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L'Astrolabio n. 25 del 1980
Mezzogiorno: il terremoto come effetto moltiplicatore di una secolare crisi. Due fallimenti nazionali: la politica del territorio e la difesa civile. “L'operazione sfiducia” è innescata dalla stessa classe di governo, incapace dì legiferare, impotente di fronte alla catastrofe.
La grande sfiducia
di Orazio Barrese

Paesaggio del Lombardo-Veneto preso dal libra La grande illustrazione ...
Paesaggio del Lombardo-Veneto preso dal libra La grande illustrazione ...
Nessuno avrebbe potuto immaginare un così massiccio rifiuto. Appariva impensabile che i sopravvissuti del terremoto volessero restare in un inferno di macerie e di gelo, mettendo a repentaglio la propria esistenza. È accaduto, invece, e il fallimento del “piano S” è stato così dirompente che alcuni hanno sposato l'ideologia delle pie dame dell' “esercito della salvezza”: decisione e “ordine”. Addirittura Giorgio Bocca ha sostenuto che “qualcuno dovrà pur trovare il modo di imporre gli esodi, i cambiamenti, le discipline necessarie”.
Se questa dovesse essere la scelta, le conseguenze sarebbero imprevedibili. Il Mezzogiorno ha lunghi periodi di rassegnazione, e lo dimostra il fatto che le popolazioni terremotate, già prima del sisma le più disastrate del paese, hanno costituito un ampio serbatoio di voti per i monarchici e per la Dc, per i responsabili cioè di una politica che pone Avellino all'ultimo posto tra le province italiane, nella graduatoria del reddito pro-capite. Ma a lunghi periodi di rassegnazione fanno da contrappunto improvvise rivolte e non è ancora spenta nella memoria l'epopea del brigantaggio contro la truffa del plebiscito e del processo unitario e contro le truppe piemontesi che volevano instaurare il “loro” ordine.
Si favoleggia ancora dei briganti La Gala di Avellino, Sacchettiello dell'Alta Irpinia, Schiavone del Beneventano, per non parlare di Carmine Crocco e Ninco Nanco, e delle insurrezioni di Sant'Angelo dei Lombardi, Montemiletto, Sora, Venafro, Atella, Rionero e di tanti e tanti altri comuni. E si ha piena coscienza che quell'enorme sollevazione, nonostante fosse stata alimentata dai Borboni e dal papato, e poi da essi tradita, fu la prima rivolta anticapitalistica e anticolonialìstica dell'Italia post unitaria.
Ma fu anche lotta per il mantenimento di un'identità che oggi, a distanza di 120 anni, il “piano S” potrebbe annullare per sempre, al di là delle intenzioni di Zamberletti e dei suoi collaboratori. Almeno questa è la preoccupazione dei terremotati che hanno appreso a non avere fiducia nello Stato unitario, in quello Stato cioè che applicò le leggi sul macinato, spogliò boschi e montagne in un'operazione di rapina colonialistica, condannò il Mezzogiorno all'emarginazione. Scriveva Nitti che l'Italia meridionale al momento dell'unificazione, “aveva tutti gli elementi per trasformarsi”, in quanto possedeva “un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo”. Del resto, quale che sia il giudizio che si voglia dare dei Borboni “non bisogna dimenticare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi, che la loro finanza era buona e, in generale, onesta”.
Da allora cos'è stato del Sud, come ha operato lo Stato unitario? Fu unificato il debito pubblico, che significava in realtà unificazione del pesante debito pubblico del Nord col credito pubblico del Mezzogiorno. Nei suoi Scritti sulla questione meridionale, Nitti si occupa del bilancio dello Stato e della politica fiscale. Nei cinque esercizi finanziari che vanno dal 1893-94 al 1897-98 la contribuzione media per abitante era a Torino di 47,66 lire, ma le spese dello Stato eseguite dalla tesoreria provinciale ammontavano a 55,52 lire; a Genova di fronte a una contribuzione di 55,69 lire la spesa statale era di 74,84; a Milano rispettivamente 70,44 e 77,41. Quindi il regno restituiva di più di quanto non percepisse. Totalmente rovesciata la situazione nel Mezzogiorno: ad Avellino di fronte a 19,17 lire di contribuzione le spese statali ammontavano a 7,21; a Benevento rispettivamente 19,36 e 11,56; a Potenza 18,55 e 8,77; a Campobasso 25,52 e 11,57 e via rapinando. Fu in tal modo che si rafforzò l'industria del Nord e si condannò il Mezzogiorno. Quali ragioni di fiducia debbono, allora avere i terremotati?
Ma, senza andare tanto indietro nel tempo, cosa ha fatto la Cassa per il Mezzogiorno?
Paesaggio del Lombardo-Veneto preso dal libra La grande illustrazione ...
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Addirittura nel 1951 Avellino era al terzultimo posto nella graduatoria del reddito pro-capite ed oggi è all'ultimo. Non c'è molta differenza, certo, ma c'è la riprova di come è stato gestito il paese e del tipo di impegno dispiegato dal potere, che pure qui ha avuto l'ampio sostegno di chi è stato condannato a vivere di rimesse di emigranti, di pensioni sociali e di pensioni di invalidità: un reddito per abitante che è all'incirca la metà di quello medio nazionale e un terzo di quello medio milanese.
La sfiducia atavica, del resto, è stata rafforzata da quanto è accaduto nei giorni successivi al sisma. Il grosso degli elicotteri è arrivato al terzo giorno, eppure tutti sanno che è una realtà quella descritta nel film Il dottor Stranamore. Si sa che negli Stati Uniti v'è un enorme numero di caccia-bombardieri in grado di alzarsi in volo nel giro di pochi minuti, in caso di attacco nemico. E si sa che altrove addirittura si costruiscono rifugi antiatomici - aberrante realtà delle isole dell'ipersviluppo - e in Irpinia sono crollate persino le case costruite dopo il terremoto del 1962. E ancora: che nel 1973 è stata presentata una proposta di legge (la 2364) sulle conseguenze del terremoto del 1908, che di qualche anno fa è un'altra legge sul terremoto di Avezzano del 1915 e che il Belice non è stato ancora ricostruito nonostante 10 leggi regionali e 20 nazionali.
E allora se non è malafede è stupidità sostenere che i superstiti del terremoto rischiano la vita e rifiutano l'esodo per una mucca e due vitelli, anche se c'è qualche briciola di verità, purché riferita soltanto ai contadini. Non è però una verità totale, ma se lo fosse bisognerebbe pur chiedersi il perché e di nuovo si ritornerebbe all'immane sfiducia in questo Stato, alla convinzione di un futuro senza speranza, se non ancorato a qualcosa, magari una mucca e due vitelli.
Ma c'è dell'altro. All'ospitalità negli alberghi della Costiera si preferisce l'emigrazione all'estero. È irrazionale? È, invece, ancora una razionale sfiducia.
Coloro che emigrano - e sono una piccola percentuale - hanno la speranza di potere ricominciare da uomini, per poi magari tornare, e ritrovare le loro radici, ora affidate come in custodia a coloro che restano. Si emigra cioè perché si teme che accettando la pur generosa ospitalità pubblica negli alberghi incominci un'irreversibile diaspora: nell'indefinito prolungamento della condizione materiale e psicologica del terremotato si perderebbe con la dignità anche l'identità.
Il terremoto ha seppellito corpi e distrutto case, ma non ha annullato, come ne La peste scarlatta di Jack London anche le radici, la cultura, l'antropologia. E di questo si deve tenere conto nella ricostruzione, che dovrà valere non solo per l'oggi ma per intere generazioni.
Al alcuni non va bene. Preferiscono l'operazione coloniale della deportazione di massa. E se in taluni le intenzioni sono le migliori - salvare dal gelo e dalle privazioni decine di migliaia di persone - in altri le motivazioni sono ben diverse. Migliaia e migliaia di miliardi dovranno essere investiti nelle zone terremotate e gli appetiti degli speculatori sono insaziabili. E allora l'assenza di una pressione o di un controllo popolare val bene un genocidio culturale.
Più accortamente alcuni esponenti del potere politico responsabili anch'essi dell'emarginazione di queste zone e di vaste ondate dì speculazione, invitano a restare. C'è un sottile disegno; di fronte all'immane massa di bisogni può essere ripristinata una società “servo-assistita”, riallacciate e rinsaldate le clientele e in virtù di essere gestire, col consenso, la speculazione.
Sono pericoli seri che possono condizionare la società di domani la quale comunque, nel bene o nel male, non sarà più quella di ieri. Il rimedio ai pericoli lo hanno esposto le stesse popolazioni terremotate rifiutando la carità pelosa dell'esodo, che ha quasi il significato d'una rivolta. E allora, piuttosto che pensare a nuove strategie e ad altri “piani S”, bisogna fare in modo che i terremotati possano restare e non come assistiti ma come protagonisti della ricostruzione.
Non c'è dubbio: stavolta più che mai il Mezzogiorno diventa per le classi dominanti una prova di fuoco.
Le immagini sono tratte (in anteprima.- sottovoce dico mondiale, ma quanta fatica mi costano queste immagini!) dal libro Grande illustrazione del Lombardo-Veneto di Cesare Cantù e L.  Gualtieri di Brenna ( ... e di altri letterati ...), stampato a Milano nel 1859.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?