Giovanni Russo, Sud specchio dell’Italia, con Introduzione di Francesco Erbani, Liguori Editore Napoli 1993
4. Carlo Levi e la civiltà contadina
Levi è, quindi, un punto di riferimento importante nella storia del Mezzogiorno di questo secolo non solo per la sua “scoperta” della “civiltà contadina”, ma anche per constatare le ragioni per cui sia l’intervento straordinario dello Stato (deciso nel 1950 con la Cassa per il Mezzogiorno) sia l’utopia della “civiltà contadina”, che ebbe in Carlo Levi, e in modo più diretto e realistico in Rocco Scotellaro, i suoi interpreti, sia la politica dei settori progressisti non hanno raggiunto nessuno dei loro obiettivi.
Il Sud di oggi è completamente diverso da quello in cui fu immerso Carlo Levi negli anni Trenta; i suoi problemi sono quelli di una società in apparenza moderna, ma malata appunto delle malattie “moderne” dell’urbanesimo caotico e della desertificazione delle zone interne dell’Appennino; sotto certi aspetti, è una società più sottosviluppata oggi di ieri dal punto di vista di un equilibrio culturale, che si reggeva proprio sulla tradizione millenaria di quel mondo contadino ora quasi totalmente dissolto.
Uno dei miei primi incontri con Carlo Levi è avvenuto nel 1945, subito dopo la caduta del fascismo, mentre a Potenza, in piazza 18 agosto, detta anche piazza Zanardelli (nomi ambedue emblematici nella storia della Basilicata), aspettavamo insieme il ritorno dall’esilio di Francesco Saverio Nitti. Levi aveva 40 anni e io, allora giovanissimo, lo consideravo già un uomo anziano.
Carlo Levi ha teorizzato come un sistema di interpretazione politica e sociale della realtà del Mezzogiorno la distinzione tra i “luigini” (dal nome del podestà del paese dove fu confinato,
Aliano, che veniva chiamato don Luigino e che Levi considerava il simbolo e la quintessenza del piccolo borghese di un paesino del Sud) e i “contadini”. Francesco Saverio Nitti dal punto di vista della estrazione borghese, anche se sua madre era una contadina, era quindi il più grande “luigino” della Basilicata. Ma Levi mi disse una frase che dimostrava la sua assoluta mancanza di manicheismo: “Torna in Lucania un uomo che ha riscattato almeno in parte i difetti della borghesia meridionale”. Levi aveva letto, infatti, gli scritti sul brigantaggio e quelli sulla realtà di Napoli e sui drammi della emigrazione in cui Nitti (forse perché viveva in lui la sua “anima” materna) si espresse sempre con grande umanità e con chiara visione dei problemi sociali che questi fatti rappresentavano. Questo episodio dimostra l’errore di quanti sostengono che, nel Cristo, Carlo Levi ha mitizzato i contadini, ma demonizzato i borghesi.
Aldo Garosci, lo storico più attento di questo movimento, riconosce che, in quell’epoca, Levi era a Torino il vero capo di Giustizia e Libertà; che fosse impregnato di cultura meridionalistica è altro fatto innegabile. Carlo Levi, che viene confinato ad Aliano, non inventa il “levismo” (anche se impregna della sua personalità poetica e “biblica” il racconto) ma è un intellettuale che ha letto Salvemini, Fortunato, Gramsci, oltre a Nitti, e ha discusso con gli intellettuali torinesi, soprattutto con Gobetti, approfondendola, la questione meridionale.
Ci sono pagine del Cristo dove il “meridionalismo” di Carlo Levi ha accenti originali perché si dimostra un modo ancora oggi valido di intendere la storia d’Italia e la lotta politica. Sono le pagine che più sorpresero i critici letterari del tempo e che pongono problemi, anche quelli di oggi, che vorrebbero dare al libro una dimensione solo letteraria, ignorandone il grande valore di denunzia politica e sociale, che esso allora ebbe anche per la sua forza poetica. Si creò così quell’equivoco che ancora resta nel mondo letterario italiano così influenzato dal provincialismo degli stilemi oltreché dalle preoccupazioni corporative. Del resto accadde lo stesso per Fontamara di Ignazio Silone, sia pure per ragioni opposte perché pure Silone ebbe un successo tra i critici del tempo limitato dalla politicità del tema.
Le pagine di cui parliamo sono indispensabili per capire l’interpretazione leviana della “civiltà contadina" e perciò sono poste ad epilogo e quasi a conclusione del libro.
Levi ritornava in treno da Torino, dove era stato in permesso per un lutto ed era accompagnato da un poliziotto con cui aveva fatto amicizia: “Era notte e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla dura panca andavo ripensando ai nostri giorni passati, a quel senso di estraneità, e alla totale incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del Mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto; e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo”.
E Levi aggiunge le riflessioni, che aveva comunicato ai suoi interlocutori: “Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. Fra lo statalismo fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialista, e tutte quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l’antistatalismo dei contadini, c’è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime, ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l’Italia, non solo il Mezzogiorno, diventerebbe una Colonia. I piani centralizzati possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno resterebbero due Italie ostili”.
Questa tesi meridionalista, politicamente molto precisa, è il filo conduttore non solo di Cristo si è fermato a Eboli ma anche degli altri suoi libri o saggi dedicati al Mezzogiorno dalle Parole sono pietre, il suo libro sulla Sicilia, a Tutto il miele è finito, nato dal viaggio in Sardegna. Il meridionalismo di Levi è, in sostanza, quello della grande tradizione liberale in cui la stessa idea che egli aveva di sé, di un personaggio olimpico e amato, quasi divino, coincideva con la figura tradizionale del notabile paternalista ma progressivo che aveva dominato nella società meridionale prima del fascismo. Ed è curioso notare che, mentre Levi aveva pensato e teorizzato che la “rivoluzione meridionale" dovevano farla i contadini, Guido Dorso, “notabile” di Avellino, anch’egli collaboratore di Gobetti con analoga utopia, aveva pensato, teorizzato e sognato che “rivoluzione” dovevano invece farla i borghesi meridionali improvvisamente consapevoli di un loro ruolo autonomo. Il libro più famoso di Dorso si intitola appunto La rivoluzione meridionale.
Carlo Levi partecipò in Basilicata nella lista del Partito d’Azione, insieme con Manlio Rossi Doria, Guido Dorso, Alberto Cianca, Michele Cifarelli, Vincenzo Calace, alla campagna elettorale del 1946 per la Costituente e per il referendum per la Repubblica. I “luigini”, e cioè tutta la borghesia lucana, fecero una propaganda velenosa sostenendo che i contadini lo accoglievano con indifferenza. Non era affatto vero. Era logico che i “luigini”, offesi dai giudizi contenuti nel Cristo, lo accusassero di aver denigrato il Mezzogiorno. Ma Levi non lo aveva affatto denigrato, bensì aveva scritto il poema del Mezzogiorno contadino che era allora la grande maggioranza della popolazione, e messo in luce nello stesso tempo la meschineria e la grettezza di quella piccola borghesia di “galantuomini” di paese; un giudizio di grande acume perché è quella stessa borghesia che, dopo il gigantesco esodo contadino degli anni Sessanta verso il Nord Italia e all’estero, è diventata la classe dirigente, in prevalenza clientelare e inetta di oggi.
Il Mezzogiorno odierno è caratterizzato infatti da un urbanesimo malato, inquinato da camorra e da mafia in certe zone. Levi aveva avuto una felice intuizione quando aveva capito che la civiltà meridionale era collegata strettamente al mondo contadino e che la stessa cultura meridionale, come dimostra la storia dei suoi grandi intellettuali, da Verga a Vittorini a Silone, da Croce a Gramsci a Fortunato, affondava le sue radici nella civiltà contadina così come nella civiltà europea.
Carlo Levi (sostenevano i “luigini”) non era riconosciuto più dai contadini lucani come quel Giove, interprete magico e divino della loro realtà, quale lui si dipinge in Cristo si é fermato a Eboli.
In verità sia in quella campagna elettorale così lontana, sia, in seguito, durante la sua attività politica, Levi è stato sempre molto concreto e, se cosi si può dire, molto torinese.
Nei suoi discorsi elettorali non si atteggiava a una divinità olimpica ma parlava di ospedali, scuole, strade, in definitiva di uno Stato più equo; di cose serie, che i contadini capivano benissimo e non si abbandonava a vaghe o generiche promesse come altri personaggi politici sia della destra che della sinistra.
Sono rimasto perciò sempre un po’ sorpreso delle accuse di “paternalismo” che Asor Rosa gli rivolge nel suo saggio Scrittori e popolo, saggio per altro tra i più acuti per comprendere non solo i rapporti tra Carlo Levi e il mondo contadino ma anche l’equivoco che sorse presto tra il Partito comunista e Carlo Levi, durato, si può dire, dal dopoguerra fino alla sua morte.
“Il fatto che egli si rappresenti, nel romanzo, come una specie di Giove buono e sereno, un affettuoso e dolcissimo sovrano in esilio - sostiene Asor Rosa - circondato di questi nuovi esotici sudditi, può dare alla narrazione un tono indiscutibilmente paternalistico, ma è anche il motivo per cui fra l’intellettuale raffinato venuto dalle contrade del Nord e questa civiltà arcaica, lontana da lui originariamente diecimila anni, si stabilisce un tentativo di reciproca comprensione, uno sforzo di intendersi e di apprezzarsi”.
La tesi di Asor Rosa è che Levi non svolge nel Cristo una polemica progressista nel significato più comune del termine. Egli presenta Levi come un populista che esercita più la pietà, la compassione, la rassegnazione o esalta del mondo contadino la bontà naturale della giustizia, la tenace diffidenza verso l’autorità, l’aspettativa messianica di una trasformazione totale. Ma riconosce che qui è la forza di Cristo si è fermato a Eboli perché il libro indica che esiste lì, nel mondo contadino, una riserva inesauribile di energia, che aspetta unicamente di essere riconosciuta e liberata.L’importanza quindi di Levi anche nella letteratura politica italiana sta nel fatto che, come giustamente osserva Asor Rosa, nel Cristo egli non svolge una polemica progressista nel significato comune del termine. Egli non ha da chiedere per i suoi contadini i diritti civili e politici; non pensa che essi possano diventare uomini solo facendone dei cittadini: Levi anche in questo si distingue, perché, più intensamente e profondamente di ogni altro, indovina nella civiltà contadina un complesso globalmente positivo di valori che non si tratta di disintegrare e di distruggere bensì di riconoscere e di conservare”.
Questo giudizio di Asor Rosa contiene i termini della polemica che si sviluppò intorno al libro, a questa “bibbia” del mondo contadino che il “profeta” piemontese ha scritto dopo l’incontro con il “popolo” meridionale.
ll mondo dei contadini del Sud assume infatti il significato di una “scoperta” politica e sociale da salvaguardare.
Giustamente G. Manacorda aveva valutato il libro come una scoperta non solo artistica ma di “civiltà”, osservando che, “dalla corrente di reciproco amore che si stabilisce tra Levi e il mondo lucano, nasce un opposto atteggiamento dello scrittore nei confronti della piccola borghesia parassitaria, i “luigini” (dal nome del maestro elementare gerarca fascista di Gagliano, questo è il nome che Levi dà nel libro al paese di Aliano) opposti ai contadini che è l’altra faccia del Sud sovrapposta e inautentica. Allora questa classe costituiva la spina dorsale del fascismo meridionale e fu facile per lui individuarla nella sua meschina funzione reazionaria alla quale intendeva contrapporre la ricchezza, l’integrità e l’autenticità della civiltà contadina” (G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea).
Carlo Levi spiega bene le ragioni per cui tutto ciò che cerca di penetrare “esternamente” in questo mondo contadino, lasciato però “immobile”, non può che essere un tentativo destinato al fallimento.
“Il mondo contadino”, osservava, “si esprime autonomamente, diventa reale con l’azione e con la poesia; gli interventi esterni sia delle organizzazioni sia degli intellettuali possono essere vitali e preziosi purché abbiano coscienza di essere esterni, di non doversi sostituire ma di dover aiutare questo sviluppo autonomo.
Per questo sono sterili gli interventi statali, come la riforma, la Cassa per il Mezzogiorno ecc. in quanto fatti dal di fuori, in modo paternalistico. Per questo è inefficace l’azione della scuola, non differenziata, non aderente alla vita del paese. Per questo è sterile l’opera, a volte nobilissima e seria, degli intellettuali liberali, dei meridionalisti di città, col loro schematismo e il loro malinteso crocianesimo, per questo è sterile ogni azione culturale e organizzativa in quanto conservi una forma schematica ed esterna, per questo anche la Chiesa ha trovato tanta difficoltà nel Mezzogiorno ed è stata costretta sempre a delle posizioni di compromesso.Osservazioni giustissime che, però, partivano dal presupposto di una “civiltà” che avesse in sé la possibilità di inserirsi nel mondo moderno e non fosse, invece, condannata da un intervento che la distruggerà crudelmente dall’interno, e che sarà costituito dalle forze cieche ma inevitabili dell’industrializzazione del Nord e della tecnologia livellatrice e nemica di ogni “autonomia” sociale. Ma queste osservazioni sono premature. La tesi di Levi ha odore di zolfo non solo per gli intellettuali crociani, illuministi e riformisti, che si ispirano alla tradizione del meridionalismo “storico” dei Fortunato o dei Salvemini, con l’aggancio dell’eterodossia di Dorso, che credeva all’utopia della funzione rivoluzionaria di una borghesia umanistica convertita, per chissà quale miracolo intellettuale e politico, che naturalmente non si verifico, alla “rivoluzione meridionale", ma anche per gli intellettuali comunisti. Portabandiera di questa polemica fu Carlo Muscetta, che si impegnò a richiamare l’attenzione su quelli che egli riteneva “aspetti reazionari, impliciti ed espliciti” della concezione di Levi della civiltà contadina. Levi si trovò quindi, anche se formalmente era su posizioni di sinistra, al centro di una polemica che veniva dagli intellettuali comunisti, sia pure divisi fra loro, e dai meridionalisti crociani, eredi del meridionalismo classico. Le sue tesi hanno comunque influenzato il gruppo di Comunita, fondato da un industriale illuminato, Adriano Olivetti, che si occupa dei contadini dei Sassi di Matera, e crea il villaggio sperimentale La Martella. Nel volume di uno dei più stretti collaboratori di Olivetti, Riccardo Musatti, studioso anche di urbanistica, La via del Sud, ci si può accorgere come, attraverso il mondo espresso da Levi e soprattutto quello descritto dal “sindaco” Scotellaro (fu giovanissimo sindaco del suo paese natale, Tricarico), in contrasto con le tesi dei Fortunato e dei Dorso e dello stesso Gramsci, si coglie la realtà di una “civiltà contadina” che si esprime nella “città contadina” e nel “borgo”. L’autore riferisce il giudizio di un sociologo americano, uno dei tanti che negli anni cinquanta pullulavano soprattutto in Lucania: “Quello che incanta e spaventa nel Mezzogiorno d’Italia è il carico di storia e di ancestrale sapienza che grava su ogni manifestazione umana, anche su quelle formalmente più misere e primitive, regolandone il corso. Una sedimentazione psicologica plurimillenaria ha dato a queste forme di vita una ragion d’essere e un loro equilibrio giustificati e stabili che, forse, pur con tutti i loro aspetti indubbiamente negativi, sarebbe pericoloso condannare e distruggere senza averli prima penetrati”.
E anche Manlio Rossi Doria, studioso agrario, erede della tradizione di Fortunato, rileva l’importanza del grande borgo contadino: “Se i contadini vivono nei grossi borghi, ciò si deve al fatto che questi rappresentano l’unico possibile centro della loro disperata e mutevole impresa”.
Ed è nel borgo infatti che la “civiltà contadina" si è realizzata ed è con la disgregazione del paese contadino, del borgo, creata dall’emigrazione e dall’urbanesimo, che si è avviata alla decadenza.L’intuizione di Carlo Levi è, quindi, quella della grande importanza del mondo contadino nella trasformazione dell’Italia se esso fosse stato usato come forza “rivoluzionaria” nel Sud. Ma su questa visione della funzione delle masse contadine esisteva una divisione profonda nella sinistra. C’erano coloro che volevano utilizzare per fini rivoluzionari, che sappiamo oggi irrealizzabili, il malcontento e la protesta contadina, che si espressero, subito dopo la fine della guerra, in manifestazioni di massa sfociate nell’occupazione spontanea delle terre o (secondo una tradizione storica che risale a secoli addietro) nella fondazione di “repubbliche indipendenti” come quelle, per restare in Basilicata, di Pisticci e di Irsini, in cui elementi della borghesia capeggiarono rivolte condannate a priori all’insuccesso. Appena lo Stato (bastarono spesso pochi giorni) ne ebbe la forza, le “repubbliche contadine" vennero cancellate dai carabinieri o dai poliziotti.
Altri episodi si rifacevano alle tradizionali jacqueries contadine, che si concludevano con l’incendio dei municipi o dell’ufficio delle tasse e, talvolta, come accadde ad Andria in Puglia, con la devastazione dei palazzi dei “baroni” proprietari e l’uccisione di qualcuno di loro. Alcuni esponenti di sinistra intendevano, invece, indirizzare la protesta contadina in senso gramsciano, costituendo finalmente quella alleanza con gli operai del Nord su cui Gramsci aveva costruito le prospettive di una reale avanzata e trasformazione in senso comunista della società italiana. In realtà, alla fine, è prevalsa la subordinazione del mondo contadino: la potente spinta costituita dall’aspirazione alla terra fu imbrigliata e lo “zoccolo” delle masse contadine del Sud venne utilizzato per fini diversi da quelli che Levi aveva indicato.
Queste due tendenze, una pragmatica e l’altra generosa e sincera anche se utopistica, come sempre càpita nel Partito comunista, hanno non solo condannato, insieme con altri fattori, interni e internazionali, la civiltà contadina ma anche bloccato le possibilità di avere un equilibrato sviluppo del Mezzogiorno.
Qual è il motivo profondo di questa scelta del PCI che, probabilmente, evitò all’Italia lo stesso destino di una guerra civile che ebbe invece la Grecia con le conseguenze che sappiamo?
La risposta la troviamo nel saggio dello studioso inglese Sidney G. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, il quale scrive: “Il PCI difficilmente è portato a mettere in atto una politica classista in un siffatto ambiente sociale. Esso si indirizza anzi verso una politica di tipo solidaristico, distorcendo il tema gramsciano dell’alleanza tra operai e contadini in un tema frontista, e sopprimendone gli elementi classisti in favore di quelli tesi ad accentuare la necessità di una “unità” di tutti gli strati sociali di fronte al colonialismo settentrionale”.
Sono quindi vari i motivi per cui viene soffocata l’autonomia contadina, che era stata così ben illuminata dall’opera di Carlo Levi.
La posizione di Carlo Levi è stata sempre contraria a questa linea politica. Ecco perché, anche se oggi si tende a dimenticarlo, si verificò una coincidenza obiettiva tra le critiche dei meridionalisti di ispirazione “classica” che si richiamavano a Giustino Fortunato, De Viti De Marco, Nitti e le critiche di intellettuali e dirigenti comunisti anche di grande fede rivoluzionaria, come per esempio Mario Alicata, verso quella che veniva considerata non tanto un’utopia magica, una follia quasi poetica, nella concezione di una civiltà globale espressa dalle masse contadine ma, piuttosto, una pericolosa fonte di estremismo o comunque una interpretazione politica in contrasto con il realismo togliattiano, già consapevole dell’impossibilità di una prospettiva rivoluzionaria in un paese destinato, dagli accordi di Yalta, al blocco occidentale.Personalmente ho sempre manifestato perplessità sulla concezione della civiltà contadina come capace di ispirare una società moderna di cui era invece convinto Carlo Levi. Ma non appartenevo neanche a coloro i quali ritenevano che i valori della civiltà contadina dovessero essere inevitabilmente destinati alla distruzione. Qualsiasi intellettuale meridionale, del resto, dovrebbe riconoscere che la civiltà meridionale esisteva e potrà continuare ad esistere solo se non perderà il legame, se non con quel mondo contadino ormai quasi scomparso, con tutto quel complesso di valori storici che esso aveva custodito.
E’ vero che, ai tempi di Carlo Levi, il rapporto tra Stato e mondo contadino era distorto e talvolta oppressivo, ma è anche vero che se oggi l’urbanesimo meridionale è così malato, se oggi mafia e camorra hanno ramificazioni così vaste, ciò dipende anche dalla scomparsa proprio di quella che alcuni continuano a considerare, ignorando tra l’altro l’antropologia moderna, una civiltà inferiore, la “civiltà contadina”.
Certo il punto di vista critico dei marxisti sulla visione che Levi cerca di imporre anche politicamente della “civiltà contadina” è differente da quello dei meridionalisti di estrazione liberaldemocratica di cui il principale esponente è stato Francesco Compagna, che polemizzava tra l’altro molto con l’impostazione meridionalista dei comunisti. Tuttavia sia i comunisti sia Compagna finirono con il coincidere nell’esigenza di puntare tutte le politiche per il Mezzogiorno sulla industrializzazione e quindi sull’importazione dall’esterno di una cultura imprenditoriale che avrebbe dovuto impregnare la piccola e media borghesia, condannata pero giustamente da Levi col termine di “luigini”, alla sua vocazione storica di mediazione clientelistica nei confronti dello Stato.
C’è voluto il fallimento dell’industrializzazione senza sviluppo con lo sperpero di migliaia di miliardi di lire di “incentivi” a fondo perduto o a tassi privilegiati in gran parte assorbiti dalle grandi imprese pubbliche o private del Nord, e c’è voluto poi il terremoto del novembre 1980 quando l’Italia, attonita, scoprì l’esistenza ancora della civiltà contadina dell’Irpinia e della Basilicata, sotto i ruderi delle masserie e dei borghi contadini, dai nomi ignorati o ormai dimenticati, per ammettere che i contadini avevano dimostrato (quelli che non erano emigrati) capacità imprenditoriali autonome nelle imprese agricole e nelle piccole e medie aziende artigianali, molto più dei “luigini”, maestri di scuola o impiegati comunali. Il rapporto che Manlio Rossi Doria, amico di Carlo Levi ed erede di Giustino Fortunato, scrisse sulle condizioni dei paesi del cratere, che coincidevano con i paesi della civiltà contadina, confermava, anche sul piano tecnico ed economico, una scoperta, quella dell’energia autoctona delle civiltà contadine, che era stata considerata, quaranta anni fa, come soltanto una scoperta poetica da parte di Carlo Levi.
Il più autorevole critico di parte marxista della concezione di Levi della civiltà contadina fu Mario Alicata, intellettuale d’ingegno senza dubbio acuto ma anche superbo, il quale, parlando di Rocco Scotellaro, riconosceva che il filone meridionalista a cui il poeta e scrittore tricarichese si ispirava aveva il suo esponente più rappresentativo in Carlo Levi. Pur rendendo omaggio complessivamente all’opera pittorica e letteraria di Carlo Levi, Alicata esprimeva un giudizio molto severo accusando Levi di “vechiezza” e di allontanare il Mezzogiorno “più che l’India e la Cina” dal quadro della nostra conoscenza oggettiva.La polemica tra i comunisti e Levi proseguì fino oltre la metà degli anni Cinquanta anche a proposito del libro di Rocco Scotellaro, I contadini del Sud, e del suo romanzo autobiografico, L’uva puttanella, pubblicato con una prefazione di Carlo Levi. Levi e Scotellaro erano considerati, a torto o a ragione, quasi in simbiosi di padre e figlio.
Innegabilmente il testimone e l’interprete più diretto sul piano letterario e poetico della “civiltà contadina” teorizzata da Carlo Levi è Rocco Scotellaro, nato a Tricarico in Lucania. Fu grande l’influenza che su di lui ebbe Carlo Levi, ma sarebbe sbagliato considerare lo scrittore lucano, morto nel 1953, giovanissimo, a 33 anni, una sua filiazione. Mentre per Levi il mondo della civiltà contadina, pur avendo una dimensione politica e sociale di cui egli si era fatto banditore, era, tuttavia, immerso nel mito della memoria, per Scotellaro era una realtà di cui egli, personalmente, da dentro, interpretava il dramma presente, le aspirazioni, le contraddizioni interne come i momenti di speranza e il destino fatale di inarrestabile dissoluzione.
Scotellaro era consapevole di questo suo obiettivo, come dimostra l’appunto che inviò all’editore (Vito Laterza) della sua inchiesta-incontro, I contadini del Sud, intitolato Per un libro sui contadini e la loro cultura: “I contadini dell’Italia meridionale, il Mezzogiorno continentale e le isole, formano ancora oggi il gruppo sociale più omogeneo e antico per le condizioni di esistenza, per i rapporti economici e sociali, per la generale concezione del mondo e della vita. L’analisi dei fattori componenti la “civiltà contadina” è stata fatta da cultori interessati secondo le varie direzioni storiografica, economica, sociologica, etnologica, letteraria, politica, ma la Cultura italiana sconosceva la storia economica dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista”.
Era chiaro l’obiettivo che Rocco Scotellaro si proponeva.
In una lettera a Ruggero Grieco, parlando sempre del suo lavoro, diceva: “Attraverso quel suo personaggio (un contadino leccese di cui chiedeva notizie al Grieco) gli altri che io so e altri ancora, può essere ricostruita la storia delle lotte, delle speranze e delle aspirazioni dei contadini, visti, oso credere, al centro e sulla strada dei loro problemi”. Scotellaro nel libro I contadini del Sud e nel romanzo autobiografico L’uva puttanella scopre il mondo dei “padri contadini”.
Scrive Levi nella prefazione ai due volumi usciti nell’edizione economica Laterza del 1964: “Rocco è del tutto nel mondo contadino, parte di esso per nascita, per costume, per lingua, per solidarietà di natura e insieme ne è necessariamente fuori per la sua qualità espressiva. Anche per lui, nel suo rapporto col mondo contadino, esiste una necessità iniziale di scoperta (che è insieme la scoperta di se stessi) di un moto verso di esso. Quel mondo da principio è il mondo dei Padri, dei Padri contadini (come li chiama in tante poesie) e gli sono misteriosi come lo sono i Padri. Il mondo dei Padri è un mondo chiuso e immobile nel quale si può entrare ma dal quale è necessario il distacco:
un padre che ama i suoi figli
può solo vederli andar via”.Questi antichi padri sono legati da un patto, dal patto contadino: “Ogni giorno sono entrato nel mondo loro, chiuso da un patto incrollabile”, scrive Rocco nel ’49.
Nel 1956 L’uva puttanella di Scotellaro segnò il culmine della polemica estetica e politica sul tema della civiltà contadina e della letteratura meridionale proprio negli anni in cui in quella civiltà cominciava a profilarsi, in senso ben diverso dalle speranze di Levi, un tramonto culturale e un destino di estinzione senza riscatto. Il giudizio di Carlo Muscetta, nel saggio Rocco Scotellaro e la Cultura dell’uva puttanella, per quanto caldo e comprensivo sul piano della validità artistica dello Scotellaro, rivela la diffidenza della critica marxista Verso le “zoppe ideologie della civiltà contadina” a cui contrappone lo scritto dell’abate Vincenzo Padula, Sullo stato delle persone in Calabria, come un esempio di saper vedere la “civiltà contadina” nel tempo e nella storia.
Abbiamo citato questo giudizio su Rocco Scotellaro (che in realtà riguardava Carlo Levi e tutta la sua concezione della civiltà contadina) proprio perché esso dimostra che, al di là della mitologia leviana che pure faceva sentire il suo peso barocco, non si voleva, da parte marxista, riconoscere alla civiltà contadina una forma di espressione autonoma capace di generare anche delle energie di trasformazione sociale.
Un esempio clamoroso della incapacità di capire tutto è dato proprio dall’intervento dello Stato nei “Sassi” di Matera evacuati ma oggi abbandonati alla degradazione; essi invece rappresentavano il centro principale, non solo dal punto di vista urbanistico ma dal punto di vista storico e artistico, della civiltà contadina, e a cui Levi ha dedicato nel Cristo le pagine più poeticamente belle.
Architetti progressisti e sociologi di avanguardia sono stati così, di fatto, gli alleati del malgoverno perché, emarginando dal loro piano urbanistico tutta la zona dei “Sassi”, hanno contribuito alla distruzione di un patrimonio di inestimabile valore artistico, culturale, storico e materiale, calcolabile, oggi, in centinaia di miliardi di lire; una sorte che tocca del resto anche a tanti altri monumenti storici dei paesi piccoli e grandi del Mezzogiorno.
Ma quale fu il ruolo di protagonista politico di Carlo Levi nel Mezzogiorno? Egli accettò l’offerta di presentarsi come indipendente nelle liste del PCI per le elezioni al Senato nel 1963, quando viene eletto senatore e fu rieletto nel 1968. Nel 1970 fonda la Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie) e ne fu presidente fino alla sua scomparsa, avvenuta a Roma il 4 gennaio 1975.Il Partito comunista ricorse a Carlo Levi, cui tanti suoi intellettuali avevano rimproverato di mitizzare il mondo contadino, proprio quando ebbe bisogno di un grande intellettuale che continuasse a mantenere un dialogo con quel mondo sia pure disperso di cui in parte ancora viveva nei borghi e nelle campagne meridionali, ma un’altra parte, forse la principale, era finita nei suburbi, nelle periferie, nelle baracche, nei lager delle grandi metropoli industriali industriali del Nord Italia, della Germania, della Svizzera, del Belgio e di altri paesi dell’Europa industrializzata.
Possiamo solo accennare a questa seconda parte della vita di Carlo Levi, che riflette però sempre il senso con cui egli guardò al Mezzogiorno. Basta ricordare ancora prima della sua elezione i suoi interventi nel luglio 1960 contro il governo Tambroni, la sua partecipazione al Movimento della Nuova Resistenza e successivamente nella sua attività parlamentare e nei suoi discorsi al Senato, come egli ebbe la capacità di esprimere giudizi indipendenti su una certa politica di cui colse la tendenza a determinare la trasformazione del paese, sacrificando allo sviluppo industriale del Nord il mondo contadino del Sud. Levi non si stancò mai di denunciare, come presidente della Filef, le carenze dello Stato ma, soprattutto, lo spreco di preziose energie umane e il fatto che i contadini del Sud ancora una volta uscivano, senza che quasi alcuno se ne curasse, dalla storia italiana alla quale pur tuttavia, con le “rimesse”, portavano un contributo enorme al cosiddetto miracolo economico, attraverso migliaia di miliardi di valuta pregiata.
Alla fine degli anni Cinquanta interviene la grande crisi della società italiana che ancora ci travaglia, determinata dal conflitto profondo fra sviluppo moderno e mondo antico. Il risultato è che la situazione del Sud non è più immobile. Il mondo contadino che era rimasto intatto perché era rimasto isolato e investito anch’esso, anzi soprattutto esso, dalla dinamica distruttiva della società tecnologica e di consumo, pagando un prezzo altissimo perché il risultato e la situazione di caotica ed endemica depressione culturale e civile dei centri meridionali, tagliati fuori dal “miracolo” industriale e produttivo, ma ormai anche da ogni legame organico con una civiltà contadina che li nutriva anche se ne era oppressa. I valori veri che essa tuttavia conteneva, sono travolti e corrotti insieme con i simboli senza speranza del passato. La situazione drammatica in cui versa ora la società meridionale è la prova di come la civiltà contadina, che aveva rappresentato una funzione così importante nella cultura italiana, e recuperabile solo alla luce di un passato che fu vero e fu poetico. E da questo punto di vista, Carlo Levi costituisce un testimone prezioso e inestimabile.Le cose dunque sono andate diversamente. Questo non significa, però, che Carlo Levi sia stato solo un poeta mitizzatore di un mondo creato dalla sua fantasia o, come qualcuno ha sostenuto nel decennale della sua motte, ricordando un giudizio di alcuni critici francesi, solo l’autore del “più bel libro scritto da un ebreo dopo la Bibbia”; l’autore, quindi, in definitiva, di un “falso” dal punto di vista antropologico, sociologico e politico. In realtà, chi esamina contemporaneamente il Cristo è l’impegno politico di Levi, il rapporto tra Carlo Levi e Rocco Scotellaro e intuisce tutto il contesto della realtà sociale in cui egli operò, si rende conto che Levi ha indicato delle soluzioni anche politiche, ha imposto all’opinione pubblica italiana, nel dopoguerra, che i problemi del Mezzogiorno non fossero ignorati e ha spiegato che i contadini meridionali avevano il diritto di rientrare nella storia Levi ha dimostrato che la loro assenza dalla storia non era il frutto di un loro rifiuto ma l’effetto o la conseguenza della loro difesa dall’oppressione statale, in definitiva, dell’affermazione della loro libertà.
Carlo Levi diceva che i poeti sono più autentici dei politici ed egli si è sempre battuto contro ogni programmazione autoritaria.
Per lui, anche se idealizzata, la civiltà contadina era il simbolo dell’autonomia dal basso, della molteplicità fantasiosa del mondo popolare, della libertà sia pure anarchica dell’individuo.
Questi valori di libertà egli li ritrovava nella inventività della società contadina che è ancora la radice della parte più sana del Mezzogiorno. Se non ci richiamiamo a questo concetto della libertà cui ispirò la sua vita (il suo primo libro, scritto in Francia nel 1939 quando andò in esilio dopo il confino, era intitolato appunto Paura della libertà, che è un filone fondamentale nell’opera di scrittore e di artista di Carlo Levi) non capiremo come affrontare oggi, in modo nuovo, i problemi che si prospettano al Mezzogiorno e all’Italia, ma non capiremo neppure perché la “civiltà contadina” non fu solo un mito poetico di Carlo Levi. Essa era un complesso di valori sociali e morali, una concezione della vita in cui l’antica pietas pagana si mischiava alla rassegnazione cattolica da una parte e alla speranza cristiana dall’altra in un destino migliore per tutti gli uomini.
Fonte: Carlo Levi e la civiltà contadina (Carlo Levi e la civiltà contadina, in Il paese di Carlo Levi, Cariplo-Laterza 1985)
1993 - Carlo Levi
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