Giovanni Russo, Sud specchio dell’Italia, con Introduzione di Francesco Erbani, Liguori Editore Napoli 1993
Giovanni Russo, nato a Salerno, ha iniziato la sua attività di giornalista e scrittore a Roma con L’Italia Socialista. Collaboratore de Il Mondo di Mario Pannunzio fin dai primi numeri, dal 1955 è inviato speciale del Corriere della Sera di cui è articolista. E’ autore di vari libri tra cui: Baroni e contadini, Laterza, Bari 1955 (Premio Viareggio); L’Italia del poveri, Longanesi, Milano 1958; Chi ha più santi in Paradiso, Laterza, Bari 1964; I figli del Sud, Fratelli Fabbri, Milano 1974; Terremoto, Garzanti, Milano 1981; Flaianite, Scheiwillen Milano 1990; I nipotini di Lombroso, Sperling & Kupfer Milano 1992. (dal risvolto del libro)
Prefazione“Il conflitto tra Nord e Sud, latente fin dalle origini del nostro assetto nazionale, sta arrivando alla sua estrema manifestazione.
Esso fu covato per decenni, più o meno palesemente. Nelle stesse caserme dove si incontravano giovani settentrionali e meridionali, questo conflitto lungi dal sanarsi, si rafforzò. Basta aver sentito una volta quei tediosi dialoghi tra polentoni e terra da pipe per avere ben chiaro l’atteggiamento d’inferiorità dei meridionali, e le accuse che i giovani settentrionali facevano alla feudalità, bigotteria, sottomissione e umiliazione meridionale. Le accuse che tali giovani si facevano erano le stesse che si potrebbero fare ai governi, alle istituzioni, al clero … Ai nostri giorni si sente dire che l’Italia crepa di meridionalismo, cioè di burocrazia, genericità, incapacità di organizzazione, piccolo individualismo, mancanza di coscienza politica e morale, disposizione a servire questo o quello dei padroni, indifferentemente, prova ne sia il grande reclutamento di forze della polizia, che trova sempre e con chiunque abbondante concorso nel Sud.
Che il fascismo fosse corrotto, seppure era possibile, dai meridionali, cioè dalla tendenza meridionale a vivere aggrappati al potere e allo Stato, non è che una parte della verità. Le industrie per una vittoriosa lotta sostenuta dai settentrionali che avevano nel Sud una loro colonia ben protetta dai dazi doganali, erano nel Nord; al nord fu fatto l’armamento della guerra perduta, del Nord sono stati quasi tutti gli uomini che hanno allevato, consolidato il fascismo. Dal Nord è venuta la corruzione dei poteri e degli organi dello Stato; le grandi somme che hanno impinguato la prostituzione italiana e la nuova borghesia italiana”.
Sono le considerazioni che sembrano scritte oggi, di un saggio pubblicato da Bompiani nel 1945, dal titolo L’Italia rinunzia? di Corrado Alvaro, uno dei più grandi scrittori italiani rimasto sempre legato alla sua Calabria. Esse provano come, nei momenti di crisi profonda, il conflitto tra Nord e Sud esplode in tutta la sua gravità e si riconferma come il problema principale del Paese.L’idea di una federazione, che è in realtà separazione, e emersa del resto sempre nei momenti di crisi e di smarrimento nazionale. Come ricorda Benedetto Croce nel suo Uomini e cose della vecchia Italia, l’idea di una federazione fra uno Stato settentrionale e uno Stato meridionale, era sostenuta dagli ultimi borbonici che, a trent’anni dall’unità, non si rassegnavano alla vittoria del Risorgimento e vagheggiavano la restaurazione del vecchio Stato borbonico. Nulla di nuovo sotto il sole perché alla base dell’autonomismo lombardo di fine ottocento è soprattutto l’avversione contro i meridionali.
L’origine dei mali, che affliggono Milano e la Lombardia, fu individuata dall’autonomismo lombardo “nella deleteria dominazione meridionale - come scrive lo storico Fausto Fonzi - che opprimendo e sfruttando le regioni più oneste, più laboriose, più civili e più ricche, porta la nazione alla decadenza ed alla rovina”.
Esso riteneva che “perché l’Italia sia libera e progredita è necessario che la razza superiore dei settentrionali sconfigga e sottometta la razza inferiore che tenta imporre con gli strumenti politici la sua barbarie, la sua corruzione”.
Nel grido “abbasso le imposte”, che si leva dall’autonomismo milanese, viene concretandosi la protesta di Milano contro il governo e contro l’ordinamento stesso dello Stato italiano. L’oppressione fiscale appare ai milanesi come un aspetto del soffocante regime centralizzato dello Stato italiano.
Come si vede, il terreno di coltura di questi fenomeni autonomisti e separatisti è sempre lo stesso: l’antropologia positivista. E’ il terreno su cui si incontravano borbonici, cattolici e socialisti a trent’anni dall’unità e oggi si ritrovano, sulle stesse posizioni, leghisti e borbonici. Erano i cattolici milanesi di allora che obbedivano ancora al non expedit del Vaticano. Oggi i cattolici ex democristiani, che votano per la Lega, sono invece contro gli orientamenti delle alte gerarchie ecclesiastiche che hanno definitivamente superato il vecchio risentimento verso lo Stato unitario e seguono la linea di rinnovamento inaugurata da Giovanni XXIII, che aveva portato ad un nuovo ecumenismo e alla eliminazione di ogni residuo rimpianto per la perdita del potere temporale. Oggi le gerarchie ecclesiastiche sono molto più avanzate degli stessi partiti nella difesa dell’unità politica del Paese e nel sostenere l’importanza della questione sociale.Sempre nel suo saggio L’Italia rinuncia?, Corrado Alvaro osservava che l’unità d’Italia “fu di continuo minacciata dalle antiche rivalità, dalle vanità locali, dallo scarso senso nazionale, dalla piccola boria di quelle provincie che “bastano a se stesse” e che pagano le tasse per gli altri”.
Nei momenti di profonda crisi morale quale quella che il nostro Paese attraversa si sente molto forte il bisogno di tornare a ragionare, di non lasciarsi sovrastare dalle suggestioni della politica spettacolo. Sembra invece che, tranne poche eccezioni, sia questa la tendenza che prevale. Gli intellettuali che, per statuto, sono chiamati a ragionare sono tra i primi a lasciarsi travolgere da questo fascino. L’alternativa all’urlo è, per molti, il silenzio. Di fronte alle spinte irrazionali che stanno emergendo nella vita politica italiana, la discussione sull’unità e sull’identità nazionale procede tra gli strepiti di taluni e il mutismo di altri, nonostante si moltiplichino i fenomeni di razzismo fomentati dal movimento leghista e elogiati da uno dei maggiori esponenti della Lega, il professor Gianfranco Miglio, mentre Umberto Bossi si esercita continuamente nelle furberie di un’ambigua cautela.
Si aprono ormai continui dibattiti televisivi e nella stampa sulla “disunità d’Italia” per citare il titolo di un libro di Giorgio Bocca, che è uno dei protagonisti di questo atteggiamento ambivalente degli intellettuali. Egli ha denunciato alcuni dei gravi mali del Sud, ma crede che le leghe siano il grimaldello che fa saltare il sistema, senza curarsi dell’assenza di un’alternativa valida.
Anche Alberto Arbasino in vari articoli su Repubblica riscopre Cattaneo e soprattutto rivendica le sue origini padane e le buone ragioni delle operose famiglie lombarde di prendersela con i meridionali.
Sabino Acquaviva, trascurando gli effetti che ha avuto la televisione, come dimostra, in un libro famoso, il linguista Tullio De Mauro, scrive di una Italia in cui si parlerebbero ancora “lingue-dialetti” differenti e spesso incomprensibili tra loro e sostiene che la lingua italiana non sarebbe un elemento unificante. E’ noto, invece, che i dialetti stanno scomparendo anche se vengono sostituiti da un italiano televisivo. Acquaviva alla domanda se l’Italia esiste come espressione nazionale e persino più drastico di Metternich, che almeno ammetteva che l’Italia era un’espressione geografica, e sostiene che i confini dei vecchi Stati coincidono con quelli delle regioni. Ma il regno del Piemonte non comprendeva Sardegna e Liguria? Lo Stato pontificio non metteva insieme Romagna, Emilia, Umbria e Lazio? E quello napoletano non univa sette regioni?
Anche i politici di quasi tutti i partiti fanno a gara per mostrarsi sensibili a tesi in apparenza federaliste, di fatto separatiste, senza rendersi conto che stiamo correndo il rischio di dar vita ad una federazione di dialetti in via di estinzione.Il fallimento dell’intervento straordinario nel Sud e il potere di una criminalità organizzata che si è lasciata irresponsabilmente crescere, anche se si cerca ora di combatterla, vengono presi a pretesto per giustificare la separazione del Nord da un Sud parassita e per eccitare il vittimismo dei piccoli imprenditori e le proteste, anche se giustificate, di operai licenziati dalle fabbriche del Nord.
Quando si parla di federalismo, che poi significa separatismo, si dimentica l’esperienza della Sicilia, regione a statuto Speciale, che di fatto è uno stato federale e il fallimento delle regioni soprattutto nel Sud. Ad esse sono trasferite tra l’altro l’assistenza sanitaria e |’urbanistica: le condizioni scandalose delle USL sono un esempio quotidiano di inefficienza e corruzione; il paesaggio e il territorio sono abbandonati alla speculazione edilizia in assenza di una organica pianificazione. Nella Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali, che pure ammette l’esito deludente dell’ordinamento regionale, si è avanzata l’ipotesi, invece, di sottrarre allo Stato tutte le funzioni lasciandogli solo i compiti di politica estera, dell’ordine pubblico interno, della difesa nazionale, della finanza pubblica e della giustizia, o, come scrive retoricamente il relatore “la quadruplice funzione di bandiera, spada, moneta e toga”. Le conseguenze di questa scelta sarebbero rovinose, segnerebbero la fine dell’unità d’Italia.
Ecco perché questo dibattito non si può ridurre al Sud come Inferno e al Nord che sarebbe il paradiso, ma coinvolge i valori, di cui nessun intellettuale può disinteressarsi, della lingua, della letteratura, della storia.
Questo libro rappresenta un invito a coloro che sono decisi a difendere anche al Nord la libertà e l’unità del paese, ad allearsi con le minoranze politiche e culturali che nel Sud si battono per gli stessi obiettivi. Occorre evitare che si accrediti una idea di generale e irreversibile disgregazione del Mezzogiorno e che le sue minoranze culturali non siano invece travolte da questa immagine diffusa dalla TV e dai mass media.
Lo sfacelo dello Stato era prevedibile da alcuni anni, come era prevedibile che chi doveva pagarne le conseguenze in misura maggiore era proprio il Mezzogiorno, perché i suoi problemi erano ancora più gravi che nel resto del Paese. Per questi motivi abbiamo cercato di distinguere le luci dalle ombre, i gruppi di minoranza eredi delle grandi tradizioni culturali dai gruppi di potere fondati sull’assistenzialismo, il clientelismo, dai politici che costruiscono le proprie fortune sul voto di scambio.Nel Mezzogiorno non è una pratica nuova quella del voto di scambio per ottenere o ricambiare un favore concesso da un candidato. I primi esempi clamorosi del chilo di pasta gratuito, della banconota tagliata a metà data in anticipo prima delle elezioni e completata dopo il controllo del voto risalgono alle elezioni amministrative a Napoli nel 1952 vinte da Achille Lauro. Il voto di scambio anche oggi trae origine dalle condizioni in cui vivono ancora larghi strati della popolazione del Sud e dal numero elevatissimo di disoccupati. Perciò vi è la disperata ricerca di un “posto” o di un impiego sicuro negli enti pubblici, la Regione, il Comune, la Comunità montana e lo Stato, un posto magari di spazzino, di usciere, di poliziotto. Si “vende” il voto a chi promette di aiutare a “sistemare” figli e parenti, sveltire la pratica della legittima pensione che la burocrazia ritarda da anni e che potrebbe arrivare in fin di vita o dopo la morte. Ma spesso si tratta di pensioni di falsa invalidità. Per qualsiasi servizio abbia diritto il cittadino, anche quando è ammalato per essere ricoverato in ospedale, occorre l’intervento di qualche politico nazionale o locale. La responsabilità della classe politica è quindi enorme. I cittadini sono sempre più convinti che il lavoro non è un diritto garantito ma una elargizione dei “nuovi feudatari”. Chi non accetta questo sistema ha una sola Strada: l’emigrazione, o una sola possibilità di protesta: l’astensione.
Alberto Iacoviello in un articolo apparso nella Repubblica osservava che la cultura che si ispira al meridionalismo non è stata, negli ultimi anni, attenta come un tempo all’aggravarsi delle condizioni del Sud. vero ma questo è accaduto sia per il conformismo e il servilismo di quei meridionali che difendevano la politica dell’intervento straordinario anche quando era palesemente sbagliata, sia perché le “grandi firme” si occupavano di altro e consideravano con fastidio o con noia “la questione meridionale” che, oggi coinvolge la sopravvivenza dello Stato unitario, come aveva previsto Giustino Fortunato, il quale scriveva “il Mezzogiorno sarà la rovina o la fortuna d’Italia”.
Gli uomini politici, tranne rare eccezioni, sono protagonisti o conniventi delle degenerazioni della società meridionale e hanno tollerato o favorito lo sviluppo della criminalità organizzata. Del fallimento dell’intervento straordinario la responsabilità fu anche del PCI che sosteneva la politica della “industrializzazione senza sviluppo” che è stata il cemento di quel “blocco sociale” formato da grandi imprese pubbliche e private del Nord, dai concessionari delle opere pubbliche e dalla classe politica meridionale; un “blocco sociale” che già verso la fine degli anni ottanta avevo bollato sul Corriere della Sera come “i nuovi briganti”.
Molte sono le colpe delle sinistre, riconosciute nella sua autocritica, pubblicata sempre nella Repubblica, da Gerardo Chiaromonte, che però non cita l’appoggio dato dal PCI alla marcia dei sindaci siciliani su Roma per ottenere un ulteriore condono dell’abusivismo edilizio.
Gravissime le responsabilità del sindacato, che ha preferito l’industrializzazione senza sviluppo e la difesa ad oltranza di industrie come quella siderurgica in crisi irreversibile, alla creazione di una vera classe operaia, lasciando via libera al lavoro nero e al rigonfiamento delle liste dei disoccupati. Ecco perché è assurdo che si continui come prima e che siano stati assegnati con decreti legge decaduti, e sempre reiterati, circa 30 mila miliardi, in base alla Legge 64 con le stesse procedure del passato e che che rischiano di finire in gran parte nelle solite mani.
Esistono, certo, aspetti positivi nella politica di intervento straordinario nel Sud ignorati da chi identifica, sia pure in buona fede, “la questione meridionale” con la “questione criminale”. Bastano alcuni esempi di cui si parla in questo libro: la riforma agraria realizzata da Manlio Rossi Doria; le imprese agricole moderne, come a Lamezia Terme l’azienda Cefaly che fa concorrenza ai pompelmi israeliani e sudafricani; le fabbriche di scarpe e di vestiti di Barletta e di Case[a, NdR]rano in Puglia, create da ex operai ritornati dal Nord e dall’estero e le industrie medie e piccole di Bari e della provincia; la serricoltura e la floricoltura di Ragusa Modica e di Vittoria in Sicilia; gli impianti idrici in Puglia e in Basilicata, le infrastrutture stradali, la rete alberghiera, tutto finanziato dalla ex Cassa per il Mezzogiorno.Purtroppo molte di queste opere, come gli ospedali e i depuratori, sono affidate alla gestione degli enti locali che le hanno lasciate deperire, come stanno andando in rovina la maggior parte delle opere pubbliche costruite con i fondi del terremoto del 1980: piscine, palestre, verde pubblico, centri sociali, Si tratta di uno scandalo tanto più grave in quanto avviene in zone che hanno estremo bisogno di queste indispensabili attrezzature.
Per le opere della ricostruzione dopo il terremoto del 1980 è stato anticipato danaro pubblico fino al 50% della spesa (e cioè migliaia di miliardi) alle stesse imprese che sono state accusate di corruzione dal giudice Di Pietro nello scandalo delle tangenti di Milano: Grandi Lavori, Pizzarotti, Cogefar, Lodigiani, Recchi, Maltauro, Golani, Vianini, Zanussi. Questa è un’altra prova della falsità degli slogan di Bossi che la corruzione sia una malattia meridionale. Il nuovo “blocco sociale”, definito da Pasquale Saraceno “molto più pericoloso del vecchio blocco agrario”, ha praticato la rapina delle risorse pubbliche mediante la corruzione e la subornazione della classe politica portando sull’orlo del disastro economico e del degrado morale l’intero paese. Enorme è la responsabilità della classe politica che non ha contrastato questo processo di degenerazione. I mezzi di informazione hanno presentato l’azione della magistratura mettendo in primo piano solo la responsabilità degli uomini politici e dei partiti, rimasto in secondo piano il meccanismo con cui le grandi imprese, con il sistema delle tangenti, hanno violato le regole della libera concorrenza e hanno istituito un gruppo di potere economico e finanziario che è diventato di fatto un monopolio privato, il quale ha lucrato illecitamente migliaia di miliardi. I politici sono apparsi gli unici responsabili Dall’indagine della magistratura è emersa in tutta la loro gravità la profondità dell’infezione nella società. Questo processo di degenerazione costituisce grave pericolo per la democrazia.
Per capire il meccanismo perverso che ha creato il nuovo blocco sociale, bisogna tener presente che a partire dal 1972, col governo Andreotti-Malagodi e fino al 1980, sono state concesse su tutti gli appalti delle opere pubbliche, anticipazioni alle imprese del 50% dell’importo dei lavori prima del loro inizio e scandalose revisioni dei prezzi, alle norme sulla contabilità generale dello Stato. Con la legge 219/81 per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto del 23 novembre 1980 ed estesa con la legge n. 80 del 1987 a tutto il territorio nazionale, con l’alibi della inefficienza della Pubblica Amministrazione e della necessità di accelerare le procedure, si è passati dagli appalti all’obbligo di ricorrere all’Istituto della concessione che ha consentito di evitare le gare e di affidare i lavori a trattativa privata, in più lasciando ai concessionari le anticipazioni del 50%.
Infine non bisogna dimenticare che dal 1957 al 1970 si era favorito l’esodo tumultuoso al Nord e all’estero di ben 4 milioni di contadini meridionali che ha rotto gli equilibri sociali in tutto il Paese, anche se ha fornito la forza lavoro propulsiva del miracolo econornico.Ma la questione più importante è quella che riguarda l’esperienza catastrofica delle Regioni, soprattutto nel Sud.
In Italia come al solito, i fatti contraddicono le buone intenzioni teoriche. Le regioni sono state istituite (quelle a statuto ordinario) con vent’anni di ritardo, e quelle “speciali” sono nate dietro pressioni di interessi politici o di ricatti separatisti, come quella della Sicilia; ma non sono mai state coordinate veramente con lo Stato per cui, per determinati settori, è un grave errore aver delegato alle regioni - che non ne avevano la capacità culturale né la coscienza - poteri che non erano in grado di esercitare né di valutare appieno.
Giustino Fortunato sosteneva che attribuire ai corpi locali, più o meno autonomi, delle vere e proprie funzioni di Stato avrebbe reso sempre di più i poteri pubblici incapaci di agire e avrebbe favorito l’infeudamento e lo strapotere delle consorterie locali, come è avvenuto.
Il problema centrale che si trascura è, invece, la necessità urgente, in vista del nostro ingresso nella Comunità europea, di rendere efficiente e corretta l’Amministrazione italiana, sia quella dello Stato, sia quella degli enti locali.
Il gattopardismo dei partiti, nella illusione di conservare il potere, è pronto ad accogliere le proposte delle Leghe; ciò significherebbe il consolidamento dei “nuovi feudatari” al Sud e la consegna definitiva alla mafia e alla camorra di intere parti del Pese.
Di fronte a questi pericoli si sta manifestando nella opinione pubblica nazionale un rifiuto al separatismo e alla creazione di una cosiddetta Repubblica del Nord.
Bossi aveva fondato le iniziali fortune elettorali della Lega agitando demagogicamente queste idee, raccogliendo le adesioni al suo movimento soprattutto perché si faceva portavoce di una generica protesta. Poi ha rovesciato le sue posizioni con grande disinvoltura: nega di volere il separatismo e si atteggia addirittura a salvatore del Sud affermando che vorrebbe “liberarlo” dall’oppressione della partitocrazia. Bossi ha bisogno di queste giravolte per tenere unita la sua armata Brancaleone proprio perché è il figlio della degenerazione dei partiti e della egemonia partitocratica.
La sua intervista a Giuseppe Turani nella “Repubblica” del 13 gennaio 1993, è la prova più lampante e sfacciata della sua concezione della politica e del disprezzo per i suoi stessi elettori, verso i quali non si vergogna di apparire come un voltagabbana. Non si capisce perché uomini politici come La Malfa e Occhetto, ma non sono i soli, possano accreditare un simile personaggio, il quale dichiara esplicitamente di aver parlato dell’Italia che si potrebbe dividere in due e di Repubblica del Nord ”per un calcolo preciso”, perché “gli altri partiti non sono molto intelligenti”. Avrebbero difeso lo Stato centralista dandogli la possibilità di massacrarli elettoralmente. E aggiunge: “Non ci voleva niente a capire che non si trattava di un progetto definitivo”. Bossi confessa clamorosamente di aver preso in giro tutti e lo dice senza pudore, solo per far cadere gli altri, come lui si esprime, nella “trappola”. Ma il fatto è che i partiti non hanno difeso affatto lo Stato centralista, bensì tutti facevano a gara nel presentarsi come fautori di un regionalismo sempre più ampio. Bisogna riconoscere che la DC ha dimostrato di avere, nei confronti dei programmi della Lega, più senso dello Stato dei partiti laici.
Quante accuse la Lega e Bossi hanno rivolto agli uomini politici di essere alle dipendenze della finanza e dell’industria più potente! Ma nell’intervista, Bossi non esita a proclamare di aver ripiegato sulla tesi dello Stato federalista, perché aveva ricevuto un segnale da Torino, cioè da Agnelli, dopo un convegno della Fondazione Agnelli che propone di ridurre le regioni da venti a dodici. Bossi vuole uno sconto e propone di arrivare a cinque o sei.
Egli si vanta, di poter cambiare idea e posizione politica quando ciò gli fa più comodo, di non mantenere le sue promesse e di avere impedito la elezione di Forlani a presidente della Repubblica, promettendo ad Andreotti di dargli i voti della Lega “a patto che prima facciamo saltare Forlani” e cosi avvenne. “Naturalmente di dare i voti ad Andreotti non ci ho mai pensato”, confessa.Nella stessa intervista Bossi dice di volere un governo di tecnici al posto del governo Amato solo perché questo può renderlo arbitro della situazione politica e riconosce che la sua vera ambizione è quella di diventare presidente del Consiglio. Sorprende che di fronte alle giravolte di Bossi, a cui presta fede anche l’Unita con un articolo di un giovane storico, Giovanni De Luna, in cui Bossi viene presentato come l’angelo vendicatore che potrebbe liberare il Sud dalla mafia, pochi ricordino che la stessa tattica, attuata peraltro in modo molto meno goffo, fu adottata da Mussolini. Negli anni dal ’19 al ’22 che precedettero la marcia su Roma, prima si dichiarò repubblicano e di sinistra, poi monarchico appoggiando, con il fascismo, i grossi agrari e le industrie belliche del Nord. Ma se si paragonano Bossi e le contraddizioni della Lega (che raccoglie ex fascisti, ex democristiani, extraparlamentari e molti altri detriti intorno alla protesta di alcuni ceti del Nord, bottegai e piccoli imprenditori, che non vogliono pagare le tasse) a Mussolini e al fascismo piccolo borghese, intellettuali accreditati, da Giordano Bruno Guerri a Angelo Panebianco a Saverio Vertone a Giorgio Bocca, sostengono che il paragone è stupido. C’è voluta una autorevole rivista americana, Time, per presentare il successo di Bossi come the rise of a demagogue, l’ascesa di un demagogo, e per paragonarlo proprio al Mussolini del 1920 e al fenomeno Ross Perot delle ultime elezioni presidenziali americane, mentre il quotidiano inglese Manchester Guardian lo ha definito un “umoristico capopolo”.
Imperversano sulla scena del nostro Paese forze improvvisate, senza coscienza storica e del sentimento dell’unità nazionale. Una immensa “plebe”, che comprende la piccola borghesia, i nuovi ceti emergenti, la vecchia classe operaia è preda dei mass-media e dei miti irrazionali e sembra che quello che Hegel scriveva dell’ignoranza secolare della plebe di Napoli “priva di coscienza storica e legata all’accidentale”, possa oggi attagliarsi a tutta la Nazione.
In quest’opera di disgregazione di Bossi e della Lega, c’è anche un aspetto positivo, da cui si può trarre un motivo di speranza: essa ha provocato nell’opinione pubblica per la prima volta un’adesione vasta al sentimento dell’unità nazionale che finora si era espressa soltanto nelle vittorie della nazionale di calcio nei campionati mondiali. Questa reazione nella coscienza comune degli italiani ha preso una consistenza tale da costringere Bossi, come si accennava, a rovesciare la sua propaganda separatista, confidando nel fatto che la gente sia così ingenua da credere veramente che egli si sia improvvisamente convertito all’idea della unità del Paese.
Di fronte alla tesi separatista della Lega, Indro Montanelli in un articolo del Giornale aveva scritto di aver deciso di rimettere sulla sua scrivania i ritratti, lasciatigli dal nonno, dei quattro padri della Patria, anche se li aveva tolti per le loro pose retoriche: Vittorio Emanuele II, Mazzini, Garibaldi e Cavour. E concludeva: “Saremo, anzi siamo, una famiglia dappoco noi italiani, ma sempre meglio che bastardi di famiglia altrui come qualcuno vorrebbe, rinnegandola, farci diventare”.
In armonia con questo manifestarsi del sentimento della unità italiana, che è il solo valore da cui si può partire per affrontare i problemi del Mezzogiorno, le due massime autorità dello Stato, il presidente della Repubblica Scalfaro e il presidente del Senato Spadolini, avevano ammonito che non si poteva rinunciare al frutto più importante del Risorgimento.
Il primo, nel suo messaggio di fine d’anno, sottolineava che tra i pilastri della rinascita del Paese non può non esserci il rinnovamento dei partiti. “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza i partiti non vi è democrazia, fino ad oggi nessuno avendo saputo inventare qualcosa di diverso che non sia un semplice mutamento del nome. Allora si deve puntare sull’ortodossia dei partiti, sulla trasparenza dei partiti, sul rinnovamento dei partiti”.
Il secondo, a proposito della proposta della Lega Lombarda, ha richiamato lo spirito del Risorgimento, osservando che “in questi mesi abbiamo assistito a un’opera di deformazione della nostra storia e degli stessi titoli di identità della patria” e avvertendo che non si può in alcun modo accettare il progetto separatista tra Nord e Sud.
18 gennaio 1993
Giovanni Russo
1993 - Sud specchio d'Italia - Prefazione
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