In Giovanni De Luna, Storia del Partito d'Azione 1942-1947, Nota n. 52, Pag. 317, Editori Riuniti, 1997 "Su Ginzburg [Si tratta di Leone Ginzburg (1909-1944) ndr], cfr. quanto ha scritto Norberto Bobbio (“Ebbe sempre chiara l'idea che il primo dovere dell'intellettuale antifascista fosse quello di coltivare seriamente gli studi umanistici per non lasciare il vuoto tra il passato che stava per essere seppellito e la rinascita futura... e di dare, tra gli studi umanistici, la preferenza alla ricerca e alla riflessione storica che sola avrebbe permesso di rendersi conto degli errori del passato, della decadenza del presente e dei rimedi necessari per uscire da questa senza ricadere nei primi. Ginzburg impersonò molto bene l'ideale della generazione di storici, il cui avvento Gobetti aveva pronosticato”) in Introduzione a L. Ginzburg, Scritti politici e letterari, cit., pp. XI-XXX". |
Democrazia e crisi sociale
La rabbiosa "resistenza degli interessi costituiti"
di Giorgio Ricordy
L' “incertezza dell'ordinamento giuridico” e l' “instabilità del valore della moneta”, da qualche tempo, sembrano creare molti più imbarazzi ad una sinistra che tende ad esprimere una “classe di governo”, che non a quel coacervo, appunto, di “interessi costituiti” - che sono interessi politici ed interessi economici, intrecciati ma diversi fra loro - i quali, pragmaticamente, fanno degli elementi di crisi elementi dello scenario in cui capita di muoversi, da utilizzare, indirìzzare, e manovrare, scegliendo in base ad essi le alleanze di volta in volta più convenienti, o l'avversario contro il quale conviene, di volta in volta, sferrare il colpo.
L'egemonia democristiana cominciò a scricchiolare quando il complicato equilibrio su cui era cresciuta mostrò dì non sapere assorbire i mutamenti che esso stesso aveva prodotto: dai massicci flussi migratori verso il nord, alla crescita di un sistema di imprese di stato gigantesche e improduttive, dall'espandersi dell'edonismo consumistico all'elefantiasi paralizzante della pubblica amministrazione clientelare e inefficiente, dallo sviluppo economico fondato sull'assistensdalismo, ad un sistema fiscale fatto per tranquillizzare e non dar fastidio più che per finanziare le casse dello Stato, E quando il “vuoto di potere” democristiano cominciò anche a dare segni di non saper più validamente arginare la crescita dell'opposizione popolare, alcune storiche alleanze cominciarono a traballare: così fu per il Vaticano, così fu per molti ambienti dell'imprenditoria, così fu, perfino, per il gran protettore americano.
Ma il tramonto dell'egemonia democristiana significò, per questi ed altri “interessi costituiti”, anche la perdita della più formidabile camera di compensazione operante in Italia. E quando Aldo Moro nel suo ultimo discorso alla Camera dei Deputati pronunciò la famosa arringa in difesa del suo partito che rischiava davvero di finire tutto sotto processo, aveva ragione: difendere la DC voleva dire difendere il paese dal caos che, senza la DC, inevitabilmente sarebbe esploso. Per salvare il paese e il suo partito, Moro aveva concepito il delicato progetto di estendere le funzioni della camera di compensazione democristiana anche a quelle spinte che fino ad allora ne erano rimaste all'esterno: i comunisti e le masse della sinistra. Era l'unica strada che Moro vedeva non solo per conservare alla DC il suo ruolo di grande mediatrice e recuperare un'egemonia declinante, ma soprattutto per riportare a comune denominatore le contrapposizioni emergenti fra quegli “interessi costituiti”, che acquistavano caratteri di crescente virulenza.
Dalla vicenda Sindona allo scandalo Lockheed, dagli splendori e tracolli della carriera di Eugenio Cefìs all'inchiesta sulla SIR, dallo scandalo Italcasse agli attacchi alla Banca d'Italia, con le opposte fazioni della magistratura utilizzate spregiudicatamente in maniera quasi non meno terroristica delle P38 o degli scorpion delle BR, o del fucile a canne mozze della mafia, il tentativo di Moro e la sua ipotesi politica avevano un senso precìso, coniugabile, almeno nei tempi brevi, con la lìnea comunista del compromesso storico.
L'Italia, dopo un'effimera ripresa fondata sui pretesti di un privatismo “sommerso”, è adesso in bilico, sull'orlo di un nuovo precipizio recessivo di proporzioni spaventose: la prospettiva, in poche ma eloquentissime e drammatiche cifre, indica un tasso di inflazione del 25 per cento, un deficit pubblico di 36 mila miliardi e 2 milioni e mezzo di disoccupati (anche se i numeri del ministro Andreatta sono diversi, il quadro fornito dalla maggior parte degli economisti è questo). Con un simile abisso dinnanzi, i margini di mediazione nella spartizione del potere sono pressoché inesistentti ai maestri della lottizzazione resta poco da lottizzare.
Dopo la rovina delle grandi imprese pubbliche, dopo la strage compiuta nell'industria chimica, dopo il declino della grande siderurgia, restano poche aree sulle quali fare ancora affidamento e poche certezze su possibilità nuove e emergenti. Restano le banche, Banca d'Italia in testa, dove gli ibridi compromessi raggiunti lasciano prevedere che sia la stabilità recente della lira, sia l'opulenza del sistema finanziario, avranno breve durata. Resta certa grande industria privata a dimensione multinazionale, sul cui terreno si svolge un'incessante guerriglia combattuta sia con gli attentati terroristici che con le spregiudicate operazioni finanziarie.
Spuntano nuovi spazi di conquista, come l'industria elettronica o l'industria nucleare, o l'industria del rame, dove ancora si scatena la corsa all'oro di scorridori del potere vecchi e nuovi. I morti e i feriti - non solo metaforici, spesso innocenti - di questo scontro selvaggio, sono già stati e saranno ancora numerosi. Sui destini del paese seguitano ad accumularsi le minacce di misteri nazionali mai svelati, e si moltiplicano gli avvertimenti in codice destinati a produrre effetti che restano ignoti.
Lo sbarramento massiccio con cui è stato precluso al Partito Comunista l'accesso al governo del paese, se per un verso deriva dalla sua scelta precisa dì sottrarsi a siffatte pratiche di potere, per l'altro risponde alla necessità vitale, per le fazioni di potere in lotta fra loro, di non ammettere estranei a quella che resta una partita giocata in famiglia. Almeno fino a quando non saranno emersi i nuovi vincitori e non saranno sradicate le resistenze degli sconfitti.
Rimane il fatto, per il movimento del lavoratori, che la crisi in corso scarica sulle classi popolari i suoi costi, e che la “resistenza degli interessi costituiti” di cui parlava Ernesto Rossi, si manifesta più rabbiosa che mai. In questa situazione, la sua “riforma giacobina”, più che proiettarsi su una “condizione più favorevole”, risulta l'unico, indispensabile strumento per la sopravvivenza come entità sociale e economica di tutto il paese.