il mare separa, non unisce, la penisola salentina e la calabrese.
Lo Stato italiano avrebbe avuto il mezzo di correggere la natura matrigna abbreviando le distanze con le ferrovie. E non può negarsi che ne ha costrutte. Ma le distanze permangono; e p. es.: viaggiando in ferrovia - finché possibile con treni diretti e per le vie più brevi – s’impiega:
Napoli-Reggio Km. 473, ore 20 (Nota)
Lecce-Taranto Km. 109, ore 3 circa
Bari-Gallipoli Km. 203, ore 6,25 circa
Catanzaro-Cosenza Km. 90, ore 6 in automobile
Catanzaro-Cosenza Km. 233, ore 8 circa (ferrovia)
Catanzaro-Reggio Calabria Km. 173, ore 6,30 per la ferrovia orientale
Catanzaro-Brindisi Km. 366, ore 12,37
Bari-Catanzaro Km. 411, ore 11,40
Bari-Reggio Calabria Km. 589, ore 17,32
Bari-Potenza Km. 240, ore 8 circa.
Non metto in conto il disagio inflitto ai viaggiatori dagli orarii, dai cambiamenti di treno, dalle fermate snervanti - sopratutto nella stagione invernale. Da Catanzaro a Caltanissetta, centro dell’Isola di Sicilia, son necessarii otto trasbordi. E le stazioni su nominate di partenza e di arrivo (eccetto Catanzaro e Potenza) sono alle porte delle città rispettive. Non son poche, invece, le stazioni, giungendo alle quali si impone al viaggiatore un’ulteriore imprevista ascesa di due ed anche di tre ore con mezzi di trasporto impossibili, quando vi si trovano; e anche a dorso di mulo. Devesi aggiungere, che in Italia si viaggia poco, a cagione, sopratutto, delle alte tariffe, ognora più inasprite. Infine la ferrovia senza una rete di strade carrabili e vicinali che vi facciano capo, è fiume senz’acqua. Le popolazioni del Mezzogiorno, adunque, lontane dal centro per fatto di natura, sono tuttora segregate fra di loro.
L’errore geografico, o di prospettiva, fu causa non ultima di quel tirare in lungo di studi e di provvedimenti che ha condotto il Mezzogiorno alle sue attuali miserevoli condizioni. Senza volerne esagerare l’importanza, è pur sintomatico il fatto, che soltanto dopo il 1876 si pose mano ai lavori per tracciare la carta topografica del Mezzogiorno, mancavano, tuttavia, nel 1911, alla carta geologica d’Italia gli Abruzzi, il Molise e alcuni fogli della Campania.
Le esplorazioni del Mezzogiorno datano dal 1862.
L’ultima, deliberata il 21 giugno 1906, ha partorito i trenta, mi pare, grossi volumi della seconda Commissione d’inchiesta parlamentare agraria, che costituiscono l’Enciclopedia del malumore meridionale, ignota ai più, come le precedenti.
La questione meridionale ha offerto agli scrittori una ricca varietà di temi - è economica, industriale, idraulica, morale, forestale, demografica, stradale, agricola, di malaria, di analfabetismo, di emigrazione. Sinteticamente è il problema della miseria. Tuttavia un solo aspetto della questione non è stato abbastanza studiato: l’aspetto militare. Si è, tutti, convinti, che quale sarà l’avvenire del Mezzogiorno, tale sarà quello del nuovo Regno, poiché se non si rialzano le sue sorti, esso impoverirà anche le altre parti d’Italia (grassetto mio). Tutti i Ministeri, ossia i loro bilanci, collaborano, con maggiore o minor profitto, alla redenzione del Mezzogiorno, eccetto il Ministero della Guerra - quello della Marina avendo, da qualche tempo, dato, ancor esso, segni di vita. Le Province del Mezzogiorno dànno, annualmente, all’Esercito circa il 24 o il 25 per cento del contingente di leva; e l’Esercito, che assorbe tanta parte del nostro bilancio, fu sempre rappresentato nel Mezzogiorno in misura affatto inadeguata, non rispondente ad alcun criterio militare, politico, sociale.
Facciamo un po’ di storia.
Un errore politico riconosciuto da Silvio Spaventa, ed un errore militare stigmatizzato dal nostro Stato Maggiore portarono, nei primi anni del nuovo Regno, all’occupazione militare, tumultuaria e scriteriata, di buona parte del Mezzogiorno. Metà della fanteria attiva era disseminata in esso, per soffocare la reazione che il Governo aveva, inconsapevolmente, alimentata di capi e di provetti gregarii.
Il 9 giugno 1861 l’Italia fu divisa in sei Gran Comandi di Dipartimento militare. Le sedici Province del Sud continentali ne ebbero uno a Napoli (Divisioni di Napoli, Chieti, Bari, Salerno). La Sicilia ebbe un Comando di Divisione a Palermo, il quale senza averne il titolo (e non si capisce il perché) era, nel fatto, il Comando Generale di tutte le truppe mobilizzate nell’Isola; e quattro Comandi di Sotto-divisione a Palermo, Caltanissetta, Messina, Siracusa. Il 4 agosto 1861 venne creata, e l’8 settembre successivo venne chiamata alle armi, la Guardia Nazionale per cooperare alla repressione del brigantaggio. Il 23 marzo 1862 furono ricostituiti, nei Reggimenti Fanteria, i quarti Battaglioni, e distaccati, tutti, nel Mezzogiorno. I fatti di Aspromonte condussero, nell’agosto 1862, a dichiarare in istato d’assedio tanto il Napolitano quanto la Sicilia, nella quale furono concentrati sessanta Battaglioni, tre Reggimenti di Cavalleria, undici Batterie da Campo. Nel 1863 su ottanta Reggimenti Fanteria (di quattro Battaglioni) ventotto, oltre il reggimento Real Marina, erano nel Mezzogiorno, e cioè dodici in Sicilia, sedici nelle Province di qua del Faro (Napoli, Teramo, Salerno, Chieti, Cosenza, Catanzaro, Isernia, Campobasso, Sansevero, Bovino).
Erano, inoltre, nel Mezzogiorno, quarantasei quarti Battaglioni: ventitré nel Continente, tredici in Sicilia.
Dei trentatré Battaglioni Bersaglieri, due erano in Sicilia, ventitré nel Mezzogiorno Continentale. Dei diciassette Reggimenti Cavalleria, sette erano a Caserta, Salerno, S. Maria di Capua, Bisaccia, Foggia, Aversa, Palermo. Delle quattordici Legioni RR. Carabinieri, sei erano a Napoli, Chieti, Bari, Salerno, Catanzaro, Palermo.
Nel 1864 Bovino perdette il Reggimento; Melfi e Capua ne ebbero uno, ciascuna; dei diciannove Reggimenti Cavalleria, nove erano nel Sud; e fra le nuove Sedi erano Ariano, Catania, Guardia-Lombardi, Termoli, Lucera; ventuno Battaglioni Bersaglieri permanevano nel Sud.
E si andò avanti, così, per un paio d’anni ancora; ed alle RR. Truppe si univano, per la guerra al brigantaggio, le Milizie locali, le Squadriglie ecc.
Dopo la Campagna del ’66 s’iniziarono riduzioni di ogni genere, a cominciare, naturalmente, dalla soppressione del Gran Comando di Palermo e della Sotto-Divisione di Messina. Mentana interruppe il programma; si ricostituirono le quarte Compagnie dei Battaglioni Bersaglieri e i quarti Battaglioni, da poco risoppressi, nei Reggimenti Fanteria. Ma l’esodo dell’Esercito del Mezzogiorno non si arrestò. La spedizione di Roma vuotò, quasi del tutto, le stazioni militari del Sud. L’Irpinia ed il Molise, che avevano avuto quattro Reggimenti di Cavalleria, cinque Battaglioni Bersaglieri ed una gragnuola di quarti Battaglioni; la Capitanata che aveva avuto un Comando di Brigata, due Reggimenti di Fanteria, un Reggimento Cavalleria, e tre o quattro Battaglioni Bersaglieri, oltre la sua ricca tangente di quarti Battaglioni, perdettero ogni cosa. Le Legioni RR. Carabinieri di Chieti, di Salerno, di Catanzaro furono soppresse. Cosenza perdette, ancor essa, tutto. Catanzaro, stata, per anni, sede di Comando di Divisione e di Brigata, con un Reggimento di Fanteria, un Battaglione Bersaglieri, uno Squadrone di Ussari, una Legione RR. Carabinieri, e che nel Circondario formicolava di truppe, fu retrocessa, per così dire, al Presidio di un Battaglione, tratto or da Catania, or da Bari.
Il trasferimento della Capitale non modificava la condizione essenziale della Radunata alle frontiere. Il nostro massimo teatro di guerra terrestre era e sarà sempre al Nord. E l’Esercito, nel tempo di pace, dee preponderare in quella direzione. Bensì il programma per la difesa dello Stato, come lo avevano formulato i generali Luigi e Carlo Mezzacapo nel 1857, riceveva la sanzione del fatto compiuto. Nella ipotesi, dannata, della perdita della Valle del Po, bisognava essere preparati e forti per difendere, con ogni cura, tutto il territorio nazionale. Roma essendo al limitare del Mezzogiorno, la ragione politica avrebbe dovuto arrestare, per misura di guarentigia, quel processo di svalutazione militare delle Province del Sud, verso le quali il centro di gravità del nostro sistema politico erasi spostato. Processo che, se non favorito, certamente non combattuto da alcuno, portò alla deformazione, difficilmente riducibile, del nostro assetto militare territoriale.
La nostra letteratura militare, che traeva dalla Topografia dell’Italia Continentale, limitata al Rubicone, i suoi temi di guerra, contribuì non poco a quella deformazione.
E’ malagevole, ed anche ingrato, indagare se essa abbia rispecchiato fedelmente la mentalità politica del tempo, ristretta ma sincera, o abbia, più o meno inconsapevolmente, favorito, con la sua forza di propaganda, interessi egemonici coalizzati ai danni del Mezzogiorno.
Essa ebbe maestri di alta autorità, e fu feconda di bene nel campo degli studi militari in genere. Ma il suo peccato di origine, la visione circoscritta ad un Regno dell’Alta Italia, il cui ridotto, ultima ratio della difesa territoriale, era vincolato a questo o a quel crocevia della calotta padana, ci costò, fra l’altro, milioni a centinaia.
Dal 1873 al 1885, tre leggi provvidero allo sviluppo ed al perfezionamento progressivo dei nostri ordini militari. Si aumentarono i Corpi d’Armata, i Reggimenti di Fanteria e di Cavalleria; si sdoppiarono i Reggimenti di Artiglieria da Campagna; nuovi servizi vennero impiantati.
Le singole grandi Unità territoriali furono, com’è nostro costume, imbastiti sullo schema consueto di desolante uniformità; ma l’Esercito, con i suoi organismi essenziali, rimase qual’era; Capo pletorico, arti anemici.
Nel 1883 venne istituita una scuola di applicazione di Sanità militare, a Firenze. Nel 1884, dopo l’aumento dei due Corpi d’Armata, mentre le Province meridionali rappresentavano il terzo della popolazione del Regno, in esse era di stanza meno del quarto delle forze militari; e prendendo a considerare soltanto le Province continentali, la differenza cresceva ancora, dappoiché la popolazione era del quarto e la forza meno del sesto.
“La sproporzione dei Reggimenti Fanteria nel Sud in rapporto alla popolazione, e quindi anche alle risorse di reclutamento, ha condotto fra le altre cose, al ripiego dei depositi staccati e delle Sezioni di Deposito di Reggimenti, i quali sono stanziati più a Nord, con complicazioni ben note ai conoscitori di tal materia”.
Nel 1878 la carta politica dell’Africa settentrionale, di fronte alla Sicilia, erasi modificata così, da metterci risolutamente in guardia contro una possibile nuova Cartagine.
E più tardi noi seguivamo con ansia il dramma egiziano. Nel 1885 la rotta della nostra politica estera volge al Sud. I fati d’Italia venivano compiendosi con le imprese coloniali, e il flusso di truppe e di ricchezza si dirigeva, con crescente intensità, al Mediterraneo. Durante le nostre spedizioni in Eritrea, Napoli, Taranto, Brindisi, Messina, Augusta, Siracusa, Palermo si erano dimostrate indispensabili alla preparazione della guerra ed alla vita del Regno. Eppure, nulla si organizzò, o almeno si trasferì, di ciò che era esuberante altrove, nelle regioni del Mezzogiorno, ormai designate per essere centri di espansione, anziché vie di transito, delle nuove correnti dell’attività nazionale.
Mentre le nostre spedizioni dell’Eritrea si adunavano, inevitabilmente, per le ferrovie e nei porti del Sud, le scarne guarnigioni dell’Adriatico inferiore, del basso Tirreno, dell’Jonio contribuivano alla loro formazione. Ma le popolazioni del Sud, nelle quali l’entusiasmo, la fede, la dignità non vennero mai meno nella prospera e nell’avversa fortuna, dovevano limitarsi a rimanere spettatrici bene auguranti delle truppe in partenza.
Nuovi aumenti delle nostre forze militari furono sanciti dalla legge del 1887; il bilancio della guerra venne, provvidenzialmente, proporzionandosi alle necessità politiche e demografiche dello Stato. Ma, sebbene dal 1904 in poi le organizzazioni operaie, gli scioperi nell’industria e nell’agricoltura, dal Nord e dal Centro si propagassero nel Sud, dove le elezioni specialmente amministrative assumevano, man mano, carattere sempre più sedizioso, rendendo manifesta, non di rado dolorosamente, l’insufficienza quantitativa dei presidi d’oltre Tronto, il Mezzogiorno militare rimaneva immobile.
Dopo il 1885 Foggia e Lecce perdettero il Comando di Brigata, Barletta perdette il Reggimento Bersaglieri, pur ricevendo un Distretto e due Depositi; Pescara nel 1894 perdette il Reggimento di Fanteria; Capua, che nel 1891 aveva un Reggimento Artiglieria da fortezza, lo vide, nel 1893, emigrare ad Alessandria; Caltanissetta perdette Comando di Brigata e Reggimento.
Dal 1897 al 1912 si sono: creati 4 Comandi d’Armata, 3 nel Nord, 1 nel Sud; 3 Comandi di Divisione di Cavalleria nel Nord; 3 Comandi di Brigata Alpini nel Nord; aumentati: 1 Reggimento Alpini nel Nord, 8 Reggimenti Artiglieria da Campo, 6 nel Nord, 1 nel Sud, 1 nel Centro: 5 Reggimenti Cavalleria, 4 nel Nord, 1 nel Centro. Le 22 Brigate da Costa e da Fortezza (11 nel Nord, 6 nel Sud, 5 nel Centro) son diventate 10 Reggimenti (7 nel Nord, 1 nel Sud, 2 nel Centro). La Brigata Ferrovieri del Genio si è trasformata in Reggimento, rimanendo a Torino. Gli Stabilimenti di Artiglieria e Genio, che erano 15, si sono aumentati nel Nord di 3.
Si soppressero la Fabbrica d’armi di Torino ed il Polverifìcio di Fossano; ma fu creata l’officina di costruzioni di Piacenza. Fu soppresso il Tribunale Militare di Messina, prima che se ne occupasse il terremoto. Il X ed il XII Corpo d’Armata han perduto, ciascuno, un Comando retto da un ufficiale generale. I Magazzini centrali, che erano 1 nel Nord, 1 nel Centro, 1 nel Sud, si sono accresciuti di 1 nel Centro.
Nel 1911 noi da 40 anni non avevamo fatto guerre, né nel Nord né nel Sud. La spedizione di Roma fu al limitare del Mezzogiorno; ed una delle Divisioni operò da Napoli su Roma. Da 26 anni, bensì, noi facevamo guerre coloniali, e le regioni del Sud erano state, costantemente, in funzione di zona avanzata sempre più operosa, sempre meno proporzionata alla sua complessione militare. Scoppiò la guerra libica. E i reggimenti del Sud furono chiamati fra i primi a battersi. E infatti il primo Corpo di spedizione partito ai primi di ottobre fu così composto:
Reggimenti di Fanteria Nord  1 (su 55)
Reggimenti di Fanteria Centro 3 (su 25)
Reggimenti di Fanteria Sud 5 (su 28)
Reggimenti di Cavalleria Nord 0 (su 20)
Reggimenti di Cavalleria Centro 0 (su 4)
Reggimenti di Cavalleria Sud 2 (3 squadroni da Aversa; 3 da Caserta).
Viceversa, agli ultimi di ottobre 1911, noi, ravvisando l’urgenza di rinforzare il Corpo d’operazione, fummo obbligati a mandare in Libia qualche Reggimento dal Piemonte.
Ed in complesso presero parte alla guerra sino al Trattato di Losanna:
Piemonte Reggimenti Fanteria 4
Lombardia Reggimenti Fanteria 3
Liguria Reggimenti di Fanteria 1
Veneto Reggimenti di Fanteria 2
Emilia Reggimenti di Fanteria 3
Umbria Reggimenti di Fanteria 1
Totale: 14 su 55
Toscana 2
Marche 1
Lazio (oltre i Granatieri) Reggimenti di Fanteria 2
Totale: 5 su 25
Mezzogiorno – Sicilia: 10 su 28.

Le Amministrazioni locali del Sud protestavano incessantemente, nel tempo stesso che le Relazioni ufficiali della Leva, con le percentuali che le regioni del Mezzogiorno davano al contingente annuo, rendevano sempre più manifesto l’errore di giustizia distributiva.
Caratteristiche le trattative di Cosenza, iniziate sin dal 1877 per riavere il Reggimento. Verso il 1882, votatasi la Legge per l’aumento dell’Esercito, quel Comune insistette, presentando una Relazione sulle condizioni igieniche della Città, ed offrendo i locali per le truppe.
Il Ministero fu negativo. L’esclusione di Cosenza dalle nuove sedi di reggimento dipendeva, nel pensiero del Ministro, dal fatto principale, che le esigenze militari ed altre di vario genere non richiedevano che nella Divisione di Catanzaro vi fossero distaccati più di tre Reggimenti.
Più tardi, in nota ufficiosa, il Ministero aggiungeva, che in via di massima ciascun Corpo d’Armata avrebbe avuto otto Reggimenti di Fanteria. Ma questo principio non era applicabile a tutte le Divisioni, essendovene alcune che hanno bisogno di un maggior nerbo di truppe: “oltre di che per presidiare l’isola di Sardegna occorrevano due Reggimenti, i quali non potevano esser tolti che da due Divisioni, la cui importanza militare sia molto minore di talune altre, come appunto è il caso della Divisione di Catanzaro”. Infine, nel 1888 il Ministero avvertiva, non potersi arrecare alcun cambiamento, perché esistevano contratti a lunga scadenza fra il Governo e le città e paesi, nei quali erano divise truppe. Oltre di che “gravi ragioni d’interesse militare imponevano di non far modificazioni”. Erano implicite, in coteste linee, due confessioni: che le guarnigioni erano state messe, per così dire, all’asta: e che fra le gravi e misteriose ragioni d’interesse militare non erano comprese le nostre imprese coloniali, alle quali il Mezzogiorno, pur decimato dall’emigrazione, partecipava con i suoi contingenti, con i suoi risparmi.
Son note le vicende delle Sedi dei nuovi Reggimenti di Artiglieria da Campagna. Nella discussione avvenuta nella Camera dei Deputati il 24 e 25 maggio 1911, fu osservato, che il Ministero, anziché fissare prima la regione nella quale l’interesse militare consigliava di stanziare i Reggimenti ed avviar, di poi, le pratiche con i Comuni per l’accasermamento, operò in senso inverso.
In quella stessa tornata parlamentare, il discorso dell’on. Cannavina intorno alla penuria di truppe nel Molise; quello dell’on. Lucifero intorno alla dislocazione, in genere, delle truppe nel Mezzogiorno; le dichiarazioni lucide e taglienti dell’on. Pala sulle condizioni militari della Sardegna nella doppia ipotesi di guerra a Levante e a Ponente delle Alpi, e le risposte del Ministro, attestano, ancora una volta, delle disposizioni d’animo del Mezzogiorno e dei propositi del Governo.
Ma il Governo, e il Ministro della Guerra in ispecie, non sono i soli responsabili della colpevole e prolungata anormalità del nostro assetto militare nel tempo di pace.
Quando la questione dell’assurda penuria di truppe nelle Province del Sud d’Italia fu portata alla Camera, l’Ordine del giorno - 27 maggio 1911 - dell’on. Lucifero, che suonava così: “La Camera invita il Governo a provvedere perché le guarnigioni sieno equamente ripartite fra le varie regioni del Regno” non fu approvato.
La Deputazione politica del Mezzogiorno si acquetò alla dichiarazione del Ministro, che “la dislocazione delle truppe non può, non dev’essere subordinata a considerazioni di equanimità (vive approvazioni) ma esclusivamente a ragione di ordine militare, quali che esse siano”. In quel tempo, appunto, le ragioni militari si aggiungevano alle politiche, per mettere in valore il Mezzogiorno militare. E fra le ragioni militari una, geografica, culminava pur sempre; dei 7.600 chilometri di perimetro dell’Italia, i tre quarti son frontiera marittima.
Dei 2.828 chilometri di costa dell’Italia peninsulare (dalla foce della Magra a quella della Marecchia) ben 2.000, circa, appartengono al Mezzogiorno continentale. Si offriva, ad ogni modo, propizia la circostanza ai 200 deputati del Mezzogiorno per chiedere, una buona volta, al Governo quale fosse questa famosa ragione militare.
E tanto più, che una ragionevole perequazione di armi è, forse, la sola delle rivendicazioni del Mezzogiorno, contro la quale nessuno può elevare la consueta accusa di voler vivere a spese dello Stato, coll’annessa deplorazione della debolezza psicofisica delle popolazioni. E invece i quattro interpellanti rimasero, se non erro, quattro.
Un’altra attenuante, forse di maggior peso, può concedersi al Ministero. La Commissione d’inchiesta per il R. Esercito ha scritto, ancor essa, la sua Enciclopedia.
Tutte le questioni militari, tattiche, economiche, amministrative, morali, industriali essa ha discusso. Ma non una parola essa ha pronunziato, nelle sue Relazioni ordinarie, sulla questione militare del Mezzogiorno. Senza dubbio buona parte dei suoi lamenti e delle sue proposte è constatazione implicita della sperequazione di truppe fra Nord e Sud. Ma quando anche ragioni, inaccessibili alla mia mente, sconsigliassero di affrontare direttamente il problema, era, almeno, necessario che con qualche suggestivo frazionamento di statistiche la Commissione richiamasse l’attenzione del Parlamento su di esso.
Non io ho la pretesa di scoprire, a mia volta, il Mezzogiorno militare. Devo, anzi, rassegnarmi alla parte di carillon. I generali Luigi e Carlo Mezzacapo studiarono la questione sotto l’aspetto strategico - nel periodo preunitario. Il generale Marselli studiò profondamente il problema sotto l’aspetto morale, politico, sociale, e, specialmente, militare. Nel 1898 il colonnello Raffaello Serpier era riuscito a ripartire, con mirabile esattezza di analisi, le spese militari sopportate dallo Stato, nel Nord, nel Centro, nel Sud d’Italia. E nel 1910 il Ten. Col. del Genio in cong. barone Pietro Sanseverino, nel suo perspicuo studio - Nord, Centro-Sud d’Italia - poté ripartire esattamente la dislocazione dell’Esercito nei tre grandi scaglioni. La stampa quotidiana proseguì la crociata. Un articolo del giornale Avanti! del 5 dicembre 1904; un altro di Il caporale nel giornale La Tribuna del 14 marzo 1905; uno studio di Enrico Barone in La preparazione del 20-21 agosto 1910; gli studii che da tre anni l’Esercito Italiano va pubblicando a firma di “Serenissima” hanno oramai esaurito ogni specie di indagine; sicché la quistione dell’aumento delle guarnigioni del Sud non è soltanto matura; è pronta alla soluzione.
Ed io mi propongo di offrirne le prime linee in questo libro, raccogliendovi e coordinandovi le voci sin qui solitarie. Scelgo, come punto di partenza, nei calcoli e nelle deduzioni, le Stanze dei Corpi del R. Esercito, dell’ultimo quinquennio. E porterò specialmente la mia attenzione sui territorii dei Corpi d’Armata X (Napoli), XI (Bari), XII (Palermo) e della Sardegna. Escludo il territorio della Divisione Militare di Chieti, sia perché essa è demograficamente mista, comprendendo la Provincia di Ascoli, sia perché l’inclusione di una sola delle due Divisioni militari del VII Corpo d’Armata renderebbe un po’ artificiose le deduzioni finanziarie del bilancio della guerra.
1 Giuseppe di Lorenzo, Geologia e geografia fisica dell'Italia Meridionale, Bari, Gius. Laterza.

2 Toccando un centinaio di Stazioni, i cui paesi, piccoli tutti, sono a grandi distanze dalla linea ferroviaria, ed i pochi che sono sulla linea hanno una popolazione complessiva di poco più di 100.000 abitanti. (Da uno studio del tenente colonnello Sanseverino).

3 La politica della Destra. Scritti e discorsi di Silvio Spaventa raccolti da Benedetto Croce, Bari, Giuseppe Laterza, 1910.

4 Cinquanta anni di storia italiana. Esercito Italiano: sue origini: suo successivo sviluppo, Fiorenzo Bava Beccaris, pag. 49 e seguenti, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei.

5 L'Esercito Italiano, 4 ottobre 1912.

6 Atti parlamentari, pag. 14770.

7 Gli Italiani del Mezzogiorno (1884).

8 L’Esercito Italiano, anno 1898, num. 103.

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