Ho inserito in questa I parte soltanto un pezzo del brano completo, che ho anche salvato (da scaricare!) in Download/Nord-Sud
INTRODUZIONE
(da Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, Roux e Viarengo Torino 1900)
Al Dott. Luigi Roux
Senatore del Regno.
Napoli, il giorno di Pasqua del 1900.
Mio caro Roux,
Ma ti dedico questo libro anche per una ragione meno alta: perché mi pare che il tuo nome debba giovargli.
Tu che sei nella vita del tuo nobile Piemonte così grande parte; tu che nella politica, nella stampa, nel commercio rappresenti in modo mirabile l'attività della tua gente; tu sai quale ideale mi abbia guidato nel ricercare le cause del disquilibrio presente.
Quante volte te ne bo parlato, tu che ami la verità, tu che sei buono e forte, non mi sei mai parso né scettico né diffidente.
Tu sei nato nell'estremo Nord della penisola e io nell'estremo Sud: poiché non sei sospetto, vuoi tu aiutarmi in un'opera di verità, che è diretta a mostrare un pericolo vero, ma anche a dimostrare che si deve aver fede nell'avvenire.
Come sarebbe possibile non aver fede?
L'Italia dal 1860 ad oggi ha compiuto progressi meravigliosi: nessun paese forse ne ha compiuti tanti nello stesso periodo.
Noi, che siamo nati dopo quel tempo, non ricordiamo quanto poco valessero quelle cose che ora con troppa leggerezza si esaltano. Il solo male vero che ha l’Italia odierna è la poca fiducia in se stessa: poiché ella ingrandisce a torto il passato e non vede con serenità il presente.
Tranne la Germania e l'Ungheria, nessun paese in paragone di ciò ch'era, ha tanto progredito quanto l'Italia.
Quarant'anni fa l'Italia quasi non avea che il suo entusiasmo e le sue speranze: era molto poiché preparava la coscienza nazionale, ma era poco perché non si traducevano in beni materiali.
Dal 1860 ad oggi l'Italia è cresciuta del 44,40% per popolazione: ma la ricchezza generale si è forse triplicata.
Non avevamo nulla e abbiamo dovuto fare tutto. Abbiamo costruito oltre 13 mila chilometri di ferrovie, una grandissima rete di strade e abbiamo creato un esercito e una marina, che se non ci hanno dato la vittoria militare, hanno almeno contribuito potentemente a cementare l'unità e non ci fanno essere isolati e indifesi nel mondo. Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola.
La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l'agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L'Italia centrale, l’Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto.
Vi erano intere province, intere regioni, quasi chiuse a ogni civiltà. L'Italia nuova ha dato 50 mila scuole elementari e 1.000 scuole secondarie a un paese in cui il popolo era a un livello intellettuale bassissimo. Il commercio internazionale non è la sola, né sempre la maggiore espressione della ricchezza di un paese. Pure in esso, anche traverso gli errori, molto cammino si è fatto. Un senatore francese, Siegfried, constatava di recente che dal 1860 al 1897 il commercio dell'Italia è cresciuto del 99%, le esportazioni del 120%. Non vi è angolo remoto d'Italia che sia isolato dalla civiltà, sì com'erano assai province prima.
Al principio di questo secolo la Francia rappresentava per popolazione la sesta parte della popolazione di Europa e l'Italia meno che la undecima parte. Non ostante l'accrescimento straordinario dei paesi nuovi, l'Italia ha mantenuto la sua posizione e la Francia invece rappresenta meno della decima parte.
Poveri, non abbiamo potuto esportare capitali; e poco progrediti ancora, abbiamo venduto fino a qualche anno fa solo nelle industrie derivanti dalla terra; ma senza capitali e senza organizzazione abbiamo esportato uomini. L'emigrazione non compresa, ostacolata, negletta, ha fatto sorgere una nuova Italia. I poveri contadini del Nord e del Sud, almeno in quest'opera di bene uniti, hanno creata la civiltà dell'Argentina; hanno aperto un nuovo grande mercato di consumo. In seguito si vedrà quale immane opera abbiano compiuto quei pionieri illetterati, e come abbiano fatto sorgere, di là dell'Oceano, una nuova e più grande Italia.
L'Italia è l'unico paese che nella storia della civiltà dia l'esempio di una vera resurrezione, dopo una servitù e una decadenza di secoli. La Grecia, la Spagna non han saputo risorgere.
Pure in Italia tutti sono scontenti. Prima vi erano - ha osservato uno scrittore acutissimo - papalini a Roma, austriacanti a Milano, granduchisti in Toscana, borbonici in Napoli; ora tutti s' incontrano in una cosa, nel dir male del governo presente.
A parte ogni paradosso, anche questo è un progresso grandissimo: poiché per i paesi che si formano, niente è più utile dello spirito d'insofferenza. Quelli uomini che amavano la quiete, che si contentavano di una mediocrità tranquilla che i governi assoluti davano loro, e che erano granduchisti, o borbonici, o austriacanti, appartenevano a una specie che va scomparendo in Europa. Bisogna dire che la insofferenza, entro certi limiti, è la prima condizione di sviluppo. Molte ingiustizie che ora ci offendono, passavano prima inosservate. Lo stesso sviluppo del socialismo e dei partiti popolari è prova di una coscienza più diffusa, di una tendenza ascensionale nel popolo. Vi è molto scontento non perché si stia peggio, ma perché siamo diventati migliori e la insofferenza è cresciuta.
Abbiamo ereditato dal passato una concezione pericolosa: noi abbiamo creduto (si può dire che non crediamo?) che la storia della civiltà non sia che la storia della emancipazione degli uomini, là dove non è che la storia della loro educazione.
Si diceva: emancipata l'Italia dai suoi tiranni, questa fertilissima terra di Europa, troppo favorita dalla natura, questo paese cui Dio ha largito tutti i suoi doni (accanto a ognuna di queste frasi si possono scrivere i nomi dei nostri maggiori artefici dell'unità e dei nostri uomini politici più insigni) diverrà il primo in Europa.
Quanti non credono ancora che l'Italia sia naturalmente un paese molto ricco? Quanti non credono che se avessimo un buon governo saremmo ricchi?
Non vi è nulla di più rivoluzionario di questa credenza.
Bisogna ripetere a tutti che l’Italia è un paese naturalmente povero, e che anche ben governato (e non è difficile far meglio di quello che si è fatto in tanti anni di errori) sarebbe povero. Bisogna insegnare anche nelle scuole che la nostra prosperità economica non può essere conquistata se non con dura lotta e in condizioni non facili.
Ma tutti i progressi che si sono compiuti non sono che l'effetto dell'unità. Io non voglio dire con ciò che la nostra desolante uniformità amministrativa sia sempre un bene: né voglio dire che la pesantezza del nostro meccanismo politico non possa essere eliminala. Ma voglio dire solo che l'unità politica ci ha dato tutte le cose migliori che noi abbiamo: la supremazia del potere civile, il risveglio della coscienza individuale, il desiderio di espansione che ora comincia a essere in tutta la nazione e che sarà la nostra fortuna.
L'Italia se qualche cosa deve esser nel mondo non può esser che unitaria. Una Lombardia o una Sicilia autonome non sarebbero nulla, se anche questo non senso storico noi potessimo solo per maligna ipotesi ammettere.
Questo libro qualunque significato si voglia dargli non è che la difesa dell'unità contro un pericolo che le sovrasta e che noi dobbiamo eliminare.
L'unità d'Italia non poteva esser fatta se non con il sacrifizio di alcune regioni, sopra tutto del Mezzogiorno continentale.
Questa grande zona, mentre, all'atto della costituzione del regno, portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica, dalla sua situazione geografica era messa alla più grande distanza dal confine. La conformazione dell'Italia - che non ha riscontro in nessun paese d'Europa - determinava, in un primo periodo, grandissimo esodo di ricchezza dal Sud al Nord.
L’Italia del Sud era il reame, il reame per eccellenza come dicevano gli storici: l’Italia del Nord era divisa in molti stati e ognuno di essi avea istituzioni proprie. Queste ultime furono conservate con cura; e quando erano meschine furono ingrandite. Il Sud perdé il suo esercito, la sua burocrazia innumerevole e povera: e vide in pochi anni, quando la ricchezza non era cresciuta, crescere smisuratamente le imposte.
Tutto, io scrivevo qualche tempo fa, è stato fatto senza malevolenza; è stato effetto, anzi, di necessità.
Il confine spostato potea permettere che, come nel 1859, fossero nel Sud quasi 100 mila soldati?
I bisogni imperiosi degli anni che seguirono il 1860 rendevano necessario aumentare l’entrata. Si poteva adottare il regime fiscale di Napoli così blando e così disadatto a un paese in trasformazione?
La burocrazia meridionale era borbonica: si potea non licenziarla quasi in massa?
La unità era da compiere e le guerre dovevano farsi al Nord. Come non provvedere la Lombardia, il Piemonte, la Liguria, il Veneto di strade, di ferrovie, di forti? Dinanzi alla necessita suprema della difesa non è possibile discutere.
Vi era differenza dei debiti pubblici, differenza grande nei patrimoni di ogni stato: ma nel momento dell’entusiasmo, nella gioia del sogno realizzato non era strano fare i conti?
Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo.
Ora l’industria si è formata e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità.
Senz’ombra d’ironia - non è il caso, né io vorrei – il Nord non ha colpa in tutto ciò: la sperequazione presente che ha messo a così diverso livello regioni dello stesso paese, è stata frutto di condizioni politiche e storiche.
Ma il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dato non ricorda più: i sacrifizi compiuti non vede.
Qualche autore (o almeno!) ha detto persino che in Italia vi sono razze superiori e razze inferiori. I meridionali appartengono piuttosto a quest’ultima categoria. Esiste una scienza, anzi una mezza scienza, che prevede senza difficoltà l’avvenire dei popoli e che sa dire chi sia capace di progredire e chi non. Questa mezza scienza si diletta a dire che i meridionali sono un ostacolo a ogni progresso; che persino ogni reazione viene dal Mezzogiorno.
Ora è bene che la verità sia detta: essa renderà l’Italia settentrionale meno orgogliosa e l’Italia meridionale più fidente. Quando si saprà ciò che quest’ultima ha dato e quanto ha sacrificato, sia pure senza volere e senza sapere, la causa dell’unità avrà molto guadagnato.
Non è raro leggere in un giornale di Milano che una elezione di Lombardia vale politicamente dieci del Mezzogiorno: che i meridionali sono causa del disordine della vita pubblica italiana. Non è raro sentir dire che da quando nella vita politica italiana l’intervento dei meridionali è stato maggiore le cose vanno peggio. L’Italia meridionale appare come una Vandea di baroni assenteisti, di plebi ignoranti e di politicanti corrotti. Le ferrovie del Mezzogiorno sono la causa delle difficoltà del bilancio; gl’impiegati meridionali del disordine amministrativo; i politici meridionali del militarismo. Queste cose si dicono in mezza Italia, ma sommessamente, con quel parlar discreto ch’è il nostro male. Ebbene diciamola tutta la verità, facciamola sentire apertamente, sì come è dovere nostro.
Per cause molteplici (unione di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica è trasmigrata subito al Nord. Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori di esso, hanno continuata l’opera di male.
Non vi è cosa, tranne le imposte, in cui il Mezzogiorno non venga ultimo.
Pure fino al 1880 mai dall’Italia meridionale alcuna voce autorevole si è sollevata a notare la sperequazione stridente: questa brutta parola è stata inventata in Lombardia e in Piemonte, quando si credeva che poco i meridionali pagassero per la terra e si voleva costringerli a pagare di più.
Si è detto che i meridionali pagano poco, e chiunque abbia sfiorato soltanto la questione sa che pagano di più; che richiedono molto allo Stato e viceversa si sa che lo Stato spende pochissimo e per quasi tutto il Mezzogiorno; che hanno invaso le pubbliche amministrazioni e viceversa sono esigua minoranza.
Al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi. Possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo. Ciò che le mancava era ogni educazione politica: cio che bisognava fare era educare le classi medie e formare sopra tutto l’ambiente politico.
Invece si è seguita la via opposta: un po’ per necessità, un po’ per incoscienza; sopra tutto per colpa stessa dei meridionali.
L’Italia meridionale, unitasi incondizionatamente, era ad un livello intellettuale molto più basso della Toscana e di tutte le regioni dell’Italia settentrionale. A causa di un dominio secolare si notava allora, si nota tuttavia, un grande contrasto tra la morale pubblica e la morale privata. Quest’ultima, sopra tutto dal punto di vista familiare, è più elevata, in generale, che in qualsiasi altra terra d’Italia.
La prima era - e chi può negare che spesso sia? - molto scadente. I governi assoluti avevano proibito quasi ai cittadini di occuparsi di politica: e spesso la politica voleva dire corruzione o sopraffazione.
E’ innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno d’ordinario male; i loro uomini politici non si occupano nel maggior numero che di partiti locali.
Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza. Concordi nel chiedere una legge speciale, un sussidio, sovvenzioni per danneggiati politici spesso immaginari, sono discordi in ogni grande opera collettiva.
Presi individualmente spesso valgono moltissimo, insieme poco.
Vorrebbe avere un po’ di equilibrio e di assetto; la possibilità di respirare e di vivere.
Nel 1860, sopra tutto dopo il 1876, l’Italia meridionale è stata considerata come il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare l’elezioni. Un ex ministro dichiarava alla Camera, avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni: poiché poteva mandate tutti i sindaci della sua provincia in carcere. Si è speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si è incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami.
Così il paese meridionale, che ha visto seguire in politica, in dogana, in finanza, in amministrazione l’indirizzo più opposto ai suoi interessi, è diventato scettico. Pur di non pagare metà della imposta fondiaria, rinunzierebbe a metà dello statuto. Si considera il Mezzogiorno come una Vandea legittimista, come il baluardo delle istituzioni; e invece non è né fedele, né infedele, e indifferente. I Borboni erano molto amati dal popolo, che essi volevano ignorante e felice: l’anno prima che andassero via facevano viaggi trionfali. E pure perdettero il regno da un giorno all’altro. I paesi che non fanno politica sono i più rivoluzionari: gli odi covati nel silenzio, le dominazioni cieche, son quanto di più rivoluzionario si possa immaginare. Niente in questo senso vi è di più conservatore del parlamento e dei sistemi elettorali.
I meridionali hanno politicamente tanti torti!
Ma nemmeno i torti bisogna esagerare! Fra i 174 individui che sono stati una o più volte ministri dal primo ministero nazionale all’ultimo ministero Pelloux, 47 ne ha dati il Piemonte, 14 la piccola Liguria, 19 la Lombardia, 41 tutta l’Italia meridionale, 14 la Sicilia. L’Italia meridionale avrebbe avuto 119 ministri se ne avesse avuti in proporzione quanto la Liguria! Il governo delle province, prefetti, intendenti di finanza, generali, ecc. è ancora adesso in grandissima parte nelle mani di funzionari del Nord. Non vi è nessun senso d’invidia in quanto diciamo. Ma vogliamo solo dire che se i governi fossero stati più onesti e non avessero voluto lavorare il Mezzogiorno, cioè corromperne ancor più le classi medie a scopi elettorali, molto si sarebbe potuto fare e che, in ogni caso, la responsabilità non è solo dei meridionali.
Il problema del Mezzogiorno è il più grande problema attuale: la libertà e l’avvenire d’Italia sono nella soluzione di questo problema.
Senza dubbio la borghesia meridionale è assai spesso torpida: ma la mancanza d’iniziative è più che non si creda frutto delle difficoltà. Si può tentare quando i primi bisogni siano assicurati: ma chi non ha questa sicurezza, non osa.
A Milano senza dubbio si raccolgono in pochi giorni i milioni necessari per una intrapresa industriale: e a Napoli no. Ma prima di tutto la ricchezza è già formata, e la prima formazione è stata opera della politica generale, e poi le condizioni esistenti o create assicurano più facilmente una rimunerazione del capitale, Quando vi è capitale che cerca impiego si può essere assai più arditi che non quando vi siano richieste insoddisfatte di capitale.
Non si può negare che dopo il 1860 l’Italia meridionale ha molto progredito, le province si sono aperte alla civiltà, la coscienza generale si è elevata, il popolo sopra tutto è più libero e ha sentito la possibilità di una vita migliore.
Come nelle vecchie carte vaticane l’interno dell’Africa era in bianco e portava la scritta misteriosa: hic sunt leones; la carta della civiltà avea nel Mezzogiorno grandi spazi bianchi che si vanno sempre più riducendo.
Con tutti i suoi torti questa unità, che era il sospiro e la meta dei secoli, ha fatto troppo grande bene perché sia solo possibile dirne male. Ma il bene che ella ha fatto è stato assai diseguale, donde il contrasto presente.
Ed è accaduto che le origini della prosperità di alcune regioni si sono volute vedere non dove erano, nelle dogane, nella finanza, nella politica, ma in una superiorità etnica che non è mai esistita. E ancora è accaduto che chi più ha dato è parso anche uno sfruttatore.
Io sono nato nella Basilicata, nella più povera terra del Mezzogiorno, e il ricordo di essa, pure nella lontananza, mi è nell’animo. Gli abitanti di quella regione sono ritenuti abili, poiché alcuni di essi sono stati prefetti, altri ministri: si dicea che molto avessero avuto dallo Stato. Ma tutte le volte che ho traversata quella terra, triste, solenne, povera io mi son chiesto: in che cosa ella è stata abile? Questa parola che è una lode e un’offesa, questa parola, che si pronunzia con stima e con diffidenza, in che cosa ha meritato?
Avevo sentito dire in Lombardia che i meridionali non pagano e negli occhi e nel cuore ho ancora l’immagine di centinaia di famiglie discacciate dalla terra, perché non avean potuto pagare le imposte; avevo sentito dire che non lavorano e le povere plebi rurali avevo visto lavorare fino all’esaurimento, come in nessun luogo del mondo; avevo sentito dire che esiste una borghesia, che nasconde i risparmi e non vedevo che debitori insolventi, persone le quali si raccomandavano alle banche e ai pochi ricchi per non essere espropriate. Mi avevano detto infine che i figli della borghesia avessero invaso le amministrazioni pubbliche: e pur nell’esercito io ne ho trovato meno che non ne diano quelle regioni le quali odiano il militarismo.
Che cosa è dunque che mantiene questa leggenda iniqua? e perché noi non la dobbiamo distruggere? perché la generazione nuova, che deve avere il culto della verità, deve mentire anch’essa?
E perché non dovrebbe avere ancor questo? La pace non è lo scopo della vita ed è solo nella difficoltà che si misura l’energia dei popoli.
D’altra parte il problema non è che un problema di carattere morale.
What is done cannot be undone, dice la tragica donna di Shakespeare: ciò che è fatto e fatto e non ne parliamo più. L’Italia meridionale ha dato ciò che ha dato per una grande opera di bene: per il suo avvenire stesso; ha pagato ella, ch’era cosi poco progredita (e anche questo bisogna lealmente riconoscere) la sua entrata nella civiltà. E’ un diritto di entrata un po’ alto: ma non è sproporzionato all’opera.
Ora l'Italia meridionale non deve chiedere né lavori pubblici frettolosi, né concessioni grandiose e nemmeno forse istituti nuovi. Queste cose servono qualche volta più all'affarismo che allo sviluppo industriale: più a creare impiegati che a far risorgere l'economia di un paese.
Ma il passato deve essere una grande scuola.
Coloro che sono più in alto, i più ricchi, i più fortunati gridano di più. Non oso né meno parlare di istituti o di riforme utili alle classi medie.
Prima di fare nuove istituzioni per gli stessi operai della Lombardia e del Piemonte, che già ricevono salari di paesi civili, bisogna ricordarsi che quei salari non sarebbero senza il Mezzogiorno: e che anche adesso nel Mezzogiorno vi sono pianure infinite dove la malaria uccide.
Prima di fare qualunque cosa che faccia aumentare anche di una lira le imposte, bisognerà ricordarsi che vi sono terre in cui lo Stato appare più crudele che non in Irlanda i landlords crudelissimi.
La violenza è qualche volta causa di bene: ogni atto di creazione spesso dalla violenza deriva. Ora, formata la coscienza del paese, si deve pure con la violenza combattere tutti quei sistemi che si basano sul criterio che l'Italia meridionale debba fornire i pretoriani dei ministeri.
L'Italia meridionale ha poca ricchezza e poca educazione industriale: pure lo Stato quando ha speso per essa, ha speso più per mantenere il parassitismo, che per combatterlo.
Invece è l'educazione industriale che bisogna formare.
Durante le rivoluzioni del 1820, del 1848 e (perché non dirlo?) del 1860 erano nel Mezzogiorno turbe innumerevoli che chiedevano impieghi di Stato. Anche adesso l'otium cum dignitate di un impiego appare come la felicità: e il sospiro delle madri è il figlio impiegato.
In due studi sul 1820 e sul 1848 ebbi occasione di dire che masse numerosissime invadevano a Napoli gli uffizi chiedendo impieghi. Nel 1860 accadde la stessa cosa, e Garibaldi nella sua eroica ingenuità, credendo l'Italia ricchissima, voleva che fossero riconosciuti gli ufficiali dell'esercito meridionale che avevano con lui combattuto: un ufficiale per ogni sei soldati. L'Italia meridionale ha forse ora pochi impiegati, perché ne ha voluti troppi. Ora è l'educazione che bisogna mutare, che bisogna anzi rifare.
Il Mezzogiorno d'Italia se è destinato ad un risveglio grande, non può conquistarlo che lentamente, purificando le sue amministrazioni e facendo la sua educazione economica.
La tendenza dei popoli moderni non tollera frazionamenti, e non è possibile, nemmeno per ipotesi malefica, concepire un'Italia divisa. Per il maggior bene di tutti l'unità è necessaria e deve essere anteposta a ogni cosa. La Germania, la Francia, l'Inghilterra, questi popoli sono in Europa in alto nella civiltà hanno tentato anche con la violenza di rinsaldare i vincoli unitari. L'unità politica, l'unità doganale non vanno quindi discusse, né meno se a qualche regione possa parere più utile un distacco che, date le lotte dci popoli moderni, le sarebbe in definitiva nefasto.
La discussione che si apre può avere un pericolo. Nel Sud d'Italia, dove la ricchezza è poca, le difficoltà sono molte e la piccola borghesia è povera, vi è una massa innumerevole che cerca impieghi od occupazioni e vuole fomentare piuttosto che distruggere il parassitismo. E bene, non il di essa che bisogna occuparsi. L'Italia meridionale, soffocata dal carico tributario, ha bisogno di aria respirabile, sopra tutto di allargare i suoi orizzonti, di formare la sua coscienza collettiva, di eliminare quanto di antisociale le è rimasto.
Se il bilancio non può tollerare nuove spese, nulla si chieda, purché ad altri più ricchi e meno tormentati nulla sia dato.
Ma se una riforma finanziaria deve essere tentata, prima di pensare ad altro o ad altri bisognerà ricordarsi di tante province ove le imposte fanno dieci volte più male della grandine e dei morbi. Se nuove istituzioni devono essere create, e non è necessario che siano al confine, bisogna ricordarsi di quella landa amministrativa che è il Mezzogiorno.
Sopra tutto deve mutare lo spirito della politica italiana.
Quando nell'Italia meridionale non saranno mandati i peggiori funzionari, ma i migliori perché l'opera loro è più difficile, quando le forme attuali di parassitismo saranno combattute e non aiutate, e non sarà considerato il Mezzogiorno come il campo di conquista di ogni condottiero, qualche volta di ogni avventuriero parlamentare, quando si agevolerà la formazione della ricchezza e nessuna nuova imposta verrà a deprimerla; allora si aiuterà la trasformazione industriale del Mezzogiorno e il problema sarà risoluto.
Se il nome d'Italia è venuto dall'estremo Sud della penisola, anche gran parte della storia è cominciata in esso.
Il problema della libertà e l'avvenire dell'unità sono ora nella soluzione del problema meridionale.
Oh Italia Diis sacra: o Italia sacra alla lotta!
Caro Roux, vuoi tu aiutarmi a diffondere la verità e a liberare l'Italia da un pregiudizio che le fa più male della sua povertà?
Il tuo amico
Nitti.