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Giovanni Russo, Sud specchio dell’Italia, con Introduzione di Francesco Erbani, Liguori Editore Napoli 1993
1. Fortunato e il pessimismo della ragione
b_289_400_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_Telero-Carlo_Levi_p._072.jpgNon credo che Giustino Fortunato gradirebbe, oggi, essere definito un “meridionalista”, una parola che pure ha significato tanto, dagli inizi del secolo fino ai primi ferventi anni di democrazia, dopo la caduta del fascismo, nella storia del nostro Paese. Il grande pensatore e uomo politico lucano, nella premessa alla raccolta dei suoi discorsi parlamentari, pubblicata, a sue spese, da Laterza, nel marzo del 1911, col titolo Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano (opera fondamentale per capire i problemi del Sud) scrive che “fortunatamente non è più chi derida i non molti che primi vollero, fu detto, “regalare” allo Stato Italiano una questione meridionale”. Sarebbe, più che infastidito dei dibattiti, delle tavole rotonde e della retorica di sinistra sulla “centralità” della questione meridionale. Certamente don Giustino sarebbe soprattutto sdegnato che si proclamino meridionalisti tanti politicanti analoghi in quelli che egli e Salvemini avevano in disprezzo, che hanno contribuito, con il clientelismo, l’assistenzialismo, e l’industrializzazione senza sviluppo a lasciare intatto il divario fra Nord e Sud; come si è visto durante i “giorni dell’ira” quelli del terremoto del 23 novembre del 1980 in Basilicata e in Campania.
Ciò non toglie che quanto di buono si è fatto in questi ultimi trent’anni nella politica per il Sud, dalla riforma agraria, alla Cassa per il Mezzogiorno, all’intervento straordinario dello Stato fino alla metà degli anni Sessanta, per opera di uomini di ogni partito, non sarebbe stato possibile neppure concepirlo se Fortunato non avesse indicato agli italiani la “questione meridionale” ponendo il problema delle “due Italie non solo economicamente diseguali ma moralmente diverse” e non avesse continuamente insistito, nella sua attività di parlamentare e di studioso, su una verità ancora oggi valida: “quello del Mezzogiorno è il problema fondamentale di tutto il nostro avvenire, perché solo dalla varia soluzione che si proponga di dargli sarà possibile avere norma e garanzia di un diverso avviamento di governo della cosa pubblica”.
Parole scritte nel 1911, ma che fanno pensare oggi allo sfasciume di Napoli, alla tracotanza sanguinosa della camorra alleata al terrorismo, al gelido dominio della mafia in Sicilia, ai disastri che l'emigrazione ha provocato su quell’Appennino meridionale che Fortunato aveva percorso a piedi clamorosamente descritto in pagine così belle anche letterariamente.

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A Rionero in Vulture, una delle cittadine di più antica civiltà della Basilicata, dove Fortunato nacque il 4 settembre del 1848, si preparano per il cinquantenario della sua morte (avvenuta a Napoli il 23 luglio del 1932) una serie di manifestazioni che si aprono, il 25 luglio, con una commemorazione di Manlio Rossi Doria che si può considerare l’erede cli Fortunato. Se non si colloca Fortunato nella storia di questo paese della Basilicata (dove la sua famiglia di grandi proprietari e agricoltori, originariamente affittuari nel Tavoliere, si era trapiantata dal ’700 ma dove nacque anche uno dei più celebri protagonisti del brigantaggio postunitario, Carmine Crocco) molti aspetti della sua personalità e della sua opera non sarebbero comprensibili. Non si capirebbe cioè perché, come ha scritto Croce, cui fu legato da stima profonda e tenera amicizia, egli “quasi ha impersonato in sé il problema del Mezzogiorno e gli ha consacrato intera la sua vita”. Fortunato era un ragazzo che studiava con il fratello Ernesto al collegio dei gesuiti a Napoli, quando, nel 1861, ricondotto a Rionero, assisté al dramma del brigantaggio e della sua feroce repressione. Non dimenticò mai quella esperienza, in cui anche la sua famiglia venne coinvolta, e arrivò fino a temere che, dopo la Grande Guerra, che egli non voleva (la “guerra sovvertitrice” la definiva) la rabbia contadina potesse riesplodere. Come deputato (fu eletto nel collegio di Melfi nel 1880 e rimase a Montecitorio fino al 1909, quando fu nominato senatore), come collaboratore della Rassegna settimanale di Franchetti e Sonnino, come pensatore politico e come storico, si batté sempre su due fronti: contro i rigurgiti di borbonismo, considerando unica salvezza del Sud “l’unità indissolubile della patria”, e contro i luoghi comuni dei settentrionali che attribuivano a incapacità o a inferiorità razziale le condizioni di arretratezza del Mezzogiorno.
Fortunato sfatò il mito del Sud “giardino d’Europa” dimostrando che il Mezzogiorno è una terra che, per millenni, ha subito condizioni sfavorevoli di clima, di suolo, di strutture e posizione topografica. Sicché si ebbe accuse di “denigratore del Mezzogiorno” dalla borghesia del Sud avida e parassitaria. Da queste idee discendevano le sue battaglie parlamentari perché lo Stato unitario affrontasse, nel Mezzogiorno, coraggiose riforme, modificasse un sistema tributario ingiusto (tema di un suo scritto famoso) non sacrificasse gli interessi dei contadini a quelli dei “galantuomini”. Amico di Salvemini, di Amendola, di Nitti, di Gaetano Mosca, negli ultimi anni della sua vita si legò a Zanotti Bianco e ai fratelli Rosselli.
I cinque volumi del carteggio di Fortunato, pubblicati recentemente da Laterza, sono un’eccezionale testimonianza della ricchezza di idee e di sentimenti che univano gli uomini migliori della sua generazione. Colpiscono la lucidità dei suoi giudizi, la fede nell’idea di libertà e nella funzione del Parlamento, la richiesta di giustizia per le classi più povere e anche le motivazioni del suo “pessimismo storico”. Da queste pagine emerge come Giustino Fortunato, insieme ad altri meridionali eminenti, da Salvemini a Nitti, traeva proprio dalla “questione meridionale” i motivi per indicare alle classi dirigenti, sorde e cieche, la strada per rafforzare la democrazia e l’unità del Paese. Capì subito che il fascismo, che definì “il socialismo della piccola borghesia”, sarebbe stato il “colpo di grazia al Mezzogiorno”. Non ebbe su di esso le illusioni né di Croce né di Salandra.
La vittoria del fascismo accrebbe il suo pessimismo perché egli lo considerava la “rivelazione” di mali antichi e dell’incompatibilità dell’Italia con la libertà e la democrazia (grassetto mio). Trascorse gli ultimi anni, malato, a Napoli con la sorella e un fidato cameriere, uscendo di rado per recarsi a casa Croce, ma ricevendo spesso giovani che lo amavano e ammiravano. Chi visita nella sua casa di Rionero la biblioteca, dove alternava gli Studi economici e politici con quelli dilettosi dei classici (tradusse vari carmi di Orazio) e riflette sulla tenacia della sua lotta per il Mezzogiorno, non può non giustificare il “pessimismo” di Fortunato. Ma era un pessimismo antistorico?
Noi crediamo di no. Lo stesso Fortunato si difendeva dall’accusa con parole che, per tutti, dovrebbero essere oggi di esortazione: “Pessimista non è chi sente profondamente il male, sibbene colui che di fronte ad esso depone ogni arme”.
Fonte: Fortunato e il pessimismo della ragione (L’uomo che scoprì il ‘nodo’ del Sud, C.d.S. 23.7.1982)

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