Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli editore Roma 1993
Introduzione
E’ davvero un altro mondo l’Italia del Sud? O non appartiene in tutto e per tutto all’esperienza storica del nostro paese, dell’Occidente, dello sviluppo? E in che cosa consiste, allora, la “questione meridionale”, dove si annidano le specificità, le differenze, le distonie rispetto al resto del paese? In un momento in cui il tradizionale schema del dualismo italiano si colora di toni particolarmente polemici, tanto da riproporsi in tutta la sua dirompente carica politica, questo libro si offre quale lucida e pacata sintesi di un decennale lavoro di ricerca. Fuori da ogni retorico preconcetto, Piero Bevilacqua ricostruisce la storia di una grande, contraddittoria e contrastata trasformazione, che ha visto interagire di volta in volta forze storiche di diversa natura e portata: l’ambiente fisico e l’insediamento umano; il lavoro e l’emigrazione; le agricolture e le industrie; le città e i paesi; i proprietari, i professionisti, i notabili; la politica e i gruppi dirigenti; lo stato e l’intervento straordinario; il clientelismo e la mafia.
Di là dalle abusate categorie di “arretratezza” e “sottosviluppo”, prende forma così la vicenda di un mondo in movimento, articolato nei suoi spazi interni, e partecipe dei processi più virali caratteristici dell’età contemporanea.
Corredata da un glossario e da una bibliografia, quest’opera non solo rappresenta un essenziale strumento di informazione e di studio, ma costituisce al tempo stesso un punto di svolta nella storiografia del Mezzogiorno.
Piero Bevilacqua, nato a Catanzaro nel 1944, insegna storia sociale all’Università di Roma. Ha coordinato i tre volumi della Storia dell’agricoltura italiana (Marsilio 1989-91), e con Augusto Placanica il volume La Calabria, della serie Storia d’Italia. Le Regioni (Einaudi 1985). Tra i suoi lavori dedicati al Mezzogiorno, il volume su Le campagne del Mezzogiorno al fascismo e dopoguerra (Einaudi 1980). Nel 1986 ha contribuito a fondare l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali, che attualmente dirige. E’ direttore della rivista Meridiana.
Questa Breve storia dell’Italia meridionale nasce per rispondere a un intendimento scientifico e culturale alquanto delimitato e definito: quello di ricostruire le linee essenziali del processo storico attraverso il quale, nel corso di due secoli, la società e le realtà materiali di questa parte della penisola si sono venute trasformando per assumere la complessa e articolata fisionomia che oggi sta davanti a noi.
Proposito ovvio, si potrebbe presumere e affermare, per chiunque si accinga a una qualsiasi sintesi storica. Eppure, per la vicenda che riguarda il Sud d’Italia in era contemporanea, proprio un tale intendimento si presenta come la cosa meno ovvia, e, di fatto, meno praticata. A voler estremizzare, e fatte salve diverse importanti eccezioni, si potrebbe dire che per una lunga fase, in questo dopoguerra, la storia del Mezzogiorno contemporaneo ha fatto tutt’uno con la storia della “questione meridionale”. E’ stato il problema del grave e perdurante divario Nord-Sud, delle sue cause e delle sue responsabilità, piuttosto che la vicenda storica effettiva delle regioni meridionali a ricevere attenzione e cura da parte degli storici. Non tanto, dunque, l’esame dei processi materiali e politici della trasformazione che qualunque storia reale porta con sé quanto in primo luogo l’analisi e la denuncia dell’arretratezza e dei ritardi, la ricerca e l’enfasi sulla diversità dell’Italia meridionale rispetto al resto del paese, la polemica ideologica, spesso la recriminazione moralistica nei confronti dei governi, delle politiche economiche, dei comportamenti e delle scelte dei gruppi dirigenti dell’Italia più forte. Posizioni e tensioni certamente non gratuite, che riflettevano ed esprimevano talora importanti preoccupazioni civili e politiche. Ma esse hanno avuto effetti secondari, più o meno “indesiderati”, tanto sul piano della conoscenza reale dei fenomeni sociali che su quello dell’immagine che di un pezzo consistente della società italiana si veniva a offrire. Al punto che, di fatto, la rappresentazione dell’Italia meridionale in eta contemporanea ha finito spesso col ridursi a una sorta di non storia: la frustrante vicenda di ciò che essa non aveva potuto essere, il mero risultato di uno squilibrio costante e inalterato nel tempo e perciò quasi un derivato, un residuo della storia degli altri, incarnata dalle realtà più avanzate dello sviluppo economico, vale a dire dal Nord.
Sarebbe naturalmente improponibile, e per più di un verso, la rivendicazione di una sorta di autonomia della storia del Mezzogiorno? cioè la ricostruzione separata e a se stante di un gruppo di regioni inserito in uno stato unitario che vive e opera da quasi un secolo e mezzo. Ma la vicenda di più generazioni, la vita sociale e politica di milioni di uomini, gli svolgimenti delle economie, i processi di mutamento più radicali e profondi che mai abbiano investito una società - quelli per l’appunto che hanno cambiato la faccia delle regioni meridionali negli ultimi duecento anni - non possono più essere valutati e compresi da chi guarda ad essi con gli occhi solo puntati al loro perdurante scostamento rispetto al resto dell’Italia. Esiste, ed è ignoto ai più, un vasto continente di fenomeni e di processi in cui la grande storia del mondo contemporaneo si è espressa, in forme certo originali e particolari, con ritmi più lenti e più attenuata radicalità ma con le stesse caratteristiche e nella stessa direzione di mutamenti che in tutte le altre realtà dell’Europa e dell’Occidente. Tutto questo è ben visibile nella vicenda degli ultimi due secoli nel Mezzogiorno d’Italia: negli assetti del territorio come nelle dinamiche della popolazione, nelle forme dell’economia quanto nei processi di urbanizzazione, nella trasformazione delle classi sociali come in tutti i fenomeni propri delle società affluenti, dal grado di alfabetizzazione al livello dei consumi. E a tali realtà, al loro formarsi e trasformarsi ai grandi processi materiali che hanno investito uomini, ambienti, economie - nei limiti, ovviamente, di una sintesi a grandi linee - il presente testo intende dare visibilità e rilievo.
Dunque, una storia neutra e distaccata, attenta solo alla scansione dei mutamenti, insensibile alla qualità dello sviluppo che ha contrassegnato la crescita del Mezzogiorno in eta contemporanea? Una ricostruzione che chiude gli occhi di fronte allo svolgersi e al consolidarsi di un dualismo economico e sociale - i temi propri della questione meridionale - ancora evidente ai nostri giorni, per privilegiare le linee di svolgimento di una modernizzazione comunque realizzatasi? Il racconto impassibile di ciò che è avvenuto, senza giudizi e valutazione sugli uomini, le élites, i gruppi dirigenti? Non é però questa la linea interpretativa qui perseguita, e il lettore troverà nelle pagine che seguono quanto meno il tentativo costante di raccordare le vicende dell’Italia meridionale a quelle del resto del paese, la disamina specifica della sua crescita ma anche attenzione per tutti quei processi ed eventi che tendevano e tendono ad allontanarlo dalle dinamiche e dagli svolgimenti della realtà del Centro-Nord.
Una tale impostazione forse non avrebbe qui bisogno, o non dovrebbe comunque avere bisogno, di spiegazioni preventive se non fosse per il fatto che sulla rappresentazione e interpretazione della realtà meridionale si sono accumulati e addensati tali e tanti giudizi e pregiudizi, cos’ forti tensioni emotive, tanti umori culturali e polemiche, così tenaci rappresentazioni di maniera, stereotipi, retoriche, da rendere quasi strano e inattuale un approccio di disinteressata conoscenza, un tentativo di analisi scientifica. Perfino fuori d’Italia, grazie all’immagine che noi stessi suggeriamo del nostro paese, la conoscenza obiettiva e normale della realtà viene surrogata con uno stereotipo denso di giudizio svalutativo. Così, ad esempio, nel linguaggio giornalistico inglese e statunitense, oggi l’Italia meridionale è ormai the Mezzogiorno: vale a dire non una realtà geografica e sociale differenziata, eventualmente da analizzare, ma l’incarnazione negativa di una questione, un problema oscuro, quasi una malattia sociale per la quale esprimere un sentimento di riprovazione morale.
Non è facile sradicare dalla mente degli uomini idola così tenacemente ed emotivamente introiettati: soprattutto in una fase storica come quella presente, nella quale il dispiegarsi violento e sanguinoso della criminalità di mafia produce cosi allarmate emozioni collettive da impedire e rendere quasi incomprensibile ogni approccio di conoscenza razionale e analitica. D’altro canto, le difficoltà non provengono soltanto da una generica e indistinta pubblica opinione nazionale. Esiste, anche, e riguarda gli addetti ai lavori, un fenomeno ricorrente nei dibattiti che di tanto in tanto si aprono sulle condizioni dell’Italia meridionale. Ogni volta che si pone l’accento sui processi di cambiamento, sui fenomeni innegabili e talora rilevantissimi di trasformazione e modernizzazione di questo pezzo d’Italia, subito da qualche parte scatta l’opposizione, la polemica, il sospetto: quasi che prendere atto dei mutamenti che la storia ci consegna anche nostro malgrado, e con cui occorre fare i conti, rappresenti una sorta di tradimento della “causa meridionale”, un accettare i fatti nella loro bruta realtà, un’apologia dell’esistente. Come se riconoscere la modernizzazione profonda che si è realizzata nel Sud negli ultimi quarant’anni impedisse la conoscenza dei suoi problemi presenti, dei suoi bisogni reali, delle sue stesse talora drammatiche inadeguatezze, e non fosse invece una condizione preliminare e irrinunciabile per affrontarli con più elevati orizzonti d’intervento, con più mirati ed efficaci strumenti operativi.
E’ insieme un meccanismo e un limite tipico della cultura politica d’opposizione – che legittimamente mira a trasformare l’esistente, a denunciare ciò che è ingiusto e ciò che non va - non vedere poi la realtà che muta e si trasforma, il nuovo che zampilla sotto la scorza del vecchio, talora anche quale risultato mediato o immediato della sua stessa azione. Ma c’è sicuramente qualcosa di più specifico e peculiare nella situazione italiana, che ha anche a che fare con le particolari gerarchie che negli ultimi quindici anni si sono venute creando all’interno della cultura nazionale. In questo dopoguerra - almeno a partire da un certo momento in poi - la pluridecennale staticità del sistema politico ha finito coll’innalzare di fatto un altissimo schermo davanti allo scorrere dei processi reali, rendendo come ottuse le sensibilità che dovevano captare e interpretare il nuovo. Occorreva infatti cogliere i mutamenti della società al di là dei falsi riflessi prodotti dall’immobilità dei quadri del potere: e ciò ha progressivamente indotto la cultura sociale, quella di settori attenti alla vicenda politica nazionale, la stessa cultura d’opposizione e di critica dell’esistente a una sorta di cecità temporanea, o a imbozzolare il proprio sguardo critico dentro la ragnatela dell’avversario. Anche il solo contrapporsi a un tale sistema politico ha fatto abbassare la prospettiva mentale degli oppositori, la loro capacità di guardare oltre. Specie negli ultimi anni, gli stessi antagonisti del sistema vigente hanno infatti finito con l’accettarne, sia pure con segno rovesciato, i temi dominanti, i punti di vista, i modi di valutare e di percepire la realtà, le categorie, il linguaggio. I termini ormai degradati di una lotta politica usurata dal tempo e dalla povertà degli esiti di cambiamento hanno imprigionato gli orizzonti del sapere sociale - quello prodotto dai partiti e dalle istituzioni politiche collegate - in una routine spenta e ripetitiva. Con l’aggravante fenomeno, sempre più dispiegato nell’ultimo decennio, di una dimensione della politica che non solo non si e più nutrita di saperi sociali ma ha sempre più puntato ad assoggettarli, ad asservirli a ristretti fini di potere. L’Italia meridionale si è venuta così riducendo e identificando - nelle rappresentazioni proposte da più parti - con alcuni dei suoi generali ed estremi (e certo realissimi) problemi (il persistente divario con il Nord, il clientelismo, la mafia ecc., tra l’altro sempre pensati come retaggi del passato e mai percepiti come fenomeni in continua evoluzione) che evocano tanta indignazione morale quanto poca conoscenza dei fenomeni effettivi. Tale stato di cose pone dunque, innanzi tutto, una questione di conoscenza che appare preliminare ad ogni tentativo e tentazione di valutazione e giudizio.
Che fine fanno, ad esempio, in tali rattrappite e polemiche rappresentazioni, le reali condizioni, articolate e complesse, della società meridionale? Che posto hanno, nei quadri a tinte forti dell’indignazione morale, le città grandi e medie del Sud, con i loro problemi correnti di articolazione degli spazi e dislocazione di economie e di servizi, gli insediamenti industriali e il mondo del lavoro, l’organizzazione commerciale, il sistema finanziario e bancario, le Università e gli istituti di ricerca scientifica, l’editoria, la stampa, le varie forme di organizzazione ed espressioni della cultura? Quanto è cambiata, sta cambiando e cambierà questa parte del paese per effetto delle politiche generali e regionali della Comunità economica europea, sulla base delle strategie di investimento che si sono attuate o che si vanno predisponendo non solo fuori dal Sud, ma anche fuori d’Italia?
Qual’è, in una parola, il rilievo e l’attenzione che si presta ai problemi del “Mezzogiorno normale”, di una realtà inserita a pieno titolo in un paese industriale, entro linee politiche tendenzialmente continentali: quella realtà che poi riguarda la vita e l’operare quotidiano della maggioranza della popolazione?
Certo, il Mezzogiorno dei bisogni moderni non fa spettacolo, non cattura le audiences televisive, non serve a confezionare best sellers. Occorre sempre lo shock della diversità, un tratto clamoroso di inattualità, rispetto al resto del paese, per richiamare l’attenzione: e così agli ingredienti spettacolari di un tempo (la miseria contadina, il folklore dei tarantolati) succedono quelli più aggiornati dei morti ammazzati dalle cosche, dei paesi poveri e disperati dove dominano paura e “omertà”, dei sequestri di persona, dei santi miracolosi e delle Madonne in processione. E’ questo il Mezzogiorno vagheggiato e continuamente proposto dai media negli anni recenti: immagini arcaiche e pietrificate di un repertorio che quasi raccoglie e raggruma l’immaginario ormai sedimentato negli umori ancestrali della gente e lo trasforma in rappresentazione spettacolare. Anche quando i giornali, e soprattutto la televisione, appaiono animati dall’intento sincero e nobile della denuncia, difficilmente la società meridionale che essi evocano sfugge agli stereotipi tragici che la marchiano ormai da decenni; e nel migliore dei casi essa è illustrata e presentata con categorie di analisi e di pensiero che sono le medesime, fatte con la stessa stoffa di quelle circolanti nella cultura dei partiti e del sistema politico nazionale. Benché animate talora dalla critica e dall’opposizione, esse appaiono culturalmente interne a quell’universo di relazioni di potere che non solo si è progressivamente disancorato dall’Italia reale e dai suoi bisogni, ma ha tagliato corto con i saperi sociali, con le competenze professionali, con la conoscenza circostanziata delle cose che una società civile matura e oggi in grado di esprimere in piena autonomia e ad altissimo grado. Fra la conoscenza scientifica dell’Italia meridionale, proposta oggi da un numero straordinariamente vasto di studi realizzati da storici, economisti, sociologi, antropologi, geografi, scienziati del territorio, e la rappresentazione che ne danno la stampa e la televisione esiste una distanza di qualità e di merito che negli ultimi tempi è apparsa sempre più incolmabile.
Sicché anche il quadro interpretativo che si offre del Mezzogiorno contemporaneo può essere osservato per tanti versi come il risultato, quasi la derivazione culturale di un assetto del sistema politico nazionale: all’interno del quale l’immagine che si dà di una così grande parte della penisola appare come sottratta a chi ha la legittimità scientifica e professionale per parlarne e viene tenuta per così dire in condizione di monopolio da frettolosi giornalisti dell’establishment, opinionisti che scrivono un libro in un mese - e che scambiano le chiacchiere con qualche conoscente per indagini sul campo -, annusatori di notizie, forbite penne che nella patria della retorica trovano sempre un mercato sicuro. Certo, esiste anche il Mezzogiorno evocato e descritto insistentemente dai media. Cosi come esistono, per nostra fortuna, giornalisti e osservatori che non hanno smarrito il coraggio civile di denunciarlo. Ma, nel migliore dei casi, anche la denuncia giornalistica, strumento irrinunciabile di ogni società democratica - e che spesso ha assunto, negli ultimi anni, una funzione politica fondamentale per porre i problemi dell’Italia meridionale al centro dell’attenzione nazionale - finisce col creare immagini, rappresentazioni, stereotipi che hanno nell’unilateralità il segreto stesso della loro efficacia emotiva. Certo, opera anche da noi un meccanismo obiettivo che è comune a tutte le società dominate dalle comunicazioni di massa: chi produce notizie deve vendere prodotti continuamente nuovi, sicché occorre spesso correre più avanti dalla realtà, cambiare la realtà stessa se e necessario per renderla meglio appetibile e vendibile. Viviamo certamente in un’epoca nella quale anche la verità si consuma rapidamente e si guasta, e la stessa menzogna appare preferibile se assume un aspetto più fresco, di novità di giornata. Ma proprio questa dimensione inevitabilmente distorcente delle comunicazioni di massa rende ancora più necessario e insostituibile il contributo delle conoscenze analitiche, il frutto dei saperi sociali che una società evoluta può mettere a disposizione. Non c’è un altro antidoto, oggi, all’informazione inverificata, impressionistica, tutta schiacciata sull’esile e ingannevole verità del presente, con cui i mass media alimentano quotidianamente il nostro bisogno di notizie. E ognuno può perciò intuire e immaginare quale valore anche etico vengano ad assumere la ricerca e il sapere storico nel mondo contemporaneo. Ma in relazione al Mezzogiorno e alla sua vicenda questa non è semplicemente una perorazione astratta e di metodo: essa rappresenta oggi, al contrario, una necessità politica di prima grandezza. Avvicinarsi al Mezzogiorno reale, oltre lo schermo del Mezzogiorno rappresentato, costituisce un compito che travalica prepotentemente il puro fatto culturale.
E’ il caso di ricordare, ancora una volta, quali effetti ha prodotto e produce tuttora la diffusione di stereotipi indistintamente negativi dell’Italia meridionale sull’opinione pubblica e sulla stessa identità collettiva nazionale? Quanto il fenomeno delle Leghe nell’Italia del Nord ha di speculare e di conseguente all’immagine che del Sud, con singolare unilateralità e con superficiale disinvoltura culturale, si è fornita in tutti questi anni? Quale ruolo ha - al di la degli stessi effettivi e reali problemi - la metafora Mezzogiorno, la sua riduzione sistematica a una inquietante alterità, nell’indebolire alla radice i fondamenti stessi della solidarietà che sta alla base della nazione?
Ma a questo punto occorre anche rivolgersi a coloro i quali tale metafora hanno usato e continuano a usare per altri e meno lodevoli fini. Agli orgogliosi rivendicatori della superiorità del Nord, che spesso duramente e rudemente mettono in discussione la recente e fragile unità dell’intero paese, non è sufficiente fornire - come si è tentato di fare nelle pagine del testo qui presentato - un’idea di qual è stata la storia e qual è la complessa realtà dell’Italia meridionale di oggi. Occorre forse ricordare dell’altro, soprattutto ai tanti storici improvvisati che discorrono di “Mediterraneo” o coniano, per le popolazioni del Sud, altre fantasiose e pittoresche categorie dello spirito. Forse è troppo, per la loro improvvisata cultura storica, rammentare - come decenni di ricerca scientifica meridionale e internazionale hanno messo in luce - che almeno a partire dal tardo Medioevo si dà un “sistema italiano” nel quale il Mezzogiorno, produttore di seta e di materie prime agricole, è il partner fondamentale e insostituibile nella partita che le grandi città italiane del Nord giocheranno per secoli nel mercato internazionale, facendo la grandezza della penisola.
Ragioni di prudenza e di immediatezza comunicativa impongono perciò un più limitato tentativo: quello di rammentare una vicenda forse modesta, ma anche assai più realisticamente aderente al bisogno di verità dei nostri giorni. Coloro che oggi evocano l’Europa quale loro patria naturale, e lamentano quasi come un oltraggioso impaccio il legame con il resto del paese, dovrebbero por mente a una realtà e a una storia ben note ma spesso colpevolmente obliate. L’Italia si è affacciata tardi allo sviluppo industriale, con pochissime risorse di materie prime e di energia motrice, con una struttura amministrativa fragile e di recente formazione, con una società civile divisa da molteplici compartimentazioni regionali, antichi localismi, culture, dialetti.
Le leve fondamentali della nostra trasformazione in moderno paese industriale, non facili da reperire e da usare, sono state sostanzialmente due: un gigantesco sfruttamento della forza-lavoro (combinato anche con la fantasia e la capacità di rischio di ampi settori di media borghesia imprenditrice) e l’intervento dello stato. Nel primo caso il ruolo del Mezzogiorno è stato di prima grandezza e in più fasi della storia nazionale: dagli anni della grande emigrazione contadina nelle Americhe - che contribuì a fare assumere alla lira un valore corrente superiore a quello dell’oro - all’esodo di questo dopoguerra, alla circolazione senza precedenti di braccia a basso costo impiegate nel lavoro di linea nelle fabbriche del Nord Italia e d’Europa. Quanto allo stato, esso si è assunto il compito direi costante e sistematico di proteggere la recente ed esposta accumulazione italiana contro i giganti della prima industrializzazione europea. Protezioni e aiuti leciti ma anche meno leciti (ampie libertà fiscali, deroghe o mancanza di norme nell’utilizzo della forza-lavoro, assenza di controlli ecc.) e, soprattutto in questo dopoguerra, le opportunità offerte dalla legislazione straodinaria per il Mezzogiorno (e quelle legiferate spesso per compensare le facilitazioni stabilite per il Sud), un relativamente sicuro mercato interno, la fiscalizzazione degli oneri sociali, gli ammortizzatori sociali offerti attraverso l’uso della cassa integrazione.
Non si scambi questa rapida rassegna con una moralistica rampogna nei confronti di chi dimentica le generosità ricevute in passato.
Essa serve in realtà a ricordare qual è la pasta storica del capitalismo italiano, e quanto poco disgiungibile appare ancora oggi un autonomo dinamismo industriale del Nord dalla trama vivente del paese, dalle convenienze create dallo stato sociale contemporaneo, dal largo, evoluto e sicuro mercato rappresentato dai tanto esecrati consumi delle popolazioni meridionali. Ma quali sfide con i giganti dell’Europa e del mondo il capitalismo del Nord sarebbe in grado di sostenere, ove spezzasse i legami profondi che ne costituiscono la storia e ne plasmano ancora oggi la struttura e la logica?
Certamente, il Mezzogiorno di oggi pone problemi gravi all’intera comunità nazionale. Le sue classi dirigenti hanno mostrato, in linea generale, una straordinaria fragilità culturale e civile nella gestione della cosa pubblica, nel governo delle diverse società regionali. Come negare o attenuare ciò che è sotto gli occhi di tutti? Ma quale parziale e ingenua visione delle cose può oggi consentire di isolare quelle responsabilità, che sono spesso gravi, dal contesto vivente della storia italiana degli ultimi quarant’anni? Quanto ha pesato, sul comportamento della classe politica meridionale, l’eclissarsi della progettualità, dello sforzo programmatorio che per almeno due decenni, all’indomani della guerra, aveva segnato e riempito di tensione ideale la lotta fra gli schieramenti e i partiti e posto la società del Sud al centro dell’attenzione nazionale? Quale influsso ha esercitato su di essa il fatto che, negli ultimi decenni, il ceto politico nazionale ha visto nell’Italia meridionale sempre meno il luogo di progetti di sviluppo e di emancipazione sociale e sempre più il terreno immediato di raccolta del consenso, l’area sociale su cui costruire, per mezzo delle risorse pubbliche, i raccordi locali e le alleanze per conservare e rafforzare il proprio potere centrale? Cosa sono, alla fine, le classi dirigenti meridionali considerate al di fuori del sistema politico italiano - della sua ibrida e singolare organizzazione di “regime” retto da ordinamenti democratici - prescindendo dalle logiche di uso dello stato che hanno finito col prevalere all’interno di gran parte dei partiti, senza tenere in conto le loro culture della legalità, il loro senso degli interessi collettivi? Con quale capacità di comprensione, in una parola, è possibile esaminarne e valutarne il comportamento, se le si separa dal grande mare in cui esse hanno navigato negli ultimi decenni?
Nel Mezzogiorno, compiuti probabilmente da meridionali, sono avvenuti alcuni dei più feroci delitti della nostra storia recente, che hanno ferito a morte anche la coscienza nazionale, macchiato l’onore del paese, un marchio impresso nella memoria collettiva che sarà difficile cancellare. Spetterà certo agli storici, oltre che ai giudici, gettare una più certa e ci auguriamo più definitiva luce sui tanti e terribili fatti della criminalità meridionale degli ultimi dieci anni. Eppure, come non vedere che tali eventi sono alla fine anche il risultato di una più larga storia nazionale? E non è neppure necessario richiamare qui tutti i problemi connessi con il comportamento del ceto politico, con i roventi contenziosi che ormai da tanti anni sono aperti su questa materia. Come è possibile, ad esempio, spiegare la crescita senza precedenti della criminalità mafiosa, senza considerare quale politica della giustizia ha avuto corso in Italia soprattutto nell’ultimo ventennio? Come e possibile non rilevare e non rammentare che i tanti governi della Repubblica hanno tenuto per un numero straordinario di anni i tribunali meridionali privi di uomini e mezzi, fatto sprofondare nell’impotenza l’amministrazione della giustizia civile, lasciato nella routine operativa il ministero dell’Interno, abbandonato il territorio di vaste aree regionali a condizioni di extralegalità, facendo mancare a intere popolazioni il diritto alla protezione pubblica? Chi potrà mai cancellare dalla memoria collettiva il fatto che a un certo punto della nostra storia, negli ultimi dieci anni - grazie all’indifferenza e all’inerzia dei governi, delle forze politiche, alla disattenzione di larghissima parte dell’opinione pubblica nazionale – in alcuni delimitati luoghi e paesi della Repubblica, gli abitanti, gli uomini e le donne di una nazione dell’Europa civile, hanno visto di fatto controllata, compromessa, se non perduta, la libertà personale?
Il Mezzogiorno è dunque oggi, per lo meno sul piano del costume politico, dell’espressione dello spirito pubblico, quello che il sistema politico italiano ha voluto che fosse, o quanto meno ha finito col far diventare. Tutto questo non può essere dimenticato da chi non si accontenta di esemplificazioni e si accosta alla storia recente di queste regioni del paese con la volontà di esaminare e capire. Soprattutto non può essere dimenticato da chi oggi rivendica la diversità di ricchezza, di storia, di capacità dell’Italia del Nord. L’Italia meridionale è alle prese con i problemi che conosciamo, anche per effetto di un modello di sviluppo industriale che ha cumulato vantaggi relativi incomparabili nell’area economicamente più forte della penisola. Mentre l’emigrazione, fenomeno necessario e fisiologico di questo dopoguerra, ha poi finito col privare le regioni meridionali delle energie umane più intraprendenti e attive, delle sue intelligenze più creative, segnando alla fine un altro punto di svantaggio relativo per il Sud: perché esso è venuto perdendo, per questa via, grandissima parte delle sue energie e delle sue figure intellettuali, quelle che oggi, disseminate in ogni angolo d’Italia, fanno parte - spesso in posizioni di grande responsabilità - della classe dirigente nazionale, operando nelle Università, negli ospedali, nei quadri della magistratura, nell’editoria, nei giornali, nella scuola. E ciò va peraltro ricordato anche per un’altra ragione: un po’ di memoria storica è spesso utile per togliere qualche boria di troppo a rivendicazioni di diversità che tendono a scivolare, senza mediazioni e spesso disinvoltamente, nel pregiudizio razzistico.
Ma una ulteriore considerazione, a conclusione di queste note, credo vada avanzata nei confronti di chi - di fronte ai gravi problemi che segnano la vita della Repubblica in questa fase - sogna assurde e pericolose scorciatoie, invocando la strada del distacco e della fuga.
Sull’idea della separazione non nasce nessuno stato nuovo: è solo un indistinto coacervo di egoismi sociali che si mette insieme. E se vengono meno le ragioni della solidarietà, la volontà di contribuire a un destino comune, non solo scade e si scolora l’identità nazionale, ma crollano le ragioni stesse dello stare insieme, si taglia alla radice il motivo di ogni convivenza umana, qualunque sia la dimensione istituzionale in cui si sceglie di isolarsi. Un tale disegno, di certo, non ha futuro. Mentre appare oggi ben drammaticamente chiaro che le nazioni che perdono di vista idealità collettive da conseguire subiscono tracolli drammatici nella loro identità e coesione interna. Anche per questa ragione, dunque, una nuova visione solidale dei problemi dell’Italia meridionale dovrebbe costituire uno degli orizzonti imprescindibili nello sforzo presente di ricostruzione dello stato nazionale.
Ho l’obbligo di ricordare che il presente lavoro di sintesi, che ha l’ambizione di rivolgersi al larghissimo pubblico dei lettori non specialistici, trae lo spunto da un progetto più generale, pensato prevalentemente per la scuola e realizzato concordemente dal Formez e dall’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes). Esso non sarebbe stato possibile senza la straordinaria fioritura di studi sociali, ma soprattutto storici, che l’Italia meridionale ha espresso negli ultimi dieci anni e che sono noti solo agli specialisti. Anche per tale motivo desidero ringraziare tutti gli amici dell’Imes - un collettivo intellettuale che ha prodotto contributi rilevanti nella conoscenza del Mezzogiorno contemporaneo negli ultimi sette anni - e soprattutto Sergio Bruni, Domenico Cersosimo, Simona Laudani, Salvatore Lupo, Augusto Placanica e Pietro Tino, per le loro osservazioni e i suggerimenti sempre pertinenti e utili. Un debito di riconoscenza debbo anche esprimere nei confronti delle tante e tanti insegnanti delle scuole del Sud, calabresi e siciliani in primo luogo, che hanno letto una prima versione del testo e da cui ho ricevuto le percezioni utili e talora indispensabili per chi voglia raggiungere il largo pubblico dei giovani. Una particolare gratitudine va ad Alberto M. Banti e a Maria Pia Donat-Cattin, che non soltanto sono stati generosi di commenti e di suggerimenti al testo, ma ne hanno seguito pazientemente l’evoluzione e la composizione. Alla cura di Banti si deve il glossario che il lettore troverà in fondo al volume. Un ringraziamento debbo anche infine al presidente del Formez, Sergio Zoppi, alla cui sensibilità culturale e passione civile per le sorti dell’Italia meridionale si deve gran parte della riuscita dell’intero progetto.
1993 - Piero Bevilacqua - Breve Storia ...
powered by social2s