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Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli editore Roma 1993
6. Di nuovo la “questione meridionale”.
b_390_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_come_eravamo_13256091_1008335935910759_8208074659782278056_n.jpgA meta degli anni settanta, per effetto soprattutto degli alti prezzi del petrolio causati dalla guerra arabo-israeliana del 1973, si avviò una congiuntura economica decisamente sfavorevole per il mondo industrializzato. Una inflazione di notevoli proporzioni investì allora anche la nostra economia, chiamata nel frattempo a nuove sfide dalla competizione internazionale. Si aprì dunque in quegli anni una fase di rallentamento, fra alti e bassi, dell’economia industriale italiana nel suo complesso, destinata a durare sino al 1984, che ha ovviamente avuto effetti profondi sulle strutture produttive dell’Italia meridionale. Soprattutto agli inizi degli anni ottanta, una grave crisi ha investito la grande industria meridionale legata ai settori chimici, farmaceutici, delle produzioni meccaniche e dei trasporti, aprendo la strada a un fenomeno di disoccupazione crescente che ancora oggi risulta elevatissimo.
Ebbene, se tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta nell’Italia del Nord si è andato realizzando un profondo processo di ristrutturazione, con grandi investimenti di capitali, tesi a sostituire classe operaia con nuove macchine, non si sono avuti segni apprezzabili di un processo analogo nell’Italia meridionale. E’ vero tuttavia che nel frattempo, anche in alcune aree del Mezzogiorno, soprattutto nel corso degli anni ottanta, si son venute profilando alcune novità nella geografia industriale. Lungo la fascia adriatica, in zone dell’Abruzzo (Pescarese) e della Puglia (Bari, provincia di Lecce), più debolmente lungo la fascia tirrenica (provincia di Caserta, ecc.) è venuta sorgendo una promettente concentrazione e diffusione di piccole e medie industrie. Una trasformazione interna al Mezzogiorno è indubbiamente in atto da tempo, e comporta, fra l’altro, anche il declino di alcune aree e centri a vantaggio di altri. Napoli ha conosciuto un processo esteso e crescente di deindustrializzazione. Città come Catania, ad esempio, detta un tempo la “Milano del Sud”, o come Palermo, perdono continuamente terreno sul piano della crescita economica, così come le province calabresi, ormai relegate agli ultimi posti nella graduatoria del reddito pro capite e degli altri indici economici. Al tempo stesso, città e poli come quello di Pescara, Chieti, Teramo e l’Aquila raggiungono i primi posti della classifica economica meridionale, venendo quasi a configurare un “Nord” del Mezzogiorno, sempre più simile alle aree dell’Italia centrale e sempre più lontano dal “Sud” calabrese e, in parte, siciliano.
Per l’interpretazione dell’ascesa economica della fascia adriatica le ipotesi, ovviamente, sono diverse.
Si tratta di una penetrazione del modello di industrializzazione della “terza Italia”, che va diffondendosi verso Sud, o queste attività produttive non hanno vita autonoma, sono solo proiezioni delle grandi case-madri dell’Italia del Nord? Su questo punto fra economisti e studiosi la discussione è ancora aperta. Ma è indubbio che nuove “polarità economiche”, come del resto già in passato, si vengono creando all’interno dello stesso Mezzogiorno, con zone ormai ricche che godono di un reddito pro capite non inferiore a quello di buona parte delle altre aree del paese. L’Abruzzo, ad esempio, che nel frattempo ha conosciuto una crescita economica per molti aspetti sorprendente, non potrà più godere della legislazione speciale per il Mezzogiorno e in un certo senso esce fuori dal quadro delle regioni meridionali.

Dal Telèro di Carlo Levi
Dal Telèro di Carlo Levi
Tuttavia, nel corso degli anni ottanta, man mano che l’industria del Nord riprendeva ritmi sostenuti di crescita, nuovi e gravi segni di divario si manifestavano tra le due grandi sezioni del paese. Tra il 1983 e il 1987 il prodotto interno lordo pro capite, che aveva raggiunto il 60% di quello medio del Centro-Nord, è calato al 57”% (cioè a livelli che sfiorano la situazione degli anni cinquanta). Naturalmente, gli arretramenti non si presentavano uniformi e cambiavano da regione a regione: l’Abruzzo e la Puglia, ad esempio, erano appena toccate dal fenomeno. Tuttavia apparivano sicuramente gravi altri importanti dati economici generali: per la prima volta in questo secondo dopoguerra, nel 1987 la quota dei disoccupati meridionali superava la soglia del 50% della disoccupazione nazionale. All’inizio del decennio novanta la percentuale dei disoccupati costituisce il 21% delle forze di lavoro occupate nel Mezzogiorno, mentre nel Centro-Nord essa è del 7%. Si tratta di cifre che certo non vanno prese alla lettera. Spesso ai numeri della disoccupazione corrispondono realtà concrete di lavori precari, forme diverse di impiego e di sottoccupazione. Ma esse sono pur tuttavia rivelatrici di un fenomeno di tendenza: nelle regioni del Centro-Nord del paese, la grave disoccupazione industriale, prodotta sia dalla crisi economica che dalla massiccia introduzione di macchine sostitutive del lavoro umano (rivoluzione informatica) è stata notevolmente assorbita; nel Mezzogiorno no.
Che cosa è dunque accaduto? Come interpretare una simile caduta, dopo quarant’anni di politica straordinaria volta a cancellare il divario storico fra le due grandi aree del paese? Si è di nuovo rimesso in moto il vecchio meccanismo “dualistico”, per cui ad un salto in avanti del Nord corrisponde un accrescimento del divario col Sud? Anche su tali problemi, soprattutto fra gli economisti, la discussione è tuttora aperta e lo storico fa bene a coltivare la virtù della prudenza.
Si può ad ogni modo constatare che in tale fase si e venuto realizzando un sensibile mutamento nella quantità e nella qualità dell’impegno che lo stato aveva dispiegato fino a meta degli anni settanta in favore del Mezzogiorno. Nella prima metà del decennio ottanta, per esempio, i contributi ai settori produttivi meridionali (agricoltura, industria, servizi) si son venuti riducendo a meno della meta di quelli effettuati annualmente fra il 1975 e il 1979, che pure non hanno rappresentato una fase di intensi investimenti al Sud. Nell’ultimo biennio 1988-89 - succeduto a una serie di innovazioni legislative che fra il 1983 e il 1986 hanno portato alla liquidazione della Cassa per il Mezzogiorno e al faticoso approntamento di nuovi strumenti di intervento - benché in presenza di una discreta ripresa dell’economia meridionale (anche questa oggetto di discussioni e controversie), la spesa per incentivi all’insieme del sistema produttivo meridionale è stata inferiore di circa mille miliardi rispetto a dieci anni prima: una diminuzione di oltre il 21%. Nel frattempo, tuttavia, si verificava anche un mutamento nella qualità degli investimenti. Sempre più, infatti, l’intervento pubblico, anziché concentrare il proprio sostegno finanziario verso le imprese e gli investimenti produttivi, ha finito col privilegiare l’assistenza alle famiglie, ai privati, ai vari gruppi sociali. In una parola il denaro pubblico destinato al Sud, prima concentrato prevalentemente a sostenere la crescita dell’economia,nell’ultimo decennio viene sempre più largamente utilizzato dallo stato e soprattutto dai governi regionali a favore di una miriade disordinata di iniziative economiche e imprenditoriali, e al tempo stesso per erogare, attraverso pensioni, indennità, integrazioni ecc., forme sempre più estese di assistenza sociale.
Dal Telèro di Carlo Levi
Dal Telèro di Carlo Levi
Ciò che tuttavia occorre precisare e che se la “forbice” del divario è tornata a riaprirsi, questo non significa affatto che nell’ultimo quindicennio l’economia e la società meridionale sono in assoluto, e sotto tutti gli aspetti, tornate indietro. Alcuni indici mostrano caso mai il contrario. Il livello dei consumi familiari, ad esempio, si è andato senza alcun dubbio accrescendo: anche se questo non costituisce necessariamente e di per sé un segno di vitalità e di autonomia economica. Ma non è certo senza significato il fatto che, per esempio, in Sardegna le famiglie consumino in media 25.600.000 lire l’anno, più di quanto non si consumi nel Lazio (25.000.000) e poco meno di quanto non venga consumato in Toscana (26.400.000 lire). Allo stesso modo e più che indicativo il livello dei consumi familiari in Abruzzo, 24.400.000 lire annue, più dell’Umbria (22.700.000 lire) e più della Valle d’Aosta (23.300.000 lire), poco meno della Liguria (25.300.000 lire). Gli elementi fondamentali del benessere sono dunque largamente penetrati anche nel Mezzogiorno, sebbene in forme forse più squilibrate che altrove. Ne costituisce d’altronde una conferma un dato assai significativo: nel 1979-83 la vita media degli individui maschi nell’Italia meridionale era di 71,7 anni contro i 70,2 del Nord e i 72,1 del Centro. Mentre le donne vantavano una media di vita di 77 anni contro i 77,9 del Nord e i 78,7 del Centro.
Quello che oggi la realtà dell’Italia meridionale ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica italiana, e dunque rinnova i termini della questione meridionale, non è tuttavia soltanto la ricomparsa del divario attraverso le grandi cifre dell’economia. Benché dotati di redditi mediamente meno elevati di quelli del resto del paese, le popolazioni meridionali fanno pur parte di una nazione industriale, ricca ed evoluta di cui condividono pienamente oneri e vantaggi.
Non bisogna d’altra parte dimenticare che i termini Mezzogiorno o popolazioni meridionali sono solo concetti, certo utili ma astratti, che rinviano a una realtà sociale molto articolata e stratificata. Come altrove, anche nel Mezzogiorno esistono le classi sociali in tutte le varie sfumature, i ricchi e i ricchissimi e anche i poveri. Certo, i poveri non sono oggi i disperati di quarant’anni fa, essi vivono pur sempre in una società avanzata, dotata di molti elementi di sostegno e assistenza. Sebbene la loro condizione di marginalità, segnata spesso dalla solitudine oltre che dalla miseria, non sia per questo meno dolorosa. E ad ogni modo l’Italia meridionale partecipa pienamente ai gravi e ingiusti squilibri che caratterizzano oggi la distribuzione della ricchezza in Italia come in tanta parte del mondo industrializzato.
Dal Telèro di Carlo Levi
Dal Telèro di Carlo Levi
Ciò che tuttavia fa del Mezzogiorno d’oggi una acuta e per tanti aspetti drammatica questione nazionale è altro: sono le condizioni della sua vita civile. Vale a dire lo stato dei servizi e della pubblica amministrazione, il sistema politico e la diffusione allarmante della criminalità organizzata.
Benché si tratti, per alcuni aspetti, di fenomeni che riguardano l’intero paese, essi trovano tuttavia nell’Italia meridionale una manifestazione del tutto particolare. Qui, tutti i servizi collettivi sono in genere, salvo qualche eccezione, i peggiori d’Italia: dagli ospedali alla disponibilità e qualità dell’acqua potabile, dalle strutture scolastiche alle dotazioni per la ricerca scientifica, dai telefoni ai trasporti ferroviari. Viene inevitabilmente da chiedersi: perché ad esempio, nel 1988, la Calabria era dotata di soli 4,5 posti-letto ogni mille abitanti in istituti di cura pubblici, la Campania addirittura di 3,5 e la Lombardia invece di 6,3, l’Emilia di 7, la Liguria di 8,2? Per quale ragione nell’anno scolastico 1988-89 gli alunni di scuola media obbligati a frequentare un secondo e terzo turno, per carenza di aule, erano 19 ogni mille in Sicilia, oltre 42 in Campania, 51,7 in Sardegna, mentre il fenomeno era pressoché inesistente nel resto d’Italia? Che cosa può giustificare e spiegare il fatto che alla stessa data gli investimenti in ricerca scientifica nell’Italia meridionale costituivano solo il 18% del totale nazionale? Quale interpretazione fornire del fatto che i chilometri di ferrovia (analogamente per la verità a quanto succede nel resto del paese) sono oggi inferiori a quelli del 1938, vale a dire 7.958 contro gli 8.871 di cinquant’anni fa? Ma con l’aggravante che nel Sud quasi il 70% della rete non è elettrificata e solo 976 chilometri dei duemila elettrificati sono a doppio binario.
Di sicuro una risposta si trova anche nel fatto che le spese straordinarie dello stato - quelle cioè previste dalla legislazione a favore del Mezzogiorno inaugurate nel 1950 con la creazione della Cassa - non si sono aggiunte a quelle ordinarie che lo stato finanzia in tutto il paese (come la legge originariamente prevedeva) ma si sono progressivamente sostituite ad esse. Sicché le regioni economicamente più deboli, e che dovevano ricevere un sostegno supplementare dalla mano pubblica, hanno in realtà - soprattutto negli ultimi quindici-venti anni - ricevuto di meno. Un’indagine condotta nel 1988 mostra ad esempio che dei pagamenti effettuati dallo stato solo il 25,6% del totale è stato ripartito a favore del Mezzogiorno, mentre al resto del paese è andato il 61% (con una quota residuale non ripartibile di circa il 13,4%). In realtà le regioni del Mezzogiorno hanno qualche vantaggio relativo perché pagano meno tasse, ma tutto questo - effetto peraltro del più basso reddito meridionale - non mitiga, ma aggrava (come vedremo in seguito) gli effetti negativi prodotti da un finanziamento pubblico limitato e scarsamente orientato al sostegno di iniziative di sviluppo produttivo.
Tali disparità, che incidono profondamente sulle possibilità della crescita economica e sul tono della vita civile, si spiegano anche per altri versi con la debole capacità di iniziativa del ceto politico e amministrativo meridionale (anche di governo). Ma per tanti aspetti essa costituisce, ancora oggi, l’esito di una politica ordinaria dello stato che, evidentemente, non distribuisce equamente le proprie spese e i propri investimenti sul territorio nazionale. Sicché, com’è sempre accaduto - con diversa intensità e misura nel lontano passato e nei decenni recenti - la politica di intervento straordinario finisce col servire in larga parte ad attenuare i risultati di una linea statale generale, che produce continuamente svantaggi relativi per l’Italia meridionale.

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