garganovede, il web dal Gargano, powered in S. Marco in Lamis

Giovanni Russo, Sud specchio dell’Italia, con Introduzione di Francesco Erbani, Liguori Editore Napoli 1993
Francesco Erbani, nato a Napoli nel 1957, giornalista, caposervizio alla Quotidiani Associati, collabora al quotidiano la Reubblica. Ha pubblicato un’antologia degli scritti sulla Questione meridionale ne Il Mondo di Pannunzio, Laterza, Bari, 1990 e una storia del giornalismo meridionale ne La Storia del Mezzogiorno diretta da G. Galasso e R. Romeo, ESI, Napoli, 1989. L 35.000 (dal risvolto del libro)
Introduzione
di Francesco Erbani
b_297_450_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._074.jpgSolo qualche anno fa nessuno avrebbe previsto che l’editoria, i grandi mezzi di comunicazione potessero dedicare al Mezzogiorno qualcosa di più che un superficiale sguardo carico di commiserazione e di sussiego. E invece, ecco che l’argomento ha fatto irruzione al centro del dibattito nazionale. E’ una discussione a tratti affannata, non del tutto libera dai condizionamenti della retorica, del fastidio, dei luoghi comuni che hanno appesantito nei decenni passati molti dei discorsi sulle sorti della società, dell’economia e della cultura meridionali. A tratti rumorosa, ai limiti del roboante, giocata più sulla corda della suggestione e dell’invettiva che su quella dell’analisi, dell’indagine a tutto campo e su dati certi. Cercando di farsi largo fra i toni oracolari di alcuni e i ripiegamenti nostalgici di altri, c’è chi non si rassegna ad abbandonare definitivamente il Mezzogiorno al suo destino di degrado, alla morsa vorace delle varie mafie, alla fine della sua storia. Le stragi di Palermo hanno scosso un’opinione pubblica intorpidita, hanno mostrato il volto di un Mezzogiorno non rassegnato, che dibatte e che si divide, ma che solo il tritolo può ridurre al silenzio. Il ciclone dell’inchiesta giudiziaria milanese ha travolto il mito di un’Italia irrimediabilmente divisa in due, da una parte le regioni del malaffare, dall’altra quelle in cui l’etica del lavoro e della produzione può librarsi senza i vincoli della politica e senza intersecarsi patologicamente con essa.
Il divario cresce anche al di là dei dati economici, investe ormai i contenuti di civiltà che caratterizzano un consorzio umano, ma il regime della corruzione ha fenomenologie diverse e non zone franche.
A ridar vigore alla polemica meridionalista c’è anche l’esigenza di rinnovare alla radice il suo linguaggio e dunque l’analisi delle condizioni del Mezzogiorno e delle proposte per curare i mali che l’affliggono. Di fronte all’aggressione criminale, alla crisi in cui sono precipitate le istituzioni dello Stato nel Mezzogiorno, al rapido venir meno delle condizioni minime della convivenza civile e al retorico balbettio del ceto politico meridionale, molti avvertono forte il bisogno di rompere con la tradizione di un meridionalismo piagnone, ormai capace solo di rinnovare la richiesta di sempre maggiore assistenza, e che non può tener testa alla marea montante delle invocazioni secessioniste, di frequente camuffate da un federalismo di convenienza, al riemergere di antichi pregiudizi sulla inferiorità antropologica e culturale delle popolazioni meridionali, accompagnate da venature razzistiche. La contestazione dell’assetto unitario del paese, fino a qualche anno fa assolutamente improponibile, ora si insinua in molti settori della società italiana, l’attraversa, scavalca steccati di classe, ignora antiche divisioni ideologiche, penetra in ambienti insospettabili, diventa argomento di polemica intellettuale, genera suggestioni, tenta di nobilitarsi con argomenti politici e culturali. Al cospetto di questa inattesa offensiva, il repertorio concettuale del vecchio meridionalismo ha definitivamente mostrato la corda.
La proposta di abolire con un referendum la gran parte della legge che regola l’intervento straordinario, che ha raccolto proprio al Sud una messe di consensi, ha anche fatto emergere un dato che rischia di finir sovrastato dal frastuono delle opposte retoriche: la critica a fondo di come lo Stato è intervenuto nel Mezzogiorno è stata la cifra, da Pasquale Villari in poi, del meridionalismo classico che ha legato i problemi del Sud alle politiche nazionali. Questo è il tratto che ha sempre distinto le analisi e le proposte per lo sviluppo delle regioni del Sud di Giustino Fortunato, di Francesco Saverio Nitti, di Gaetano Salvemini, di Guido Dorso, di Antonio Gramsci, di Tommaso Fiore, di Francesco Compagna, di Manlio Rossi Doria e di Pasquale Saraceno da quelle dei tanti corifei del vittimismo meridionale, dei “leghisti del Sud”, degli eredi di Edoardo Scarfoglio che ancora pontificano sulla stampa del Mezzogiorno, dei professionisti del sottosviluppo. Dei cosiddetti “meridionalisti di Stato", di coloro che hanno lucrato e che hanno fondato il proprio potere sul divario fra il Sud e il resto d’Italia.
La ripresa del dibattito può dunque mettere in evidenza il carattere strumentale della critica leghista al modo in cui lo Stato si è comportato nel Mezzogiorno. E non solo per certe sue assenze, così vistose e così preoccupanti, ma per come è stato ed è presente, ma per la sua amministrazione inefficiente a tutti i livelli, comunale, provinciale e regionale e per la commistione fra politica ed affari.
b_450_281_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._089.jpgPiù che rifondarsi, il meridionalismo ha bisogno di tornare alla sua concezione originaria, riscoprendo quella carica di opposizione affievolita e spenta quando la politica meridionalista si è ridotta alla semplice richiesta di sempre maggiori risorse finanziarie. Questo era il senso che Giovanni Russo lanciava già nel 1979, concludendo l’introduzione alla nuova edizione di Baroni e contadini.
“Il meridionalismo”, scriveva Russo, “ha avuto un significato e una funzione, non solo per la storia del Mezzogiorno, ma per la storia d’Italia, quando ha rappresentato il nucleo di una critica politica di opposizione democratica. E’ necessario che esso ritorni a sottoporre al vaglio di un esame impietoso sia l’attività dei partiti politici nel Mezzogiorno, sia quella dei sindacati, sia le iniziative del governo, sia i programmi dell’industria pubblica e privata. Solo se riprenderà il compito che gli è proprio, potrà ricostituire quelle minoranze combattive alle quali si deve se, agli inizi del nostro secolo, la consapevolezza del problema meridionale entrò a far parte della coscienza nazionale”.
In questi dieci anni, in centinaia e centinaia fra articoli e saggi (solo una piccola parte dei quali vengono raccolti in questo libro), Russo ha battuto altre piste rispetto alla maggioranza di coloro che si sono occupati del Mezzogiorno. Al centro della sua polemica non c’è stato tanto e solo il problema dell’entità della spesa, del volume delle risorse impegnate per ridurre il divario fra le due aree del Paese, quanto la ricerca delle cause strutturali, politiche oltre che economiche, del mancato sviluppo del Mezzogiorno, nonostante quelle risorse. Russo ha individuato il raggrumarsi di interessi intorno ai trasferimenti finanziari indirizzati al Sud con la formazione di nuovi “blocchi sociali” di stampo neo-feudale e spesso in rapporto con la criminalità, che hanno dirottato a proprio esclusivo vantaggio parte consistente della spesa pubblica per il Mezzogiorno, ostruendo o distorcendo ogni possibilità di sviluppo per le regioni meridionali. La sua attenzione si è quindi rivolta alla qualità stessa della vita civile nel Mezzogiorno, alla formazione e all’autoconservazione del ceto politico, al ruolo della cultura, all’urbanesimo malato, a una criminalità che ormai inquina molti settori della politica e dell’economia, guardandosi bene dal ridurre l’analisi a puri parametri numerici, da quelli indicanti il reddito o i consumi, e cercando le radici del dissesto nel secolare divorzio fra i ceti dirigenti e la cultura, nell’idea della politica come pura gestione del potere, nell’indifferenza da parte delle classi di governo verso l’istruzione e le risorse intellettuali e verso una grande tradizione filosofica e civile.
E’ qui che trae origine il rilievo prestato alle minoranze intellettuali, a quei Centri di Cultura come l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che hanno concepito la ricerca e l’indagine in stretto raccordo da una parte con le più importanti istituzioni accademiche straniere, dall’altra con i bisogni di una società che chiede, attraverso la filosofia, una più stringente comprensione del presente.
b_400_320_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._091a.jpgAll’inizio degli anni Settanta, apparivano già evidenti le degenerazioni dell’intervento dello Stato nel Mezzogiorno. Pochi, però, erano disposti ad ammettere il fallimento di un progetto intorno al quale si erano cimentate, a partire dal dopoguerra e poi nei primi anni Cinquanta, le migliori intelligenze di provenienza Cattolico-democratica e laico-progressista.
In una inchiesta in più puntate pubblicata sul Corriere della Sera nel 1973, che destò molte polemiche, Russo scriveva: “Invece di essere un organo propulsivo di programmazione, un’ideatrice di progetti, la Cassa continua ad essere una “Cassa” di risonanza delle esigenze di questa o quella corrente del partito di maggioranza. I progetti di opere pubbliche non sono quindi scelti secondo criteri obiettivi di interesse economico in un quadro di programmazione, ma dipendono dalle necessità elettorali di questo o quell’uomo politico non solo democristiano. In sostanza quando sono diventate maggiori le disponibilità finanziarie, non si è pensato a mutare indirizzo, ma è solo aumentata la possibilità per il notabile o ministro democristiano di ottenere la “grande opera” (strade inutili, aeroporti sbagliati, o porti inefficienti). La grande opera si lega così al nome del notabile. A questa politica non sono estranee pressioni di imprese e progettisti che, in cambio dell’appalto, possono dare contropartite ai partiti. La Cassa, inoltre, non esegue i progetti direttamente ma li dà in appalto a Enti Concessionari, che sono spesso gli Enti di riforma o di irrigazione che, in questo modo, possono ricavare i fondi per pagare gli stipendi ai loro numerosi impiegati “sistemati” quasi sempre per favoritismo politico” (1).
Vent’anni dopo, lo schema di questa alleanza improduttiva che impedisce uno sviluppo corretto e duraturo del Mezzogiorno può essere riproposto con i soli aggiustamenti riguardanti l’identità di quei soggetti, non tanto la loro funzione. Cambiano gli attori, ma non il canovaccio della recita. In altri termini, che poi sono i termini posti da Russo al centro della riflessione sulla questione meridionale negli anni Ottanta, la vita pubblica nel Mezzogiorno appare dominata da un blocco sociale parassitario capace di drenare a proprio piacimento i flussi di danaro destinati alle regioni meridionali.
Sebbene ancora con difficoltà, questo modo nuovo di leggere la questione meridionale tende a farsi strada fra il frastuono delle leghe settentrionali, lo sdegnoso arroccarsi di tanti leghisti del Sud e chi nel Sud scorge solo le fiamme dell’inferno. Non si tratta, invero, di una svolta nelle categorie di interpretazione del mancato sviluppo meridionale. Piuttosto, del recupero delle ragioni della polemica e dell’opposizione del meridionalismo e del fermento di idee maturate durante il fascismo e poi sviluppatesi nei cenacoli liberaldemocratici de Il Mondo e di Nord e Sud, in quelli cattolico-democratici della SVIMEZ e in quelli marxisti di Cronache meridionali.
Nel suo Rapporto sullo stato dell’economia nel Mezzogiorno del 1990, la SVIMEZ scrive che “la rete dei rapporti che nel Mezzogiorno oggi intercorrono tra emergenza continua di molteplici bisogni sociali, controllo politico sulla gestione di risorse pubbliche e interessi delle imprese a vario titolo dipendenti da tale gestione, sembra configurare un blocco sociale, molto più radicato e diffuso, e quindi molto più forte, del vecchio “blocco agrario” che fu, fino agli anni ’50 di questo secolo, il bersaglio del meridionalismo classico”.
A questo nuovo “blocco sociale" i ricercatori della SVIMEZ fanno risalire l’esaurimento di fatto della politica meridionalistica, il suo deragliare dagli obiettivi di programmazione generale dell’intervento, dalle concatenazioni con la politica economica nazionale, e il suo incanalarsi in interventi parziali, a pioggia, destinati a soddisfare solo alcuni dei tanti bisogni espressi dalla società del Sud, quelli capaci di trovare nel politico di turno, talvolta nel capozona camorrista, il proprio più degno rappresentante.
Ma dagli articoli scritti da Russo nei primi anni Settanta, si puo già rintracciare questa preoccupazione per ciò che stava producendosi nel Mezzogiorno con la degenerazione particolaristica dell’intervento straordinario. Una preoccupazione che ha stentato a trovare udienza anche negli ambienti più attenti e scientificamente accreditati. In essi si intravede un filo conduttore in grado di rompere lo schema che troppo spesso ha ingabbiato il dibattito meridionalistico, appiattendolo su una serie di antitesi. Da una parte i fautori dell’intervento straordinario, dall’altra i suoi avversari; da una parte coloro che appoggiavano la soluzione industriale, dall’altra chi propendeva per uno sviluppo delle attività agricole; da una parte i fautori dei grandi insediamenti industriali, dall’altra gli assertori di una rete di piccole industrie.
b_400_92_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._091b.jpgAllora, quando per conto del suo giornale, Russo conduceva quella lunga inchiesta sulle condizioni del Mezzogiorno si era in un momento di passaggio della politica meridionalista, nel quale i partiti, le forze sindacali ed imprenditoriali, l’opinione pubblica si arrovellavano su un quesito: è possibile che, dopo 23 anni di intervento straordinario nel Mezzogiorno, dopo migliaia e migliaia di miliardi (allora ammontavano a 22 mila) spesi per incentivi a fondo perduto o a tassi agevolati, dopo il diluvio di progetti, di promesse, il concerto di illusioni e aspirazioni, è possibile, ci si domandava, che le cose fossero cambiate di poco, di molto poco? Sotto accusa era, genericamente, tutta la politica a favore del Mezzogiorno, in un unico fascio si inserivano questioni diverse, né si riusciva a distinguere fra i vari periodi dell’intervento straordinario. La massa di danaro convogliata nelle regioni meridionali appariva come un obolo generosamente elargito e slegato da ogni logica produttiva, lo sgravio di coscienza di una comunità nazionale che saldava il suo debito con assistenza, con integrazioni di reddito dall’esito incerto, incapaci, comunque, di attivare un ciclo di autonoma generazione di ricchezza.
Fu quella, in cinque puntate, un’inchiesta come si facevano un tempo. Più tardi, nel maggio del 1979, Giovanni Russo raccolse cifre e ragionamenti e scoprì che andavano benissimo per riproporre, con una nuova introduzione, Baroni e contadini, il libro che nel 1955 vinse il Premio Viareggio per la freschezza di quei reportage dalle terre del Fucino, dalle capanne di San Cataldo o dalle pietre di Gravina, scritti per Il Mondo di Mario Pannunzio. In prossimità dei trent’anni della Cassa, quel volume suonava come l’atto d’accusa di chi nell’intervento straordinario aveva creduto, in un’industrializzazione a misura delle regioni meridionali, della sua cultura, delle sue tradizioni e della sua morfologia, aveva riposto molte aspettative e che ora, nel silenzio acquiescente dei “meridionalisti di Stato" e nel trasformismo delle sinistre, non poteva che tenere il conto delle risorse pubbliche gettate al vento, in opere di gigantesca fattura, ma dal completamento incerto, o finite nelle tasche di pochi finanzieri (gli Ursini, i Rovelli) avventatisi su incentivi che riducevano al minimo la componente di rischio, una delle porzioni essenziali dell’etica capitalista.
b_400_221_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._092.jpgAll’arricchimento privato e alla dissoluzione del danaro pubblico in vecchi rottami come la Liquichimica di Saline jonica, o in faraoniche imprese come il traforo del Gran Sasso, corrispondeva un Mezzogiorno depauperato, avvilito, con un tasso di disoccupazione continuamente in crescita, un patrimonio di esperienze industriali strozzate da un credito che allargava i cordoni solo di fronte a garanzie politico-clientelari, e alcune isole di agricoltura moderna sbriciolate in un desolate panorama di ciminiere senza fumo e di porti senza attracchi. Alcune delle coste più famose d’Europa, alcuni dei paesaggi più celebrati per la mitezza dei pendii, per il ritmo dei colori erano stati sacrificati in nome dell’industrializzazione senza sviluppo, che trasferiva al Sud grandi aziende inquinanti, ad alta densità di capitali e a bassissima resa occupazionale.
Quegli articoli, quella introduzione a Baroni e contadini costarono a Russo l’accusa di sostenitore di uno sviluppo fondato sull’agricoltura o, al massimo, sulla trasformazione industriale dell’agricoltura. La critica a fondo del modo in cui lo Stato, i partiti, le burocrazie ministeriali avevano condotto l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, e, in particolare, l’industrializzazione seguita ai provvedimenti legislativi del 1957, veniva scambiato per un ripiego ruralista, per il vagheggiamento di una via bucolica allo sviluppo.
In polemica con Russo, pur non esplicita, si trovò anche Pasquale Saraceno, il quale, in una serie di articoli, scritti nel corso del 1974, sostenne che la spesa impiegata per quelle che venivano definite “cattedrali nel deserto”, grandi aziende, cioè, incapaci di stimolare altre attività industriali, era un’infima parte rispetto al totale delle somme impiegate nel Mezzogiorno e che, complessivamente, queste somme non raggiungevano lo 0,5 per cento del reddito nazionale (2).
C’era anche chi, comunque, era più sensibile al fatto che quel tipo di industrializzazione avesse fallito almeno uno dei suoi compiti, forse il principale: quello, appunto, di creare un tessuto produttivo.
Fra questi emerge Manlio Rossi Doria, che, in una relazione del 1977, pubblicava dei dati allarmanti circa l’aumento molto limitato degli addetti alle piccole e medie aziende nel Mezzogiorno. E così concludeva: “Ciò significa che il tessuto industriale nel Sud è rimasto povero di piccole e medie imprese, che costituiscono la struttura portante dell’apparato industriale del Centro-Nord e di ogni area industrializzata (…). Sta in queste cifre la condanna della politica industriale per il Mezzogiorno e la riprova che uno sviluppo industriale vero e proprio vi è totalmente mancato” (3).
Ma, al di là di questo, lo schema del dibattito meridionalistico veniva applicato con meccanica precisione: allo sviluppo industriale così come si era realizzato, con il privilegio assegnato ai grandi impianti inquinanti, ai finanzieri cacciatori di incentivi, alle opere pubbliche dai cantieri eterni, esisteva solo l’alternativa dell’orticello e dell’agrumeto. E non era tutto: completamente in secondo piano, invece, veniva posto il nodo dei nuovi poteri che si stavano creando nel Mezzogiorno, vere e proprie concentrazioni di interessi politici ed economici cui contribuivano le Partecipazioni Statali e grandi gruppi industriali del Nord che, sostituendosi al soggetto pubblico, dettavano le scelte economiche e imponevano la loro presenza quali protagonisti del mercato elettorale. Questa ridefinizione dei rapporti di potere nel Mezzogiorno sfuggiva anche ai partiti di sinistra che, Salvo eccezioni (significativa quella di Giorgio Amendola, sul finire degli anni Settanta), avevano appoggiato alcune delle scelte più discutibili, convinti che nuclei di classe operaia nel Mezzogiorno avrebbero rotto i vecchi equilibri sociali.
b_400_154_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._093.jpgIl profilo dei rapporti fra lo Stato e il Mezzogiorno, visto in controluce, appariva grosso modo lo stesso di sempre. Dal Centro si era badato a che la periferia più derelitta avesse comunque quel tanto che servisse a poter consumare quello che la periferia più fortunata produceva. Che cosa ne sarebbe stato dell’industria settentrionale se non ci fossero stati non solo la manodopera meridionale, ma il mercato meridionale? Nel Mezzogiorno erano state iniettate grandi dosi di sussidi e di assistenza, spesso esorbitanti le compatibilità della finanza pubblica e anche rispetto alla logica comune: ma, a parte i vantaggi che effettivamente ne avevano tratto le regioni meridionali, si poteva escludere che i primi beneficiati fossero stati coloro che invece di pochi, improvvisamente trovavano tanti clienti per le loro merci? Ricostruendo quarant’anni di intervento straordinario nel Mezzogiorno, la SVIMEZ è giunta alla conclusione che mai, come invocavano i meridionalisti, l’iniziativa dello Stato è rientrata nei programmi di politica economica più generale. L’intervento, oltre che il solo strumento di azione pubblica nel Mezzogiorno, è stato sempre settoriale e rispondente a logiche diverse da quelle di programmazione complessiva. “A dettare tali determinazioni sono sempre state - come forse era inevitabile - le esigenze, gli interessi, la capacita di elaborazione e di proposta, la forza di pressione delle componenti forti, concentrate nel Nord, dell’economia e della società nazionale”, scrive la SVIMEZ (4). Fu così all’inizio, negli anni Cinquanta, quando gli interventi di preindustrializzazione “contribuirono a ridurre la quota inutilizzata, inizialmente rilevante, della capacita produttiva settentrionale”. E fu così anche dopo, quando gli incentivi all’industrializzazione consentirono la costruzione di nuovi, grandi impianti nel Mezzogiorno (che faranno la fine di vendita a rottami che tutti sanno), attenuando al Nord la pressione dell’immigrazione che stava sconvolgendo gli equilibri sociali delle metropoli settentrionali (5).
In questo decennio, il Mezzogiorno raccontato negli articoli, nelle inchieste e negli editoriali e sempre lo stesso. La stampa nazionale si muove troppo a singhiozzo, cerca con cura le novità, ma poi il vecchio dualismo di arretratezza e di improvvisi splendori è rifugio troppo comodo. La stampa locale, pur con gli sforzi di molti cronisti, non riesce a riscattarsi da una storica subalternità ai centri di potere, appaltando le sue pagine agli sfoghi sudisti. Eppure il nuovo assetto della società meridionale, in particolare dopo il terremoto, va assumendo contorni sempre più precisi. Leggendo gli articoli che Giovanni Russo raccoglie in questo libro, si possono individuare il percorso seguito in questi anni dal Mezzogiorno e i termini nuovi acquisiti oggi dalla questione meridionale. Non c’è più un’area da aiutare, omogenea nel suo sottosviluppo. Questi articoli, che abbracciano il decennio che va dal 1980 al 1990, giungono trent’anni dopo il primo servizio pubblicato da Russo su Il Mondo di Pannunzio. Come allora, anche ora il Mezzogiorno è a un momento di svolta. I dati sui quali riflettere, dice Russo, non sono più quelli di un tempo.
Russo descrive un Mezzogiorno avvolto nelle spire di un “nuovo feudalesimo”, e denuncia il progressivo svuotamento dei centri del potere pubblico e la creazione di altri centri di potere, formati da politici locali e nazionali, amministratori, imprenditori e, talvolta, esponenti della criminalità organizzata, padroni del mercato, interlocutori esclusivi quando si tratta di opere pubbliche e ormai determinanti nelle scelte economiche. Il presupposto per l’esistenza e il successo di questo blocco sociale che si pone al di fuori della dialettica pubblico-privato è la perpetuazione ad libitum di un regime di straordinarietà che consente di violare sistematicamente le regole dell’ordinamento, dalle procedure di approvazione al rispetto dei vincoli urbanistici. Al centro di questa analisi, che spiazza molti luoghi comuni, in positivo e in negativo, sul Mezzogiorno, Russo pone il sistema delle concessioni, uno strumento divenuto ormai la norma per l’affidamento di grandi come di piccoli lavori pubblici, il vero protagonista della ricostruzione delle zone terremotate, la chiave per capire quello che succede in aree sempre più vaste del Mezzogiorno, il modello di una nuova modernizzazione senza sviluppo. Questo sistema e, più in generale, il rapporto fra imprenditoria e politica nel settore delle opere pubbliche, non è comunque prerogativa delle regioni meridionali e negli ultimi mesi si è rivelato uno dei puntelli con i quali si è retto per anni in tutta Italia un intero sistema politico altrimenti corroso.
La crisi del sistema produttivo allestito dalle Partecipazioni statali, la bancarotta in cui era precipitata l’industrializzazione a base di “cattedrali nel deserto” hanno provocato condizioni di grande sfavore. Ma in particolare un fenomeno ha agevolato questa nuova involuzione: l’attribuzione agli enti locali, alle regioni, di un ruolo decisivo sulla scena meridionale (6). Non più, come un tempo, soltanto regolatori dell’assistenza pubblica, distributori, spesso secondo logiche clientelari, di sussidi e di integratori di redditi, gli enti locali e le varie articolazioni periferiche dello Stato sono divenuti i principali soggetti economici delle regioni meridionali, assumendo una funzione tanto fondamentale quanto sproporzionata rispetto alle proprie effettive capacità, rispetto alla propria stessa storia.
b_136_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._094.jpgRegioni, province, comuni e poi comunità montane, aziende municipalizzate, Unità sanitarie locali, non assolvono più soltanto i vecchi compiti, quello, in particolare, di gonfiare a dismisura i propri organici al di fuori di ogni logica imprenditoriale e al solo scopo di erogare stipendi a galoppini e a familiari di galoppini. Il clientelismo pittoresco, di stampo paternalistico-laurino, ha lasciato il posto ad un sistema più scientifico, più in linea con i nuovi modelli di sedicente managerialità che, con la rapidità e la luminosità di meteore televisive, hanno suggestionato la società meridionale, sia quella urbana che quella provinciale. Gli appalti, le commesse pubbliche, le concessioni, con il loro sciame di subappalti, di piccoli incarichi di consulenze ragionieristiche, sono subentrate alla mitologia del posto pubblico, dell’impiego a tutti i costi, della trafila nelle anticamere di vescovi ed onorevoli.
Contemporaneamente, nel Mezzogiorno si è assistito ad un altro fenomeno, in gran parte effetto del vorticoso giro d’affari al centro del quale si colloca la struttura pubblica, per altri versi prodotto della legislazione d’emergenza, prima fra tutte quella per la ricostruzione delle zone terremotate. Detto in parole povere c’è stato nel Mezzogiorno un trasferimento di poteri dalle mani degli organi elettivi in quelle di poche, pochissime persone. Nel giro di qualche anno, le assemblee elettive sono state private delle proprie funzioni a tutto vantaggio degli organi del governo locale, in particolare dei sindaci e di qualche assessore ai lavori pubblici. Sono questi ultimi i veri dispensatori di un fiume di danaro che dovrebbe servire ad una collettività cui spesso manca tutto, cresciuta sull’onda dell’abusivismo, in spregio a qualunque normativa urbanistica, e che esige una rete fognaria, l’illuminazione delle strade, dei trasporti decenti.
Nei comuni piccoli e grandi delle regioni meridionali sono pochissimi i consigli che si riuniscano, in media, più di quattro, cinque volte l’anno. Per il resto, l’attività amministrativa si svolge esclusivarnente in giunta e, ancor più spesso, in organismi ristretti, molto simili ad un direttorio, cui partecipano al massimo due, tre persone. Le decisioni vengono prese a colpi di delibere adottate sempre come se fossero provvedimenti di estrema urgenza e dunque solo raramente sottoposte al vaglio dell’assemblea. L’accresciuto peso economico degli enti locali e il progressivo accentramento delle decisioni, facilitato da un uso spregiudicato della deliberazione d’urgenza e dall’estensione oltre ogni limite della legislazione d’emergenza, sono proceduti di pari passo, creando quasi dal nulla delle postazioni di potere assolutamente inimmaginabili solo pochi anni fa. E in buona parte a questa ipertrofia amministrativa ed economica che si può far risalire la grande appetibilità che suscita la conquista di un seggio nel consiglio comunale di un qualche paesotto dell’hinterland napoletano o trapanese. In molti comuni si è affermata una nuova generazione di politici disposti a spendere cifre impensabili pur di amministrare comunità di 30-50 mila abitanti e capaci di reperire fondi per costosissime campagne elettorali in un mercato che guarda alla politica, alla mediazione affaristica che si sviluppa nei luoghi della politica, come alla bussola primaria di orientamento.
In una situazione dai contorni politico-istituzionali così abnormi si è inserita la criminalità organizzata, che già da tempo si era affacciata sui mercati legali dove contava di investire gli enormi profitti tratti dal traffico della droga e dalle altre attività illegali. Il contatto con le amministrazioni pubbliche, ormai diventate grandi soggetti economici, spesso i soli soggetti economici, è stato inevitabile. La saldatura ha assunto gli aspetti più diversi, da quello intimidatorio a quello della contrattazione più o meno agevole con un ceto politico esso stesso privo di scrupoli, da quello collusivo fino al rapporto organico, di diretto impegno del camorrista o del mafioso nell’attività amministrativa. Ciò è avvenuto, scrive il sociologo Amato Lamberti, a causa della sproporzione “tra le pretese di regolamentazione e di intervento da parte dello Stato e la sua concreta incapacità di rendere credibili ed operanti queste pretese attraverso una amministrazione efficace e una capacita di progettazione e di direzione dello sviluppo”. A questo si può aggiungere che sono stati spesso gli stessi organi dello Stato a delegittimare le funzioni da essi esercitate per far apparire come indispensabile il passaggio ad un regime straordinario, dove nulla è più sotto controllo.
Ma qualcosa di più grave sembra essere accaduto negli ultimi tempi. La mafia e la camorra da “imprenditori” aspirano ora al ruolo di “programmatori” dello sviluppo, dirottando a seconda dei settori imprenditoriali da esse direttamente o indirettamente controllate, gli investimenti pubblici. L’asfalto ad una strada, l’illuminazione di un quartiere, la predisposizione di aree per l’industria, possono essere decise non solo per ragioni clientelari, come accadeva fino a qualche tempo fa, ma per consentire alle imprese camorriste o mafiose di lucrare e di proporsi, in un mercato dove la domanda di occupazione raggiunge livelli allarmanti, come regolatrici dello sviluppo. Con il consenso sociale, politico ed elettorale che questo circuito di legalità-illegalità garantisce.
b_379_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._096.jpgLa commistione di mercato economico, mercato politico e criminalità organizzata sta diventando il tratto distintivo in molte zone del Mezzogiorno, determinando, a valle, quella frantumazione in mille rivoli improduttivi, dell’intervento pubblico nelle regioni meridionali. La questione meridionale, in altri termini, non e “questione dei meridionali", come pure è stato molto autorevolmente detto, ma neanche può prescindere dalle strozzature che nel Mezzogiorno, e non solo a Roma, rallentano, disperdono, dirottano le risorse pubbliche. E, al tempo stesso, la mafia non può essere ridotta, come sempre più spesso si tende a fare, al rango di fenomeno delinquenziale, sia pure esaltato dalla “geometrica potenza” delle sue esecuzioni al tritolo, quasi fosse una congrega di banditi, tenuti insieme da rituali mistico-religiosi e che talvolta assolda qualche consigliere o qualche assessore.
Negli articoli di Russo, questo nuovo intreccio fra politica e affari che domina la vita pubblica nel Mezzogiorno fa la sua comparsa, come si è visto, nella prima metà degli anni Settanta, in coincidenza con la crisi dell’intervento pubblico nel Sud. Ma è il terremoto che consente di individuare meglio queste neoplasie politiche e sociali. Ed è in riferimento a quell’evento traumatico che trae origine il criterio di periodizzazione di questo libro. A botta calda, insieme ad un altro cronista di razza, Corrado Stajano, Russo raccolse una serie di prime riflessioni sui mutamenti impressi nella società meridionale dal terremoto (7). Poi, sul Corriere, proseguì la denuncia dei ritardi, degli scempi urbanistici, delle collusioni malavitose e, soprattutto, venne sollevato il tema delle grandi opere infrastrutturali, la voragine nella quale venivano ingoiati miliardi su miliardi, il laboratorio nel quale si sperimentarono nuove, solidissime alleanze di tipo feudale.
La lunga ed ancora aperta questione della ricostruzione dopo il terremoto, con il corollario dei progetti che hanno riguardato il futuro dell’area napoletana, rappresenta il microcosmo nel quale si possono individuare, ingranditi, i tratti di una trasformazione che tocca tutto il Mezzogiorno. Un vero modello per il controllo della politica e dell’economia e, attraverso queste, dell’intera società meridionale, e dunque non solo di quella colpita dal terremoto, fiaccata e mortificata perché incapace di esprimere i propri bisogni se non tramite i reticoli partitico-clientelari.
La legge 219, il principale strumento normativo preso ancora sull’onda dell’emozione dopo la catastrofe del 23 novembre 1980, consentiva deroghe e varianti commissariali alle pianificazioni vigenti anche se prevedeva la programmazione pluriennale di ogni intervento. Venivano creati due commissari straordinari, istituti tipici di una situazione d’emergenza, ma, fin dalle prime battute, uno dei due commissari, il sindaco di Napoli, non si avvalse di questa facoltà e decise di coniugare il progetto che prevedeva la costruzione di più di 13 mila alloggi con i piani urbanistici già adottati dal consiglio comunale per sistemare una degradatissima periferia. In sostanza, l’emergenza, la straordinarietà venivano calati nell’ordinario.
In questo periodo si diede facoltà ai commissari di avocare a sé anche tutta un’altra serie di iniziative, previste da altre leggi, ritenute indispensabili per la buona riuscita del progetto. Era solo uno spiraglio che nel giro di poco tempo divenne un enorme varco: la legge 219, con le sue procedure d’urgenza, divenne un grande treno merci con gli sportelli sempre aperti, nel quale, con la certezza che si sarebbe comunque arrivati in orario, vi si poteva buttare di tutto.
Contemporaneamente il Comune di Napoli visse uno dei più lunghi periodi di instabilità della sua storia (ci furono sei sindaci in tre anni), mentre furono lentamente smantellati i servizi di supporto tecnico con i quali l’amministrazione pubblica esercitava il suo controllo. La parola passò ai nuovi feudatari, i concessionari, che, pressando i commissari che vorticosamente si alternavano, ottennero ciò che volevano, e cioè che oltre alle nuove abitazioni e alle opere infrastrutturali a queste necessarie si costruissero strade, superstrade, svincoli autostradali, bretelle e perfino tronchi ferroviari.
b_369_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._097.jpgLo svuotamento delle istituzioni pubbliche fu perfezionato con il bradisismo di Pozzuoli e con l’istituzione di altri commissari per le cosiddette aree industriali nel “cratere” del terremoto. Nacque Monteruscello, un gigantesco quartiere dal vago aspetto cimiteriale dove ora, a pochi anni di distanza, le pareti prefabbricate delle case si spaccano in due e la gente fugge per tornare nella vecchia Pozzuoli che da millenni aveva imparato a convivere con il bradisismo.
I soldi arrivavano copiosi e con essi si facevano sempre più estesi i poteri di delega ai grandi feudatari. “Quasi sempre - dice Russo in una intervista a Per del 3 luglio 1990 - i concessionari sono grandi imprese di lavori pubblici che hanno nomi famosi in tutto il mondo e che, però, una volta ottenute le opere in concessione le danno in appalto e in subappalto. I subappalti finiscono a piccole e medie imprese meridionali costretti a prenderli a bassi prezzi e il più delle volte controllate da mafia e camorra. Così lo Stato non solo regala il 20 o il 30 per cento dei suoi miliardi, ma finanzia indirettamente anche la camorra e la mafia”. Ben presto si è arrivati al punto in cui erano i concessionari a decidere gli interventi, ora in più stretto raccordo con gli esponenti del governo comunale e regionale (sotto l’egida di alcuni di quello nazionale), i quali, da commissari, si sentivano liberati da ogni onere di controllo da parte delle assemblee elettive. I vantaggi per i concessionari andavano ben oltre i profitti di imprese, mai così rosei dagli anni del sacco laurino, e si configuravano in corpose rendite finanziarie, grazie agli utili ricavati dagli anticipi e da un complesso giro di intermediazioni con fornitori e subappaltatori.
ll meccanismo messo in opera per la ricostruzione non poteva esaurirsi con essa (ammesso che la ricostruzione, quella vera, sia effettivamente esaurita). Altri soldi potevano essere reperiti da capitoli ordinari e straordinari del bilancio dello Stato, che, in assenza di una seria, autonoma, elaborazione progettuale da parte delle amministrazioni pubbliche, venivano incanalati dalle grandi imprese di costruzione. E, stavolta, non solo locali, ma, per uno di quei paradossi dei quali è ricca la storia del Mezzogiorno, dalle aziende che si occupano di edilizia per conto delle Partecipazioni statali. Nascevano così il progetto definito “Regno del possibile”, che intendeva dare in mano ai concessionari il centro storico di Napoli, e quello dall’ambiziosa titolazione greca di “Neonapoli”, un grande contenitore politico-propagandistico gestito direttamente dall’allora ministro del Bilancio, Paolo Cirino Pomicino, nel quale riversare tutti i finanziamenti statali e degli enti locali. Fra gli interventi più vistosi c’era quello dei cosiddetti parchi scientifici e tecnologici a cui si aggiungevano insediamenti turistici e residenziali per complessivi sette milioni e mezzo di metri cubi che l’Amministrazione comunale intendeva collocare, con una variante al Piano regolatore generale, nella zona orientale e a Bagnoli, due aree dalle quali sarebbero stati allontanati l’Italsider ed altre aziende ad alto rischio e dove invece era necessario rompere la continuità edilizia che ha condotto Napoli al collasso. Contro questa iniziativa si schierò un fronte d’opposizione formato da intellettuali, da professionisti da settori dell’ambientalismo che sperimentò un modo nuovo di intervenire sui problemi della città al di fuori degli scherni di partito e rompendo le vecchie logiche di appartenenza. Nacquero così le Assise cittadine, un agguerrito cenacolo promosso da Gerardo Marotta e da Antonio Iannello dove, nell’ostilità delle istituzioni pubbliche e della stampa cittadina, si riscopriva il gusto della politica, dell’impegno a favore della comunità. La battaglia diede i suoi frutti e il Preliminare di Piano, il documento urbanistico apprestato dal Comune per soddisfare l’ingordigia di politici e costruttori, venne respinto grazie ad una martellante opera di sensibilizzazione. In quella circostanza si constatò quanto una rinnovata intesa fra politica e cultura potesse contrastare anche la più consolidata alleanza di potere. Un’alleanza che passava indenne e trionfatrice tutte le verifiche elettorali, ma ora entrata nel mirino della magistratura che ha avviato indagini su come si è costruita una perfetta macchina per fabbricare consensi.
Non riesce a cogliere queste novità Massimo Cacciari che pure, in alcune riflessioni su Napoli (8), individua negli intellettuali, nella vivacità della cultura, in assenza di soggetti sociali già costituiti e con i partiti in preda alla sclerosi, l’elemento in grado di scardinare il sistema politico-affaristico che grava sulla città. Il filosofo veneziano auspica una rivolta etica, aggregazioni trasversali, ma poi rimprovera all’Istituto italiano per gli studi filosofici di limitarsi “ad un lavoro di presenza e di testimonianza, di testimonianza anche disperata”, invitandolo “ad un’attività più direttamente collegata alla vicenda politica cittadina”, ad esempio “sui piani urbanistici di Napoli”. Con ciò sottovalutando la funzione svolta dall’Istituto di Marotta nel coagulare forze diverse, dentro e fuori dei partiti, proprio sul terreno dell’urbanistica e della tutela del paesaggio e dei monumenti napoletani.
b_400_284_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._159.jpgSegnali positivi si rincorrono da un capo all’altro del Mezzogiorno, ma il vecchio sistema, che altrove subisce sconfitte sempre più vistose, ha fissato proprio nel Sud la sua roccaforte. E cosi, nelle regioni meridionali, dove ci sono un milione 600 mila disoccupati, dove, nelle sole Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, si verificano il 70 per cento degli omicidi che ci sono in Italia, il 68 per cento delle rapine gravi, il 61 per cento delle estorsioni, il 91 per cento degli attentati dinamitardi o incendiari (9), dove si trovano le quindici città in cui è più basso il livello di vivibilità, e successo qualcosa di più grave dell’allargamento continuo del divario con le altre regioni del paese. E’ entrata gravemente in crisi, si è frantumata, la politica che in questi quarant’anni ha tentato, all’inizio con le migliori intenzioni, poi con risultati sempre più scadenti, di restringere la forbice fra il Sud e il resto d’Italia. I risultati positivi nel Mezzogiorno ci sono stati, ma, insieme a questi, la lenta agonia dell’intervento pubblico, durante la quale non è mai stato intaccato il fluire dei quattrini, ha sviluppato la formazione di grumi che ostruiscono la circolazione sanguigna. E che rischiano di togliere la speranza nelle cellule sane che, nonostante tutto, sono ancora in maggioranza in questo organismo.
1 Corriere della Sera, 7 dicembre 1973.
2 Cfr., in particolare, ll Vero e il falso sugli aiuti al Sud, in Corriere della Sera, 14 luglio 1974; Mezzogiorno e inflazione, in Corriere della Sera, 30 luglio 1974; Le cattedrali nel deserto, in Corriere della sera, 15 settembre 1974.
3 Manlio Rossi Doria, Trent’anni alle spalle, relazione al Convegno sui problemi dell’economia meridionale, Portici (Napoli), 30 settembre 1977, ora in Scritti sul Mezzogiorno, Torino 1982, p. 168.
4 SVIMEZ, Rapporto 1991 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, 1991, p. 19.
5 Ibidem
6 Per questo fenomeno cfr. le ricerche compiute da Amato Lamberti in particolare in Le trasformazioni della criminalità organizzata e gli intrecci con gli Enti Locali in Campania in Osservatorio sulla camorra 6/7 1988, pp. 13-23; Così governa la camorra, in MicroMega, 4 1990, pp. 111-126. Cfr. pure Isaia Sales, La camorra Le camorre, Roma, 1988.
7 Giovanni Russo, Corrado Stajano, Terremoto, Milano 1981
8 La città porosa, a cura di Claudio Velardi, Napoli, 1992, pp. 158-190.
9 Svimez, Rapporto 1992 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, 1992, pp. 275-276.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?