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Intervista a Peppe Provenzano sul Sud
9 agosto 2018

Dal libro Telero. Particolare
Dal libro Telero. Particolare
Peppe Provenzano Ministro per il Sud e la cosesione territoriale e già Vice Direttore della SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno), si è laureato e ha conseguito il dottorato in Diritto Pubblico alla Scuola Superiore “Sant’Anna” di Pisa. È il promotore dell’associazione Sinistra Anno Zero.
Abbiamo deciso di intervistarlo, anche in occasione dell’uscita delle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ 2018, per approfondire il complesso di temi legati alla frattura Nord/Sud e alla “questione meridionale” che ha accompagnato la storia del nostro Paese. L’intervista mira a mettere in evidenza i diversi aspetti di questa frattura, a partire dalla sua dimensione storica per giungere alla forma che ha assunto negli anni più recenti, soffermandosi tra le altre cose sulla stagione dell’intervento straordinario e sulla sua successiva crisi, sul ruolo delle classi dirigenti locali e nazionali, sulle politiche europee, sugli effetti della crisi, sullo stato attuale dell’economia meridionale e in generale sul carattere paradigmatico che l’analisi dell’economia e della società del Mezzogiorno può rivestire nell’evidenziare le principali contraddizioni del modello di sviluppo italiano ed europeo. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos. Le opinioni espresse dall’intervistato non impegnano l’istituzione di appartenenza.
La “questione meridionale” tra classi dirigenti e società
La “questione meridionale” ha accompagnato la storia unitaria del nostro Paese, con approcci anche molto differenti sul piano teorico e politico. Quali sono a tuo avviso i momenti più alti della riflessione sul Meridione e i modelli di intervento che hanno sortito maggior successo nella riduzione di uno storico divario?
Dal libro Telero. Particolare.
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Peppe Provenzano:
Sul meridionalismo si è esercitato il meglio della cultura italiana, ma non bisogna cadere nella retorica. La questione meridionale non coincide con la storia del Mezzogiorno. I meridionalisti classici dicevano peraltro cose molto diverse tra di loro, come spiega bene Salvatore Lupo nel volume La questione. Le vette si sono toccate ogni volta che partendo dal Sud si è riusciti a comprendere un fenomeno generale. Questa è stata la grandezza della riflessione gramsciana sulla quistione meridionale, al centro della quale vi è l’idea che il potere funzioni per blocchi, al Sud come a Detroit. La capacità di inserire l’analisi sul Sud all’interno di un quadro complessivo è stata anche la grandezza del “nuovo meridionalismo”, che nel Secondo Dopoguerra si raccolse intorno alla SVIMEZ, forse il primo think tank italiano. Morandi, Menichella, Saraceno vollero promuovere un meridionalismo, per così dire, “scientifico”: mettere i numeri accanto ai problemi, e anche alle soluzioni. Lì fu concepita l’esperienza straordinaria della prima Cassa per il Mezzogiorno, e un complesso di istituzioni e politiche pubbliche per lo sviluppo del Sud, per le quali si può dire che il miracolo economico non fu “un miracolo”. Alla base di questo successo c’era anche un rapporto con la società e con un sindacato che, dopo l’epopea delle lotte contadine, aveva raggiunto il suo punto più alto nel Piano del Lavoro di Di Vittorio. Cruciale era anche il rapporto con il governo e le sue catene di comando: fu lì che, pochi anni dopo, si approntò il Piano Vanoni. Soprattutto, c’era la consapevolezza del contesto generale: la questione dello sviluppo del Mezzogiorno, per liberare il potenziale di crescita dell’intero Paese, era inserita nella riflessione mondiale sulle teorie e pratiche dello sviluppo delle aree arretrate. Presso la SVIMEZ si tenevano corsi di alta formazione, di livello internazionale: quelle stanze erano frequentate da personaggi come Jan Tinbergen, il primo Premio Nobel per l’economia.
Negli ultimi anni, a partire almeno dagli anni Novanta, si sono diffusi approcci di vario genere che tendevano a ridimensionare, relativizzare o ribaltare l’idea della centralità della “questione meridionale” come era classicamente posta. Quali sono stati i principali approcci e momenti di questo dibattito e quali errori ravvisi in queste posizioni?
Dal libro Telero. Particolare
Dal libro Telero. Particolare
Peppe Provenzano:
Esaurita, per ragioni interne e internazionali, la stagione migliore dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, già negli anni Ottanta, la lettura dualistica del divario Nord-Sud apparve come una retorica, che alcuni, anche con buone intenzioni, provarono a decostruire, raccontando la complessità, i molti Sud. Solo che anche questa divenne una retorica: per descrivere il ritardo, ricorrevamo alla categoria di Mezzogiorno, se volevamo parlare delle cose che andavamo bene, parlavamo dei “Mezzogiorni”. Per una fase, negli anni Novanta, si pensò persino di “abolire il Mezzogiorno”, cosa che in effetti sarebbe in un certo senso accaduta, con la rimozione del riferimento contenuto nell’articolo 119 della Costituzione, nell’ambito della riforma “federalista” del 2001. La Seconda repubblica nasce del resto all’insegna della “questione settentrionale”, il Sud insegue. Fu d’altronde la fase di entusiasmo legata alle cosiddette “primavere dei sindaci” che preparò il clima nel quale maturò il riassetto costituzionale. Sul piano istituzionale già il regionalismo era stato un fallimento; il localismo non è riuscito, né avrebbe potuto fare di meglio. Ancor prima, il mito ingenuo e rivelatosi fallimentare dello sviluppo “endogeno”, “autopropulsivo” – declinazione della subalternità al neoliberismo – portò allo smantellamento, soprattutto dopo il 1992, degli strumenti di intervento pubblico nell’economia. Si trattava di illusioni, miti rinverditi da ultimo con la retorica delle “eccellenze”, come se un’area di venti milioni di abitanti non fosse ricca di complessità, di contraddizioni interne, disuguaglianze.
La questione delle classi dirigenti rientra spesso nella discussione sui problemi del Sud. Si tratta di problemi da attribuire prevalentemente alle classi dirigenti locali o nazionali o a entrambe? Quali strade si potrebbero immaginare per iniziare a sciogliere questo nodo, di un deficit di capacità da parte della classe dirigente di mettere in campo soluzioni strutturalmente efficaci?
Peppe Provenzano: È il tema più antico della riflessione meridionalistica, che attraversa il pensiero di Salvemini, Gramsci e Guido Dorso. Io ne ho discusso a lungo con Emanuele Felice che, nel suo libro Perché il Sud è rimasto indietro , faceva ricadere le responsabilità dell’arretratezza del Sud sulle classi dirigenti locali, applicando, forse un po’ schematicamente, il concetto di “estrattività” delle istituzioni di Acemoglu e Robinson.
Finendo in questo modo per prestarsi alla lettura più interessata, quella secondo cui “la questione meridionale è una questione di meridionali, e vedetevela voi”. Ma così il tema del Mezzogiorno, nella sua valenza più generale, muore. Va da sé che il “ritardo” del Sud non può ridursi a una sola causa, ma sarebbe arbitraria la rimozione delle responsabilità, e anche dei meriti, dal Dopoguerra in poi, delle classi dirigenti “nazionali” che si sono misurate col problema meridionale. Non è sulle classi dirigenti nazionali che ricade la responsabilità prima e ultima del superamento dei divari e degli squilibri di sviluppo?
Dal libro Telero.
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Anche se si considera la cosiddetta Seconda Repubblica, è alle classi dirigenti nel loro complesso che va rivolta la critica, con
Dal libro Telero.
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un’aggravante per quelle nazionali e di sinistra: è stata l’apatia, quando non l’antipatia, verso il Sud, frutto di una certa “frigidità” nei confronti delle questioni sociali, a lasciare proliferare oligarchie locali – nel frattempo, destinatarie di un trasferimento di potere considerevole – con cui le dirigenze centrali hanno stabilito nel migliore dei casi rapporti di reciproca e nefasta non interferenza. Nel peggiore dei casi, al Sud venivano garantiti compromessi scadenti in nome di equilibri nazionali. Ovunque, poi, le classi dirigenti locali sono state lasciate in balia di un processo di personalizzazione della politica, favorito anche da legislazioni elettorali (dai vizi troppo a lungo ignorati) che, sommate al rachitismo dell’organizzazione dei partiti, hanno esposto gli eletti all’insostenibile ricatto dei potentati economici locali. Nel frattempo, un’intera generazione altamente scolarizzata, la futura classe dirigente, in assenza di prospettive, ha abbandonato il Mezzogiorno. Dorso diceva che la formazione delle classi dirigenti è un frutto misterioso della storia, ma senza una stagione di ricostruzione della democrazia, della politica, delle istituzioni, delle organizzazioni sociali, e soprattutto senza riavviare un processo di sviluppo che offra lavoro buono, che liberi dal ricatto del bisogno, questa resta una discussione astratta.
Oltre alle classi dirigenti, vanno presi in esame anche i caratteri della società meridionale.
Quali sono le principali differenze rispetto al Nord? Esiste effettivamente una diversità in termini di articolazione del tessuto sociale e se sì quali ne sono le cause storiche?
Peppe Provenzano: Certo che bisogna guardare ai caratteri della società, ma se il riferimento è al tema del cosiddetto capitale sociale, devo essere sincero, non mi convince né sul piano scientifico né tanto meno su quello politico. È un filone sempre più calcato nella letteratura, che parte dalla discutibile (ma fortunatissima) categoria del “familismo amorale” di Banfield e passa per gli studi (sempre discutibili) di Putnam sulla civicness nel lungo periodo, e che individua nella mancanza o insufficienza del capitale sociale la “causa” del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno. A parte l’eccessiva e indefettibile “vaghezza” del concetto, che ne rende incerta la “misurazione”, riservare un ruolo decisivo ai fattori “culturali” e “relazionali”, peraltro dichiarati come persistenti (se non addirittura immutabili) nel tempo, rischia di negare l’efficacia e la stessa utilità di politiche (inficiate a loro volta dal deficit di cultura civica) per modificare questa dotazione e innescare una dinamica di convergenza e riduzione dei divari. Come si forma il capitale sociale? Qual è il nesso di causalità tra capitale sociale e sviluppo? Abbiamo molte evidenze, specialmente nel quadro della crisi, di “causalità inversa” rispetto alla tesi dominante. Si assiste all’emergere di situazioni paradossali: per fare un esempio, il tasso di partecipazione elettorale (uno degli indicatori del capitale sociale) è stato alle regionali il doppio in Calabria rispetto all’Emilia-Romagna. Bisogna riscrivere il libro di Putnam? La verità è che la riflessione sul “capitale sociale” come causa determinante del ritardo, non è estranea alla temperie culturale, che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni, e che mostra estrema insofferenza alle politiche pubbliche, e tanto più a un intervento pubblico in economia mirato alla riduzione delle disuguaglianze e alla attivazione del capitale “sottoutilizzato”.

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