Romolo Caggese, Ciò che resta della questione meridionale, Roma, 1933Nella seduta del 6 aprile 1865, nella prima Camera italiana, il Deputato Michelini disse che gli pareva di scorgere poca simpatia tra le regioni del giovine Regno; ma sorse nell'aula poco meno che un tumulto: il Presidente, Cassinis, protestò contro chi manifestava “pensieri altrettanto sconvenienti quanto infondati”, e il Presidente del Consiglio, La Marmora, sdegnato e accorato, dichiarò che, se l'On. Michelini avesse viaggiato come lui, si sarebbe accorto che l'Italia era assolutamente unita e compatta.
La Destra, unitaria e severa, a cui l'Italia deve la immane e generosa fatica della unificazione del nuovo diritto positivo, non poteva neppure in ipotesi e neppure come constatazione di un fatto storico, ammettere che esistesse un problema meridionale; si avvide, certo, dello stato arretrato in cui si trovavano le ex-provincie borboniche, continentali e insulari, ma fermamente credette che la legislazione unitaria e la progressiva scomparsa del brigantaggio, sotto l'implacabile pressione dello Stato, avrebbero rapidamente risanato il grande infermo, cioè un Paese esteso per poco meno della superficie di tutto il Regno, ricco di ricordi, di sole, di uomini. Gli stessi meridionale noti o poco meno che oscuri deputati di regioni senza tradizioni e senza desiderio di regime parlamentare quasi tutti, ahimé, accorrenti verso la Sinistra, non contribuirono, sicuramente, nei primi tempi dello Stato unitario, ad illuminare la Camera e la pubblica opinione italiana su le reali condizioni delle provincie che li avevano eletti, ma contribuirono invece ad avvalorare leggende lagrimevoli ed a formare stati d'animo che dovevano poi resistere agli urti della realtà per lungo ordine di anni. Infine, la maggior parte degli uomini politici del nord e del centro della Penisola, e anche i patrioti più ardenti e disinteressati - Cavour, Mazzini, Rattazzi, Cattaneo, Brofferio, Minghetti, Ricasoli - non conoscevano il Mezzogiorno o vi avevano fatta qualche fugace apparizione, e ne sapevano quel tanto che ne avevan riferito gli esuli del 1821 e del 1848 a Torino e a Firenze e quel che ne avevan letto nella Storia del Reame di Napoli del Colletta, che tanta parte ebbe nella maledizione che colpì la dinastia dei Borboni. Forse soltanto il Cavour aveva veduto chiaramente che due mali virulenti tormentavano il Mezzogiorno, la “grande povertà” e, conseguenza di essa, la “grande corruzione”; ma sì fatta intuizione acuta e geniale era rimasta senza sviluppi apparenti nel suo spirito. Continuò così a prosperare il mito di una vasta regione “anche troppo favorita dalla natura”, come diceva Bonghi, “eccezionalmente cospicua”, secondo il Sella, “il più bello e il più fertile Paese d'Europa”, secondo il Minghetti, infestato per poco meno di due secoli dal predominio di Spagna e per un buon secolo dal malgoverno borbonico, rapaci entrambi e corruttori, responsabili di tante miserie materiali e morali. Marco Minghetti, anzi, citava, a titolo d'onore, le terre del Tavoliere di Puglia, certo fantasticando intorno ai fasti fridericiani del secolo XIII.Fu soltanto tra il 1875 e 1885, che si incominciò a parlare di una questione meridionale, e quelli che posero nettamente il problema entro limiti concreti furono da prima Pasquale Villari, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, e poi, con lunga preparazione ed ascetico ardore, subito dopo l'80, Giustino Fortunato. Sono del 1876 le Lettere meridionali del Villari; è dello stesso anno il volume del Franchetti su le condizioni politiche e amministrative della Sicilia; è del 1877 il libro del Sonnino su i contadini in Sicilia; sono del 1880-85 i primi studi del Fortunato, e sono di quegli stessi anni (1881-85) i 15 volumi di quell'Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola che restano monumento perenne di dottrina e di penetrazione politica.
Stefano Jacini, in una relazione finale che si legge anche oggi col più vivo interesse, sosteneva che l'Italia agricola mostrava “una tale varietà di condizioni di fatto che, ben lungi dal costituire una unità economica …, riflette in sé, come nessun altro dei grandi Paesi d'Europa, tutto ciò che vi è di più disparato, in fatto di economia rurale, da Edimburgo e da Stoccolma a Smirne e a Cadice”.
Sonnino e Franchetti sostenevano che una questione siciliana esistesse e fosse oltremodo complessa; Villari, il mio vecchio ed indimenticabile Maestro, si esaltava fino alla commozione allo spettacolo miserando della vecchia Napoli “evacuata” dai Borboni e non ancora redenta dall'Italia nuova. Egli se ne commoveva anche molti anni dopo, quando gli fui scolaro a Firenze (1900-1007), e soleva confessare che una buona azione era stato il suo breve e infiammato volume del 1876. Esule nel '48, povero e solo nell'ultimo decennio di Firenze granducale, poi rapidamente salito in fama di pensatore e di storico in Italia e in Europa, egli era rimasto sempre il compagno di Luigi La Vista, l'amico e il cognato di Domenico Morelli, l'antico insofferente alunno della scuola del Marchese Puoti, anche quando, ottantenne, rievocava spesso a noi giovani la tristizia dei suoi anni di angoscia e le scene di dolore infinito alle quali dall'infanzia aveva assistito.
Più tardi, le classi dirigenti, la stampa, lo Stato riconobbero che una questione meridionale esisteva davvero. Nel 1901 Luigi Luzzatti, dal banco del Governo, dichiarava che “quale sarà l'avvenire del Mezzogiorno tale sarà del nuovo Regno, poiché, se non si rialzano le sue sorti, esso impoverirà anche le altre parti d'Italia”. Il 29 settembre 1902, Giuseppe Zanardelli, in quello che fu chiamato un viaggio di scoperta in Basilicata, poneva con l'eloquenza che gli era propria, il problema meridionale nei suoi confini naturali, e prometteva di tutto tentare per risolverlo. Il 9 novembre 1902, Sonnino tenne, a sua volta, un discorso a Napoli per ribadire idee che gli erano familiari dal 1876 e per porre problemi nuovi che in un quarto di secolo si erano andati aggrovigliando con gli antichi e insoluti problemi. Lo stesso Giolitti, che, nella rassegnata pacatezza burocratica del suo chiaro e freddo spirito alpestre, si infastidiva delle questioni che filosofi e storici senza posa sogliono sollevare e alimentare, si era reso conto, pur essendo Stato, e soltanto a Napoli, una volta sola, credo, in sua vita, e per poche ore, che qualche cosa bisognava dire e fare, almeno dire, intorno a quel problema tormentoso di cui da un trentennio egli sentiva discorrere, spesso con impetuoso dolore; e, presentando il suo Ministero il 1° dicembre 1903, si lanciava andare ad una dichiarazione di colore zanardelliano e fortunatiano, essere cioè un “dovere nazionale” rialzare le sorti dell'Italia meridionale. Naturalmente tutti applaudirono, perché sono proprio le frasi generiche quelle che esaltano nei corrotti regimi parlamentari, le amorfe e pletoriche maggioranze occasionali: non impegnano, non si conficcano nel cuore, suonano e non creano..... Da allora fu un accorrere di grandi e piccoli medici d'ogni parte, al letto dell'infermo; tutti ebbero un farmaco da sperimentare, un sistema organico da suggerire, un pericolo imminente da allontanare, una miracolosa guarigione da promettere. Segno dei tempi. Più le società sono in crisi e declinano, più sbucano d'ogni angolo i riformatori d'occasione, i profeti d'impossibili profezie. Così nella vecchia Francia di Luigi XV; così ogni volta che immani fatti nuovi stanno per realizzarsi tra l'apparente indifferenza delle moltitudini. E, com'era inevitabile, vi furono gli ottimisti e i pessimisti - questi perché c'eran quelli, e viceversa - gli àuguri giocondi ed i provveditori di inquietudini, i credenti e gli scettici e quelli che passavano per credenti e per scettici. Le leggi speciali per la Basilicata e per Napoli parvero, quindi, assolvere un compito di ardente civismo ed annunziare tempi migliori; se non che, dopo qualche anno appena, e prima ancora che scoppiasse la guerra, era avvenuto di esse ciò che avviene alle povere fiumane a regime torrentizio, in tanta parte del sud, cioè s'erano impoverite e isterilite senza rimedio. Lo stesso dicasi di quelle tanto famose leggi su la diffusione delle scuole elementari, del 1904, del 1906 e del 1911, che, mentre dovevano aiutare particolarmente i comuni del Mezzogiorno e le popolazioni rurali, giovarono assai più ai più felici organismi amministrativi del nord, meglio preparati a servirsi dei concorsi dello Stato.
La guerra fece improvvisamente cessare ogni sterile discussione.
II.Dunque una questione meridionale fu ufficialmente riconosciuta. Ma in che cosa essa, in realtà, consiste, e che cosa ne resta ancora dopo settant'anni di vita nazionale, poco meno di mezzo secolo di regime parlamentare e un decennio di Regime fascista?
Noi oggi possiamo, per nostra fortuna, esaminare un problema sì fatto con animo più sereno e con più larghe esperienze, poiché dopo la grande guerra i pericoli del regionalismo sono cessati e l'unità nazionale non ha più nulla da temere. Gli antichi veleni municipali sono stati espulsi, e l'organismo della Nazione s'è fatto più giovine e più puro. La realtà non ci spaventa e non ci addolora, poiché un Popolo che dal sesto secolo ad oggi è balzato da forse sei a più di cinquanta milioni di individui ed ha dato al mondo tre civiltà universali può bene esaminare un suo particolare problema di ricchezza regionale, di fecondità terriera e di formazione di ceti sociali, senza profondi turbamenti e senza pregiudizio per la sua sanità morale. I tempi del regionalismo minghettiano sono lontani e remoti dalla nostra coscienza i tentativi compiuti, nei primissimi anni dopo la guerra, per alimentare una questione, che si potrebbe anche definire separatista!, in un Paese che, battendosi per la prima volta nella sua storia trenta volte secolare sotto gli stessi vessilli, era uscito moralmente e militarmente vittorioso dalla guerra europea.
Gli storici si disinteressarono lungamente del problema meridionale.
Narrarono, descrissero, colorirono, spesso con talento, il corso delle umane vicende entro i confini dell'antico Reame borbonico; studiarono più o meno acutamente l'età bizantina, l'età normanna, la dominazione sveva, angioina o aragonese, o, meglio, questi o quel sovrano, questo o quel gruppo di fatti e di personaggi; declamarono talvolta a favore di Federico II di Svevia e contro Giovanna I d'Angiò, parteggiarono per Alfonso d'Aragona e contro i Viceré spagnoli ma non si domandarono mai perché un vasto Paese che va dai monti abruzzesi alla Conca d'Oro, bagnato da tre mari, abbia potuto come straniarsi dal clima storico del resto d'Italia per tutto il basso medioevo e per tutta l'età moderna, fino al 1860, e come mai abbia avuto una sua costituzione politica e sociale, giuridica ed economica così diversa da quella di centri cittadini e di regioni finitime. I loro occhi videro una ridda di dominatore piovuti di Francia, di Germania, di Spagna, tutti intenti alle necessità della preda, videro formarsi e sfasciarsi lo Stato normanno, lo Stato svevo, lo Stato angioino, lo Stato aragonese, e crollare, all'alba del settecento, la dominazione spagnola, per lasciare il posto prima a Casa d'Austria e subito dopo a Carlo III Borbone, figlio di Elisabetta Farnese ...., ma non videro il Paese, cioè la terra e gli uomini su i quali il destino avventava i suoi periodici flagelli. Scrissero, insomma, di Napoli e di Puglia, di Lucania o di Sicilia con lo stesso animo col quale avrebbero scritto di Firenze o di Milano, ossia non assunsero mai i colori dell'ambiente, non sentirono la geografia, non rivissero il passato della loro gente. Per questo, il Reame è come un palcoscenico: vi passano e vi ripassano infinite comparse, che vi fanno un indescrivibile baccano, vi si notano qua e là cronisti affaccendati in cerca di notizie, ma non vi si vedono artisti e poeti e, quel ch'è peggio, nessuno par che si prenda cura del gran pubblico soffocato d'oggi e spesso urlante nell'ombra. Ed è strano poi che tutte le colpe possibili siano dei governi e che tutte le miserie di tutta una vasta regione debbano ricondursi a poche dozzine di Principi inetti o indegni, e che a circa 74 anni dalla morte di Ferdinando II, per esempio, si possa ancora parlare di Borboni avvelenatori della cos' detta anima popolare.Evidentemente, bisogna vedere qualcosaltro, perché se proprio tutta la vasta tragedia di un Popolo intelligente e generoso, dalla guerra servile di Spartaco al trionfo dell'Italia nuovissima,^ dovesse giudicarsi cosi sommariamente? il più nero pessimismo sarebbe giustificato e l'avvenire non avrebbe per noi neppure un raggio delle sue luci divine. Ecco perché alcuni anni fa io volli pormi una serie di problemi diversi relativi all'età angioina, e specialmente a quella prima metà del secolo XIV in cui sarebbe stata possibile, nell'accesa fantasia del Petrarca, l'unificazione dell'Italia, e, invece, fatalmente si giunse ad allontanarla per secoli ed a dividere sempre più nettamente il Mezzogiorno dal resto della Penisola, Negli anni che corrono dall'esilio di Dante all'avvento al trono di Napoli di Giovanna I (1302-1343), un concorso di eventi favorevoli non più verificatosi parve potesse condurre alla supremazia politica della monarchia angioina e alla formazione di uno Staro nazionale. Anzitutto, passati i primi anni della conquista, soffocati i germi delle piccole rivolte locali suscitate, come per esempio a Lucera, da elementi fedeli alla causa degli Svevi, diventato cronico il duello con gli Aragonesi di Sicilia e, quindi, non più minaccioso come fu e apparve tra il 1283 e la fine del secolo XIII, trasferitasi la Santa Sede ad Avignone (1305) e fattisi sempre più intimi i suoi rapporti con la Corte napoletana, specialmente durante il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334), così torbido e pur così fecondo di incitamenti e di aiuti per il “Re da sermone”, Napoli fu senza dubbio, per qualche decennio, il punto d'incrocio di correnti politiche che poi rapidamente deviarono e si dispersero. Il Re era imparentato con la Corte francese e con la Corte d'Ungheria; aveva propaggini familiari in Oriente e in Albania, possedeva la Provenza come dominio ereditario, con la stessa Avignone pontificia; aveva la Signoria di numerose città in Lombardia, in Piemonte, in Romagna, a Genova , a Firenze e in alcuni notevoli centri in tutta la Toscana; era Senatore di Roma e rappresentante della Chiesa, suo difensore e suo luogotenente in Italia; aveva potuto sfuggire alla minaccia di Arrigo VII ed a quella di Ludovico il Bavaro, senza scosse micidiali e quasi senza combattere; i poeti guelfi e il Petrarca, giovine e sognante Roma e l'Italia risorte, lo salutavano apertamente Re del bell'italo Regno; disorientate e deboli le prime Signorie, corrotti gli organismi comunali al nord come al centro d'Italia, incapaci di rinnovellarsi, condannati a sicura e prossima fine; non ancora potentissima Venezia e ancora in embrione le fortune sabaude; e, in tanto disordine e in tanta in stabilità di governi locali, il suo Stato aveva una tradizione monarchica di due secoli, una legislazione unitaria, un territorio relativamente vastissimo, con città marinare ricche di storia e non prive di audacie. Bari, Trani, Brindisi, Napoli, Salerno, Amalfi - memori di tempi migliori ed ancora capaci di non infeconde attività mercantili in tutto il Mediterraneo ... Perché non tentare la grande gloriosa avventura? Fu proprio ottusità spirituale inguaribile, debolezza mentale e amore di placidi sogni in vista del più bel mare d'Italia? Fu, come gli stessi contemporanei credettero, avarizia sordida e rapace, o tremore di piccola anima di fronte al sacrificio e allo sforzo che ogni grande avventura impone ed esige?
Impossibile. Firenze non ebbe “uomini di Stato” e condottieri, dalla morte della Contessa Matilde alla morte di Dante, in due secoli e poco più, eppure, come diceva rodendosi Bonifacio VIII, i fiorentini dovevano essere considerati come il quinto elemento nella costituzione dell'universo sensibile, oltre la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco! Dunque, o agivano oscure e formidabili forze, o il problema non offriva soluzione. Ma la soluzione c'era ed era nelle cose, vorrei dire quasi alla superficie delle cose. Intanto, era evidente - e i mercanti veneziani e toscani trafficanti nel Regno lo sapevano benissimo - che la linea del Tronto e del Garigliano divideva due mondi, e il gruppo del Gran Sasso e della Maiella era come a guardia di temibili confini. Di là all'estrema punta della terra di Lecce, per cinquecento chilometri, non fiumi, non laghi, non città numerose e ardenti, ma rapide e scarse fiumane senza freni e senza argini, e paludi mortifere e silenzi di boschi e di pascoli poveri, e pianure bruciate ora dal sole troppo cocente, ora dai venti gelidi del Gargano e di Lucania; borghi dispersi in solitudini vaste; capanne di pastori perdute come in un sogno triste; marine, che brillarono già di traffici e di opere, abbandonate e sonnolente; e poi i monti della vecchia Lucania e di Calabria, aridi e sfasciati, e ai loro piedi abituri solitari e pantani stagnanti in vista del Jonio, e coste a picco sul soleggiato Tirreno.
Napoli invece, e tutt'intorno a lei, sirena e regina, dalle pendici di Montecassino a Salerno, ad Avellino e a Benevento, altro spettacolo offriva: verdure di fertili piani e di brevi colline selvose, e genti numerose accolte in soleggiati municipi rurali, quasi senza ombra di castelli, se non là, verso Fondi e Gaeta, ove, stanca di lussuria, la vegetazione pareva si contraesse pensosa e sfinita e il latifondo tentava di riprendere l'impero perduto. Ecco la terra diis sacra, ecco in folla i ricordi di aborigeni, di elleni e di romani affacciarsi alla coscienza. È la grande oasi del Reame. Povertà, dunque, di suolo e di acqua, lavoratori tenacissimi, eroici, in perpetua lotta col clima, con la malaria, con la grande proprietà fondiaria, feudatari rissosi e ribelli, poveri e assai spesso predatori di conventi, di borghi, di mandre; assenza di ceti borghesi, di classi medie, di produttori e di mercanti, paragonabili alla borghesia fiorentina genovese, lombarda; assenza di vita “cittadina”, ossia di quel complesso di valori e di esperienze, di attività produttrici e mercantili di associazioni e di ceti che gli storici chiamano città: qua e là segni non dubbi di tentativi che si direbbero “comunali” nel significato più augusto di questo aggettivo completamente italico (in Terra di Bari, in Abruzzo, nella stessa Capitanata), ma subito troncati e soffocati dalla realtà geografica insopprimibile; segni e vestigio da per tutto, di un operoso sentimento artistico e di non so quale anelito ai problemi dello spirito; ma sono come i “tratturi” cari alle greggi di Abruzzo e di Puglia che scompaiono a primavera sotto l'erba profumata e ritornano presto aridi e polverosi.
I documenti che gli archivi italiani e stranieri mi offrirono furono molte migliaia; sicura apparve la diagnosi, ben definite le conseguenze, La naturale povertà del Paese non consentì la formazione di una borghesia capitalistica, ma rese possibile la persistenza del latifondo e l'abbandono delle classi agricole, il fiorire di un Baronaggio innumerevole ricco di privilegi ma povero anch'esso e tumultuoso, il moltiplicarsi senza limite di ordini ecclesiastici con patrimoni immobiliari estesissimi e spesso incolti e malarici; l'addensarsi in centri rurali - distanti diecine di chilometri l'uno dall'altro - di una plebe ingovernabile, sempre in lotta con i Vescovadi, con i Baroni, con lo Stato. Napoli stessa presentava agli attoniti occhi del Boccaccio e del Petrarca uno spettacolo indicibile; intorno alla Reggia, in un dedalo di viuzze oscure sotto il più bel sole d'Europa, una folla di plebei rumorosi, condannati quasi ad un perpetuo andare e venire senza meta e senza riposo, e case di Principi reali e di grandi dignitari dello Stato macchiate spesso di sangue ed ombrose di congiure. Il cantore di Laura, che vi era venuto per incoronare di gloria i suoi sogni di romana grandezza, ne fu come atterrito, e previde lutti infiniti appena il terzo Angioino fosse scomparso dalla scena del mondo.
Caduta la dinastia di Carlo I d'Angiò nella tragicommedia del Regno di Giovanna II, sempre alla ricerca di un erede ed impaurita dalle conseguenze della realtà (1435), il Reame non ebbe che occasionali fortune sotto la dominazione aragonese, anche quando il separatismo della Sicilia diventò un ricordo del passato. La Congiura dei Baroni, che scrollò la nuova Dinastia e le basi stesse del Regno, dimostrò che la monarchia aveva nemici occulti e palesi da per tutto e che non poteva contare su alcun reale concorso di volontà e di consensi, ma soltanto su quel che potessero valere le milizie mercenarie. Ma fu breve parentesi quella aragonese; nei primi decenni del 1500 il dominio spagnolo si saldò rapidamente dall'Abruzzo alla Sicilia e non rovinò che ai primi del settecento, nulla innovando, nulla potendo innovare, rapinando spesso come a stranieri si conveniva, ma conservando l'unità dell'antico Reame che probabilmente senza il governo della Spagna sarebbe andato in frantumi. La miseria fu grande, immensa la corruzione, vani i generosi sforzi di spiriti solitari, esemplare il processo e la condanna dì Tommaso Campanella, di cui non si seppe in verità mai qual reato avesse consumato. Si formò certo, nella capitale e in poche città di provincia - in Abruzzo, in Capitanata nella Terra di Bari, in Calabria - un embrione di borghesia, ma tutta proveniente dal ceto forense e dai grandi fittuari del beni delle mense vescovili, diapora isolata tra nobili innumerevoli ed infinita plebe rurale e cittadina, senza possibilità quindi, di esercitare, comunque, un influsso suo proprio sul Parlamento della cosa pubblica, ossia senza vita sociale e senza nome. Ciò che raccontano, per esempio, gli ambasciatori medicei a Napoli, a proposito delle carestie, del disordine di nobili e plebei, delle atrocità consumate nelle provincie da briganti e soldati è cosa raccapricciante: il ricordo riempirebbe molte pagine e di molta amarezza il cuore!
III.
Quando vennero i Borboni il Reame era da sei secoli in crisi. Il catasto, quindi, del 1743 parve una grande conquista dei tempi nuovi, e in realtà Carlo III volle veder chiaro nell'ordinamento della proprietà fondiaria e iniziare un'era di riforma. Ma riforma è una parola troppo spesso abusata e può non avere alcun significato se opere concrete e durature, ispirate alla natura dell'ambiente geografico e degli uomini, non si creano e non riescono a rompere la dolorosa monotonia della tradizione. Carlo III non ebbe il tempo per opere sì fatte, ed il figlio, Ferdinando IV, ebbe da pensare, quasi dall'infanzia alla vecchiaia, a problemi più urgenti e che più da vicino lo pungevano, la conservazione dello Stato, e non ebbe occhi che per guardare a Vienna. Così, quando la legislazione del decennio francese spolverò di modernità la struttura del Reame, il dissidio tra la monarchia borbonica ed il Mezzogiorno era già un fatto compiuto, e non sarebbe stato certo Ferdinando II (1830-1859) a comporlo e superarlo: pensoso e credente, incolto e superstizioso, debole e crudele bombardatore di Messina e biascicante giaculatorie mentre il 13 maggio 1848 si combatteva a qualche centinaio di metri dalla Reggia, fu sommerso nel disprezzo che Gladstone gli sollevò contro in tutta Europa. Lo scenario tarlato rovinava nel '60; l'esercito borbonico si liquefaceva, tra il maggio e l'ottobre di quell'anno dei portenti:, al calore che a vampate irresistibili veniva dal nord; Francesco II se ne andava prima a Gaeta, poi a Roma a piangere ai piedi di un Papa che nulla poteva fare per lui. L'unità era fatta, l'unità politica di un popolo che la geografia e la storia avevano per secoli diviso, ma non l'aveva fatta il Reame di Napoli, la più antica monarchia d'Italia. Mazzini poteva riprendere, solo e senza conforto, le grandi vie del mondo; Garibaldi poteva domandare ai silenzi di Caprera l'oblìo e la speranza; l'unità non sarebbe crollata mai più.Ma parve spesso che essa potesse crollare. Dal 1860 allo scoppio della guerra lo Stato liberale, come dicemmo, o non si pose il problema del Mezzogiorno o, quando ne ebbe qualche sentore, non potè e non seppe affrontarlo. Era un problema di distribuzione della terra, un problema di naturale povertà relativa, un problema di ceti borghesi formatisi di recente e senza forze bastevoli alla lotta economica, un problema, quindi, morale ossia di povera vita locale avvelenata da odii inestinguibili, senza industrie e senza grandi aziende mercantili, tutta poggiata su le risorse grame di una agricoltura arida e senza capitali, troppo gravata di imposta poco protetta e poco vigilata dal potere centrale, una vita di grossi centri rurali, senza suburbio e senza case coloniche, insidiata dalla malaria e dalla infezione municipale. Era anche, in Sicilia come nel Continente, un problema di autorità statale, sempre minacciata da quella sicurezza della impunità che fu in ogni tempo la rovina degli stati. È inutile invocare Machiavelli! Lo Stato apparve assai più sotto le spoglie dell'agente del fisco che sotto quelle del difensore dei diritti di tutti, e più specialmente della legge. Così i problemi dell'economia agraria si confusero con quelli della vita municipale, e la questione del Mezzogiorno parve insolubile. I capitali si allontanavano dalla terra, sitibonda insieme di oro e di pioggia, e i capitali morali si volatilizzavano. I partiti politici fecero il resto: un vocio assordante e implacabile, una zuffa cronica senza ideali, un volere e disvolere continuo, un andare e venire di piccoli uomini affaccendati su per le scale dei palazzi comunali, una complessa e varia sollecitazione di suffragi per il meno angusto palcoscenico di Montecitorio, un rotolare improvviso di improvvise reputazioni, un mormorio scandalistico sempre sensibile in tutte le piazze e le vie della metropoli e delle provincie, un vaneggiare di piccoli borghesi e di plebe dietro impossibili paradisi terrestri e fiammate di entusiasmi repentini e ceneri altrettanto repentine su i fuochi recenti.
In particolar modo, si diffuse non solo tra le grandi masse dei lavoratori della terra, ma negli stessi ceti medi dominanti, la illusione che si potesse spezzare il latifondo con leggi di eccezione e che tale operazione potesse largire un immediato benessere e non so quale rinascita; ma non si pensò che il latifondo, là dove persiste - ad eccezione, quindi, della Campania - non è artificiale creazione dell'inerzia umana o del malgoverno di questa o quella dominazione straniera o indigena ma formazione naturale e necessaria contro la quale sono possibili, senza dubbio, i rimedi della tecnica, e più particolarmente del capitale, ma non quelli della improvvisazione demagogica. Nessuno ricordò che quando, nel secolo XIV, proprio il poco amato Roberto d'Angiò volle tentare qualcosa come una divisione in piccoli lotti delle molte terre che il pio e crudele genitore aveva usurpate ai Saraceni di Lucera, vide sotto i suoi occhi attoniti ricostituirsi il latifondo; e nessuno si accorse di un'alta più vicina e altrettanto dolorosa realtà, che cioè la quotizzazione dei demani comunali dopo il 1865, nelle provincie ex-borboniche non aveva costituito un ceto di piccoli coltivatori diretti, ma era finita con l'abbandono di molte “quote” non desiderate da alcuno. In verità, il reddito unitario molto scarso e molto aleatorio non permise nel trecento, come non permise nell'ottocento, una divisione artificiale della grande proprietà fondiaria. Si sarebbe capito benissimo che si fosse discusso di capitali da catturare e da indirizzare verso la terra, di industrializzazione dell'agricoltura, di allevamenti razionali e di bonifiche, di sistemazioni montane, e simili ma di questi problemi non fu possibile utilmente discutere appunto perché i rètori amavano, come amarono sempre, le palingenesi nuovissime e sfuggivano ogni forma di organica discussione. Si dica poi che il senso comune sia comune tra gli uomini!
Ma i problemi antichi e recenti che costituivano la questione meridionale resta vario. Restava il problema del risanamento di zone soffocate ancora dalla malaria, restava il problema dei corsi d'acqua e dei monti spogliati e depredati, il problema dei capitali rifuggenti dalla terra oppure troppo cari a paragone del reddito terriero medio in un ambiente naturalmente non ricco, il problema della media produzione del frumento che, per esempio, era stata, negli anni 1909-1920, di circa quintali sette per ettaro (con un minimo di 4,9 per Chieti, 6,3 per Bari, 5,2 per Lecce, 5,3 per Salerno, 3,3 per Cosenza, 2,4 per Messina, di fronte ai 20 quintali della Valle Padana, ai 28 della Danimarca, ai 25 del Belgio; restava il problema del profondo squilibrio tra classi rurali e piccoli borghesi, troppo numerose quelle per una cultura estensiva e troppo scarse per una cultura intensiva, troppo impecuniosi gli altri da indursi ad una radicale trasformazione di metodi e di programmi; restava il problema dell'acqua, l'eterno problema di buona parte del Mezzogiorno, attenuabile con provvidenze tecniche ma non solubile per virtù di taumaturghi; restava, infine, il problema della strada, non sentito mai, ed il problema della sistemazione per dir così ambientale casalinga topografica delle classi rurali, in Puglia, in Lucania, in Calabria, in Abruzzo. E lasciamo nella penna il rilievo che codesti problemi di produzione, di traffici, di ricchezza altri ne alimentavano, di ordine morale, non meno gravi ed urgenti. Oltre a ciò, il Governo Nazionale si trova subito alle prese con le inevitabili difficoltà finanziarie che la lunga guerra e il non corrispondente coronamento della vittoria avevano determinato, difficoltà che non può bastare il lavoro di una generazione a superare nettamente. Tutto era da fare o da rifare, in un momento in cui i mezzi opportuni si assottigliavano. Dimenticare che una questione meridionale esisteva ancora e si era aggravata negli stessi anni nei quali si era fatta l'unità d'Italia non era possibile; affrontarla con provvedimenti occasionali e slegati sarebbe stato peggio che ignorarla. Non restava che procedere per gradi e per serie organiche di provvidenze, abbandonando il terreno delle antiche polemiche e delle antiche illusioni per restare su quello della realtà. Avevamo discusso molto; bisognava agire.
In secondo luogo, lo Stato ha cercato con ogni mezzo di creare le condizioni più favorevoli allo sviluppo della economia regionale. Gli immani lavori di bonifica, i lavori portuali, i lavori stradali, le profonde trasformazioni della edilizia cittadina - a Napoli, a Bari, in Calabria, in Capitanata, in Sicilia - hanno in realtà un significato che trascende l'ordinario significato che un tempo si dava alle due ben povere parole 'lavori pubblici'. Napoli è oggi una delle più belle città del mondo, e nessuno fa il conto di quel che sia costata la conquista di così complessi risultati raggiunti. Bari ha percorso in dieci anni un cammino che sembra inverosimile: la sua ardente attività in ogni campo, la sua fede in sé stessa, la organizzazione del suoi traffici, lo slancio improvviso della sua Fiera del Levante, la sua stessa topografia - e nella stessa città vecchia, fino a pochi anni fa così logora e povera - tutto è innovato, illuminato, purificato. L'acquedotto ha dato pietosamente da bere agli assetati. Tristi giorni della mia infanzia: ogni mattina le famiglie borghesi ricevevano la loro provvista d'acqua, tre o quattro barili (un ettolitro circa), che un povero asinello portava dalle vigne più o meno lontane! Ora zampillano le fontane e il sogno di tanti secoli è realizzato, anche per i piccoli e più poveri comuni dell'Appennino che non avevano mai potuto neppur discutere il cruccioso problema delle fognature. Esso è finalmente solubile, e sarà risoluto. Ancora un balzo in avanti e sarà vinta la malaria; cioè il più tremendo flagello che abbia mai tormentata tanta parte del Mezzogiorno. Gli ultimi visi pallidi, gialli, scompariranno a mano a mano che la bonifica procederà vittoriosa dalla marina di Termoli a quella della penisola Salentina, dalle vallate della Lucania al Tavoliere, da Sibari a S. Eufemia, là dove ancora impaludamenti morti ieri e stagni occlusi contendono la terra al lavoro e la salute al respiro degli uomini. Quando, tra cinque come tra dieci anni, la battaglia sarà vinta, sarà come se per la prima volta intere regioni popolate da genti infaticabili entrassero nella sfera luminosa della grande storia della più grande patria comune. Sono vissute per secoli nell'ombra; ne usciranno presto ringiovanite. La crisi generale dell'Europa e del mondo non potrà, è vero, non ritardare il coronamento della vasta opera redentrice, ma lo Stato non la dimenti, non la trascura, non si attarda a lagrimare su le cifre del bilancio, conscio di questa verità che non tutti gli Italiani hanno ancora meditato, che cioè se le presenti generazioni hanno fatta la guerra e la rivoluzione, con sacrifici inenarrabili, è giusto che i posteri, per tanto sangue che noi abbiamo versato, versino un po' di oro di quello che per i nostri sacrifici essi avranno accumulato. Noi consegneremo loro una Patria più grande e più temuta; essi pagheranno qualche miliardo del reddito che noi, e noi soltanto, avremo reso per essi più facile e più pingue.Accanto a conquiste di ordine economico una vi è di ordine morale che sicuramente le sovrasta tutte; ed è la restituita autorità dello Stato. Quel che si chiamò fenomeno della mafia e della camorra e, a seconda delle regione assunse nomi diversi e diverse manifestazioni, è ormai scomparso; ma non si creda che a determinare tale scomparsa sia stata soltanto la vasta opera di polizia che in un decennio non ha avuto tregua. Si tratta di un rimedio più profondo: si tratta di questo: che prima lo Stato era assente, spesso latitante agnostico e pigro, solo intento a numerare gli ordinari proventi delle imposte, mentre ora tutti hanno capito è sentito che c'è uno Stato, forte ed implacabile verso i violenti, i malversatori, i fuorilegge, benevolo verso gli umili, protettore del lavoro e di chi lavora, pronto a stroncare i tentativi oscuri della malavita dove per avventura si manifestino, intollerante di signorie locali, incompatibili ed impensabili in uno Stato fortemente unitario. A Napoli come a Palermo, a Bari come a Potenza, dall'Abruzzo alla marina di Reggio, in ogni ordine di cittadini è viva oggi ed operante la convinzione che lo Stato irradia da Roma autorità e volontà, ordini e benefici, e che l'età della decadenza post-borbonica è definitivamente tramontata. Il regionalismo è rimasto come insopprimibile fenomeno geografico, per cui l'Ofanto non è il Po, e la Calabria non è la Lombardia. L'ordine pubblico, ossia l'impero della legge, è assolutamente rispettato nelle forme e nello spirito, ed i detriti del passato sono stati sommersi in una sorta di generale lavacro. I meridionali avevano avuto lungamente la dolorosa sensazione di essere stati abbandonati dal potere centrale, di aver perduto quel poco che l'antica loro autonomia statale aveva consentito, e spesso, a ragione o a torto, si erano creduti come derubati e spogliati. Avevano avuto una capitale luminosa e popolosa a cui confluivano, d'ogni parte dello Stato, uomini di coltura, studenti, piccoli e grandi proprietari terrieri in cerca di fortuna o di qualche ora di gaudio e di abbandono, e si erano accorti poi che dal 1860 essa aveva perduto i suoi antichi segni di dominatrice per diventare una città di provincia non più ricca delle altre minori. I lavori pubblici languirono; i porti sonnecchiarono, diventati ospedali di navi invalide; l'emigrazione in grandi masse spopolò intere regioni, senza risparmiare la stessa Campania ubertosa e prolifica, i monti si denudarono, i pascoli non ebbero armenti, la produzione si immiserì da per tutto. Fu come una rovina immane a cui lo Stato assistette da spettatore annoiato.
Ora la scena è mutata. Non sarebbe, per esempio, oggi possibile una convenzione tra l'Italia e qualche Paese oltre oceano simile a quella del 1857 con cui Ferdinando II si impegnava a mandar coloni in Argentina; e non solo sarebbe intollerabile lo spettacolo di turbe miserabili affollate, in paziente attesa, su le banchine del porto di Napoli, anelanti ad abbandonare la Patria incapace di nutrirle, ma a Napoli come in tutti i centri cittadini e rurali del Mezzogiorno è scomparsa per sempre l'antica sensazione di abbandono da parte dello Stato, che anzi, lo Stato ha fatto per loro molto più di quanto abbia fatto per il resto d'Italia. Era necessario e doveroso; ed il Mezzogiorno si è accorto finalmente di far parte, e qual parte della patria comune, e di non essere più la riserva provvidenziale dei suffragi per i Ministeri pericolanti. Il passato recente morto, e nessuno ne rimpiange la memoria.
IV.Restano, invece, alcuni problemi - agrari, economici, sociali - che non potevano essere risoluti né in dieci anni né in venti, e che non permettono soluzioni definitive e tutte lietissime. Resta, anzitutto, l'antico problema della distribuzione della proprietà fondiaria, ossia, in parole più chiare e più semplici, il problema del latifondo; ma io credo che si sia formata a questo proposito una singolare leggenda e che anche oggi essa circoli liberamente per il Mezzogiorno come per il centro ed il nord d'Italia, che cioè latifondo significhi e debba significare povertà materiale e morale, malaria, prepotenza, abbandono. Ora, la realtà è un'altra. Il latifondo, noi lo abbiamo detto più sopra, è conseguenza di ben determinate cause e fattori di ordine geografico, geologico, climatico, e non può essere spezzato a colpi di leggi furibonde, così come non si violenta senza sanzione la natura che è quella che è, non quella che a noi piacerebbe che fosse. Ma ciò non vuol dire miseria. La miseria - se c'è - deriva dalla scarsità dei capitali destinati alla terra, dalla organizzazione tecnica della produzione, specialmente granaria, dagli sbocchi non sempre facili e preordinati, dalla malaria che non ha permesso nei secoli passati e non permette ancora oggi in alcune zone, lo stabilirsi di folti gruppi di famiglie coloniche in campagna, liberandone i grossi centri rurali che ne sono come soffocati. L'azione dello Stato, necessariamente lenta e metodica, può modificare l'ambiente geografico, ma non può annullarne le caratteristiche essenziali; può, sopratutto, concorrere energicamente a quella industrializzazione dell'agricoltura che fino a pochi anni fa parve una espressione vuota di significato o esclusivamente teoretica e scientifica. Invece, essa è limpida manifestazione di limpidi concetti.
Se (ed a questo tende la battaglia del grano) noi riusciamo a convogliare verso la terra il capitale necessario, spesso errabondo per le oscure vie della speculazione; se l'uso dei fertilizzanti razionale e continuo attenuerà le conseguenze della naturale aridità del suolo e ne compenserà le deficienze organiche; se non distruggeremo i pascoli saldi e rimboschiremo i monti e le colline onde trarremo alimento per le greggi che furono, già all'alba del secolo XIX, la sola vera ricchezza del nostri avi, e mitigheremo così anche il rigore degli inverni ventosi e delle estati arroventate; se, insomma, il latifondo sarà considerato come una grande e sonante officina dai molti reparti egualmente attrezzati e redditizi, e la coltura granaria si alternerà con la vite e l'olivo, il pascolo e le industrie che i prodotti della terra e del bestiame alimentano e fanno prospere e liete; se la borghesia terriera, abbandonate le facili ed ingannevoli illusioni che l'hanno allucinata e traviata così spesso e così dolorosamente, si renderà conto che la redenzione e la fecondazione di regioni senza dubbio non ricche è opera di saggezza risparmiatrice oltre che opera di alta e nobile poesia, ed utilizzerà i provvedimenti dello Stato con quel senso della realtà e quella intelligente interpretazione che creò il benessere dei coloni romani dei tempi di Augusto ed ispirò la musa di Virgilio, resti pure il latifondo fino a che naturalmente l'accresciuta fecondità e il reddito unitario migliorato l'avranno reso impossibile.Resta:, inoltre, un problema che è intimamente connesso con quello della persistenza del latifondo, cioè il problema dell'acqua e, quindi della impossibilità, finora, di più razionali aggruppamenti umani in tanta parte del Mezzogiorno, specialmente nella Capitanata, nella Lucania, nella Calabria e nell'interno della Sicilia. Noi sappiamo bene che la media delle pioggie e la loro distribuzione stagionale è, in molta parte dell’antico Reame, quasi uguale alla media delle regioni nord-africane e quasi simile alla distribuzione della nostra colonia libica; sappiamo anche che in alcune zone, in Puglia e nella Lucania, come in alcune dell'interno della Sicilia, la costituzione geologica del suolo non consente di sognare vasti sogni dionisiaci, ma sappiamo anche che in altre e non più modeste zone è possibile una razionale utilizzazione delle acque freatiche, in genere, e che è quindi possibile un rifiorimento agricolo anche là dove le parvenze esteriori dell'ambiente geografico sembrino condannare l'umanità ad un lavoro senza conforto. Non è detto che non si possa fare da noi quel che hanno fatto i coloni algerini ed i lavoratori italiani in Tunisia, aiutati dal capitale francese. Non avremo i trenta quintali di frumento, per ettaro, del territorio cremonese e ferrarese, ma se spingeremo la produzione verso una media di venti quintali, assicurata, il problema potrà dirsi risoluto e non avremo più bisogno del grano russo, americano ed australiano se non in casi eccezionali. Quel giorno l'aspetto del Paese sarà assolutamente diverso; i centri di 40-60 mila abitanti costituiti per la enorme maggioranza di braccianti che ogni mattina in cui si possa lavorare sciamano verso i campi lontani, e ritornano a sera a casa, non saranno più tollerati dallo sviluppo della produzione, e quel che oggi sono le “masserie” del Tavoliere - grandi aziende condotte come si può, con immensa fatica e rischio immenso, dall'età sveva in poi - potranno ben costituire i nuovi centri vitali della rinascita agricola di tanta parte della Penisola. Le industrie verranno da sé, e saranno quelle stesse che la ringiovanita fecondità della terra avrà determinate o facilitate. Non avremo, certo, nel territorio leccese o in quello lucano le officine del Biellese o del Milanese, ma non sarà, questa, una sventura perché nulla vi è di più esiziale alla economia di una grande nazione che la tendenza nei ceti produttori a generalizzare certe forme di attività in ambienti storicamente e geograficamente diversi Le industrie più salde sono, invece, quelle che hanno materie prime e lavoro, capitali e sbocchi vicini e adatti, una fisionomia, insomma, tutta propria ed inconfondibile, un colore ed un calore particolare, così come tutte le regioni hanno una lor luce particolare e quasi un loro modo di intendere e di vivere la vita.
Bisogna, in terzo luogo, meditare molto intensamente su quelle che sono le possibilità geografiche del Mezzogiorno; e la meditazione, consigliata e resa possibile da un regime vigoroso e fortemente unitario, è un dovere precipuo di tutti i meridionali. Dal Trento a S. Maria di Leuca l'ex Reame borbonico guarda l'opposta sponda adriatica ed il Gargano, nella sua profumata solitudine, è come la sentinella insonne verso Paesi che furono un tempo, sotto Federico II di Svevia e gli Angioini, intimamente legati al nostro destino. Da Taranto a Reggio quelle che furono fra le più colte e attive genti italiche, mentre l'astro di Roma risaliva il suo fatale orizzonte, guardano all'Oriente ellenico e fenicio donde vennero avventurieri mercanti, pensatori e soldati, e verso il quale par che debba naturalmente correre il pensiero dei tardi nipoti. Dalle coste sicule, da quelle che furono le marine e le coste fiorite care alla leggenda omerica e poi, con tanto barbarico furore desiderate ed oppresse da Saraceni d'ogni famiglia, da Normanni e Svevi e Angioini e Aragonesi, noi guardiamo l'Africa romana, quella che dette imperatori e santi a Roma e al Cristianesimo; Settimio Severo ed Agostino, e che, nella leggenda romana, resta come il naturale limite estremo della più forte stirpe mediterranea, la terra vinta e soggiogata dai nipoti di Enea, da questi rincivilita, dopo il silenzio dei secoli morti. Ora, non c'è bisogno di sognare conquiste militari che ricostituiscano l'Impero Romano e faccia di quante genti abitino la Balcania, l'Illirico, le antiche regioni della Tracia e della Dacia, l'Alemagna e l'Elvezia, la Gallia e l'Iberia, uno Stato solo, per guardare con confidenza all'avvenire. Basta, invece pensare che il Mezzogiorno è naturalmente rivolto verso la Balcania, l'Egeo, il mar di Siria e l'Africa e che i mercati bisogna conquistarseli là dove è possibile conquistarli, dove ci guidano le nostre tradizioni e la nostra produzione può essere avviata. La Fiera del Levante quindi, è come un immenso riflettore che da Castel del Monte scruti le vie del Mediterraneo orientale; e la Libia serve a dare alla Sicilia la sensazione di non essere del mito abbandonata sul dorso del suo mare. Lo Stato presidia le vie dell'avvenire ma è il Paese che deve batterle con coraggio e fiducia; lo Stato slarga gli orizzonti della vita nazionale, ma è il Paese che deve raggiungerne la linea lontana.
Per questo, il Mezzogiorno ha un suo problema particolare da risolvere, un problema sociale che risale alle origini stesse della sua borghesia terriera, ed ha una domanda ancora da rivolgere allo Stato. La domanda è che, appena sarà possibile, il sistema tributario diventi più mite e consenta alla proprietà fondiaria di compiere gli studi necessari alla trasformazione che ne salderà la struttura e ne accrescerà la fecondità, inviti e premi i capitali indispensabili e ne regoli meglio la distribuzione, impedisca, in altre parole, che i capitali rifuggano dagli investimenti agrari e si volgano a meno controllate attività. Il decennio fascista non poteva, nel progressivo addensarsi della situazione internazionale, alleggerire il peso tributario; nello stesso tempo, promuovere e condurre direttamente così gravi battaglie per creare le condizioni necessarie allo sviluppo economico del Paese; ma la terra, e in particolar modo la terra povera, paga ancor troppo, e giustizia vuole che, appena un po' di luce spunti sull'orizzonte europeo e la crisi funesta accenni a decrescere, il problema tributario prenda il primo posto nella coscienza della nazione. Oltre tutto, è anche un problema di costi quello che l'agricoltura meridionale deve risolvere, e la soluzione può essere raggiunta solo se tutti gli elementi del costo siano equamente controllati. In attesa che ciò sia possibile, una questione può essere discussa, di altro ordine ma di non minore importanza.
Da oltre un secolo, ma più specialmente dagli anni che immediatamente seguirono l'unificazione d'Italia, l'esodo della borghesia meridionale dall'agricoltura verso i pubblici impieghi e le professioni liberali è stato veramente gigantesco di proporzioni e di significato. Non intendo qui esaminare il vasto fenomeno, che il discorso porterebbe lontano, ma basta notare il fatto che le grandi famiglie terriere si sono a mano a mano trasformate ed assottigliate fino a disperdersi completamente in cento altri campi, tutti remoti da quelli su i quali i padri e gli avi colsero le loro sudate vittorie. Si è quindi verificata una specie dì selezione a rovescio: alla diretta conduzione delle grandi e delle modeste aziende, in buona parte del Mezzogiorno, si è andato sostituendo il fitto, ed esso stesso in casi numerosi è stato assunto da piccoli risparmiatori con molto scarse disponibilità di capitali e sommaria preparazione tecnica, così che si può avere la impressione - almeno da chi non sia in grado di condurre uno studio accurato su tutti gli clementi della questione - che pigramente e senza utilità sociale viva ancor oggi tutta una vasta categoria sociale, ossia quella dei più cospicui proprietari terrieri. Certo, una questione sì fatta non è senza remote radici e non è una di quelle che gli osservatori superficiali sogliono sempre mettere al passivo delle classi fondiarie meridionali, ma è anche certo che essa esiste e presenta caratteri evidentemente inquietanti. Insomma, la bella tradizione delle vecchie famiglie pugliesi, lucane, siciliane, secondo la quale almeno uno o due dei loro migliori e maggiori si dedicavano per tutta la vita all'agricoltura, è quasi scomparsa; né pare che i giovani siano spiritualmente disposti a rinnovellarla. A condurre le aziende agrarie sono rimasti in pochi, tra i proprietario ed essi stessi o appartengono alle generazioni non più giovani o a quelli che non sono riusciti (e le famiglie ne portano tutto il rammarico) ad avviarsi verso le libere professioni o verso il pubblico impiego. Le Università e gli Istituti Superiori sono sempre affollatissimi, nel Mezzogiorno, e la crisi derivante da questo affollamento è connessa, in un cerco senso, con la più vasta crisi delle classi medie meridionali; ma a noi preme mettere in rilievo il fatto perché i lettori ne abbiano chiari e concreti i lineamenti.Il Mezzogiorno, dunque, ha percorso in un decennio un lungo cammino ed ha senza dubbio guadagnato molto del tempo perduto. Ciò che resta di quella che fu la questione meridionale è in realtà soltanto la diversa struttura economica della vasta regione di fronte al resto d'Italia, ma evidentemente questa diversità non è più una “questione”, poiché tutte le grandi nazioni del mondo hanno di sì fatte diversità di ambiente senza che abbiano, per questo, una questione esiziale all'unità morale e politica dello Stato. Se così fosse, la Germania e la Francia, per esempio, avrebbero anch'essi una “questione meridionale” non meno aspra della nostra e non meno irta di difficoltà. Basta non pretendere l'assurdo perché anche i residui dell'antico problema siano assorbiti dall'intensa vita naturale, basta non violentare le leggi della natura e tener conto dì questa verità, spesso dimenticata, che cioè la saggezza non consiste già nel proposito di ridurre tutte le regioni di un grande Paese, geograficamente diverso, ad un tipo unico, standardizzato, ma nell'armonizzare le differenze e, se vi sono, i contrari, nell'integrare le deficienze regionali con eccedenze altrettanto regionali, con storni, per dir così, di bilancio, perché c'è una solidarietà nazionale nella felicità come nel dolore, nel campo dell'economia come in quello dello spirito. Per questo, era necessaria una vasta ed intima trasformazione nella compagine e nella funzione dello Stato; per questo, due rivoluzioni hanno create le condizioni indispensabili alla soluzione del problema meridionale: quella del 1860 che seppellì l'antico regime e creò l'unità della patria; quella del 1922 che, fortificando lo Stato e purificandolo d'ogni resto di regionalismo, ha arrestata la decadenza del Mezzogiorno ed ha posto per la prima volta l'antico problema in termini che non sono più in antitesi con i più generali problemi della resurrezione, anche economica, d'Italia, ma si fondono con questi senza grossolane suture arbitrarie. Credo, quindi, che l'avvenire sarà più luminoso del passato, ma credo anche che soltanto la meditazione del passato e l'esame attento del presente potranno preparare l'avvenire.
Romolo Caggese
1933 - Quel che resta della Questione meridionale
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