Questo testo fu letto durante il convegno di studi organizzato dal Firb e denominato Il santuario di San Matteo come bene culturale: prospettive di sviluppo del territorio e percorsi di ricerca.
Il tema di questa giornata da oltre quarant’anni è la pista su cui si è sviluppata la vita della Fraternità religiosa e le attività del santuario per traghettare nella modernità il modo di essere francescani e responsabili di un santuario di lunga tradizione con un rapporto consolidato con un territorio ampio, fortemente diversificato e in continuo cambiamento.
Partendo dagli elementi oggettivi che hanno caratterizzato tutta la vita del monastero abbiamo coltivato nuovi percorsi di ricerca per approdare alle prospettive di sviluppo.
Il convento è uno dei pochi complessi monastici della Capitanata che siano stati sempre ininterrottamente condotti da famiglie religiose per tutta la loro lunga durata.
Fino al 1311 è stata abbazia benedettina col nome di San Giovanni in Lamis, poi passò ai cistercensi, ma il suo vasto territorio fu condotto in regime commissariale da un abate commendatario. Infine dal 1578 come convento francescano è inserito nella Provincia monastica di S. Michele Arcangelo di Puglia e Molise. Nelle prime due fasi fu prevalente il rapporto giuridico di tipo feudale con un vasto territorio comprendente, tra l’altro, l’intera area degli attuali Comuni di San Marco in Lamis e di San Giovanni Rotondo. Nel terzo periodo, quello francescano, il rapporto giuridico col territorio sopravvisse nelle competenze della istituzione badiale, ma non toccò la comunità religiosa francescana, a cui dalla convenzione del 1578 venne attribuita solo la funzione strettamente religiosa del culto.
In quest’ultimo periodo l’aspetto santuariale, pur presente in embrione durante i periodi benedettino e cistercense, si sviluppò in termini più adeguati e ampi.
Attraverso lo studio dei pellegrini e della loro evoluzione negli ultimi cinquant’anni è stato puntualizzato un linguaggio religioso più adeguato, senza, però, che i preziosi contenuti della tradizione fossero ignorati. Si è preso atto, per es., della crisi irreversibile della civiltà contadina e della esigenza di tenere unito un patrimonio umano di grande religiosità ma la cui interna coesione sociale, culturale e religiosa è messa a dura prova dall’emigrazione e dalla confusione provocata dal molteplice e contraddittorio incrociarsi di messaggi. Si è preso atto, parimenti, dell’esigenza di sostenere il pellegrino con una base culturale solida e ampia per aiutarlo a vivere la sua religione con consapevolezza e responsabilità, ma anche per porlo di fronte alle tante storie dei suoi padri, testimoniate dagli oggetti di devozione accumulati nei secoli. Sviluppando il pensiero, ci si è resi conto della responsabilità educativa del santuario; una responsabilità che investe molteplici campi del pensiero e della vita. Si è compreso anche che è compito del santuario l’educazione a un retto rapporto con la madre terra e con ciò che essa contiene.
Il lavoro fatto riguarda alcuni temi che ci sono sembrati più realizzabili. Prima di tutto si ci è dedicati a una specifica catechesi dei pellegrini che riguarda la stessa pratica del pellegrinaggio: la salita al Monte di Dio come percorso di cambiamento interiore, il senso della comunità che si forma, il ricordo dei pellegrini passati, la consapevolezza di essere ognuno un anello importante di una lunga catena di uomini e donne dirette verso l’eternità, la preghiera, il raccoglimento e la sobrietà ecc. Si sono dedicate molte energie a mettere in luce le testimonianze dell’arte e della devozione, come gli ex voto pittorici.
Approfittando della naturale propensione verso la buona musica della popolazione sammarchese, si è iniziato un impegnativo lavoro in ambito liturgico col recupero del Canto Gregoriano. In questo abbiamo in qualche modo preceduto i diversi venuti soprattutto dal papa Benedetto XVI. Il nostro Coro Gregoriano Cantemus Domino ha superato i 32 anni di attività, ed è tuttora attivo. Resta da impostare un’azione tesa a far conoscere e adottare dalle comunità ecclesiali un repertorio minimo. Ma in questo, come tutti sanno, ci sono ostacoli insormontabili.
In ambito culturale più generalmente inteso è stata curata la biblioteca e allestiti alcuni spazi museali.
Tutto questo è stato progettato in rapporto a un territorio molto più vasto di quello soggetto all’antica abbazia di San Giovanni in Lamis. Fin dal sec. XVII la zona in cui il santuario era presente comprendeva, oltre al Gargano e alla Capitanata, anche il Molise e l’Abruzzo.
È necessario a questo punto parlare di questo territorio e del come si sia formato. Per territorio si vuole intendere il complesso di regioni in cui si è sviluppato un particolare movimento religioso intorno a un insieme di santuari di cui il più importante è la Grotta di S. Michele a Monte Sant’Angelo, seguito dal santuario mariano dell’Incoronata di Foggia e da quello di S. Matteo. Le storie e le specificità religiose dei singoli santuari sono considerate patrimonio comune e costituiscono una ricca miniera di devozioni, di cultura e di risorse economiche. In questo ambito il nostro santuario ha la sua specificità nel culto di S. Matteo inteso non tanto come Apostolo ed Evangelista, quanto perché guarisce uomini e animali colti nella concretezza del loro vivere nel lavoro e nella produzione. S. Matteo è il santo degli agricoltori con la protezione dalla rabbia canina di uomini e animali della campagna, cavalli e armenti.
Nei tempi moderni anche questo territorio umano, fatto di pellegrini, di pastori ed agricoltori, si è evoluto.
Si distinguono tre fasce di pellegrini. La prima è costituita dalle comitive di lunga tradizione di cui alcune risalgono al medioevo, dirette al loro santuario principale, S. Michele. Quello di S. Matteo, è tuttora un santuario obbligato, ma di passaggio.
La seconda categoria è costituita dagli abitanti del Gargano e della Capitanata che hanno in S. Matteo il loro centro spirituale. I pellegrini arrivano lungo tutto il corso dell’anno, in piccoli e grandi gruppi.
La terza fascia comprende i pellegrini diretti al santuario di S. Pio da Pietrelcina a S. Giovanni Rotondo.
Le prime due categorie avevano, e hanno tuttora, uno stretto rapporto con tutti i santuari del Gargano. La terza categoria ha mostrato in passato una certa estraneità dal territorio garganico e si distingue sia per la geografia di provenienza, sia per il diverso modo di intendere il pellegrinaggio. I pellegrini delle prime due categorie, nonostante i cambiamenti in atto, sono ancora figli di una cristianità che intende il pellegrinaggio come un itinerario di maturazione e di approfondimento. Danno spazio alla preghiera, portano con sé nel linguaggio religioso un resto di arcaismo ereditato dai padri.
Quelli della terza categoria sono figli della modernità e dell’autostrada, efficienti, sbrigativi, e diretti ad un unico obiettivo, S. Pio da Pietrelcina. Per essi il Gargano con tutti i suoi santuari, fino a qualche anno fa non era altro che una plaga da attraversare rapidamente ma con cui non c’era alcun bisogno di entrare in contatto.
Come si può facilmente capire le prime due fasce e la terza scorrevano l’una accanto all’altra senza mai incontrarsi né conoscersi.
Da qualche decennio qualcosa sta cambiando. Anche i pellegrini della terza categoria scoprono il Gargano religioso. Non basta più il sepolcro del santo e la sua reliquia. I pellegrini vogliono vedere i luoghi, interpretarli in senso religioso. Vogliono vedere le testimonianze e sapere che cosa è accaduto e perché i fatti si sono svolti proprio in questi luoghi.
Stanno scoprendo ciò che per i pellegrini della prima e seconda categoria è del tutto evidente: l’intima interconnessione e la reciproca integrazione di tutti i santuari garganici con le figure eminenti di S. Pio, S. Michele, S. Matteo. Stanno scoprendo, inoltre, che l’aspetto fisico di questi luoghi ha avuto un ruolo importante nella vita di santi e pellegrini del passato e del presente.
Via via si scopre anche il resto della ricchezza spirituale e devozionale del Gargano con le sue costellazioni di monasteri, eremi, ricordi di santi e di grandi personaggi. Ormai sono tanti i pellegrini che hanno ripreso la visita al santuario di Stignano e all’abbazia di Pulsano. Molte comitive hanno ristabilito un intenso rapporto col grande santuario mariano dell’Incoronata sito nel bel mezzo del Tavoliere a dieci chilometri da Foggia. Anche se usano un linguaggio religioso differente, i moderni pellegrini esprimono i medesimi contenuti degli antichi rituali di pellegrinaggio.
Dopo questo sguardo generale, vorrei accennare a un tema su cui forse vale la pena soffermarsi. S. Matteo quando e come è diventato un santuario?
Allo stato delle attuali conoscenze avremmo qualche difficoltà ad attribuire nel periodo medievale, all’allora abbazia di San Giovanni in Lamis, il ruolo di santuario inteso come la chiesa o altro luogo sacro ove i fedeli, per un peculiare motivo di pietà, si recano numerosi in pellegrinaggio (CIC, can. 1230). Quel che sembra mancare, infatti, è il particolare e specifico motivo devozionale che avrebbe dovuto indurre numerosi pellegrini a frequentarlo e che avrebbe costituito l’abbazia a centro spirituale di un certo territorio. Manca nella scarsa documentazione a disposizione un qualsiasi accenno a un’apparizione, al passaggio o alla morte di qualche santo, o ad avvenimenti prodigiosi. D’altra parte, la reliquia di S. Matteo, pare che non sia giunta nel santuario prima della metà del sec. XVI.
Penso che l’elemento da tenere in considerazione in questa prima fase della storia del santuario sia l’aspetto fisico di questo angolo del Gargano modellato dagli eventi naturali. La valle dello Starale in cima alla quale il convento sorge è contenuta nella faglia di Mattinata che si apre nella pianura dell’alto Tavoliere verso ovest, attraversa tutta la montagna con un profondissimo solco e sfocia nella baia di Mattinata separando in modo traumatico il Gargano meridionale dal resto del Promontorio. Sul fondo della valle è tracciato il percorso, che documenti risalenti agli inizi dello scorso millennio chiamano “Via Francesca”. Il nome richiama necessariamente il ricordo dei pellegrini diretti alla Grotta dell’Arcangelo Michele.
Anche se i documenti conosciuti non fanno alcun riferimento, penso sia corretto credere che l’abbazia abbia ospitato per lungo tempo comitive di pellegrini diretti alla Grotta dell’Arcangelo. Il territorio dell’abbazia di S. Giovanni in Lamis era attraversato dalla Via per tutta la lunghezza del suo lato settentrionale. La Via, inoltre, lambiva le stesse mura meridionali dell’abbazia.
Il tratto più difficile e pericoloso di questa via era: quello che saliva da Stignano a San Marco in Lamis. Nonostante la via fosse molto ripida, incassata in una strettissima gola, piena di massi erratici e di rovi, il pellegrino era costretto a percorrerla rapidamente per non rischiare di essere travolto dalle piene del torrente Jana, o di essere sepolto vivo dalle frequenti frane. Inoltre c’era il rischio di essere aggrediti dai malviventi, da serpenti e da altre bestie. È facile immaginare il sollievo del pellegrino quando, superata l’ultima curva del torrente intorno al Monte di Mezzo, arrivava nell’ampia conca di San Marco in Lamis e scopriva l’imponente sagoma dell’abbazia di San Giovanni in Lamis. L’abbazia era il suo rifugio sicuro, garantito dall’inviolabile sacralità della casa di Dio; era il suo sanctuarium, dove riposare per qualche giorno assistito dai monaci. Penso che questo sia il primo elemento, benché nel significato limitato all’aspetto logistico, che inserisce l’abbazia di S. Giovanni in Lamis nel complesso rapporto con i pellegrini e con il grande santuario di S. Michele.
Del resto che S. Matteo fosse un asilo dei pellegrini è testimoniato non solo da una secolare tradizione ma anche da solide testimonianze documentarie. Tra l’altro nel sec. XVIII fu costruito un apposito reparto per ospitare 20 pellegrini. Ancora oggi vengono ospitate diverse comitive di pellegrini a piedi. Negli ultimi decenni, poi, si sono moltiplicati i pellegrini che vengono a piedi da molte regioni italiane ed europee e a tutti viene offerta ospitalità.
L’arrivo all’abbazia di S. Giovanni in Lamis, posta in alto, al termine di una tappa particolarmente faticosa, conferiva al pellegrino la religiosa consapevolezza che la casa di Dio poteva essere raggiunta malgrado l’imprevedibilità del percorso e l’asprezza della salita. Questo momento spirituale viene adombrato nella frequenza con cui il tema della scala santa ricorre nei canti devozionali dei pellegrini: Pellegrini di San Marco in Lamis: Scala, scala santa: Padre, Figlio e Spirito Santo.
La mente corre ai Salmi Graduali, alla Salita al Monte Carmelo di S. Giovanni della Croce, al complesso meccanismo della penitenza antica, al succedersi dei sacramenti della iniziazione cristiana e, perché no, anche ai Gradus ad Parnassum di Muzio Clementi. L’abbazia, a una giornata di cammino da Monte Sant’Angelo, era la naturale tappa intermedia dei pellegrinaggi; il luogo dove i pellegrini si preparavano all’incontro con l’Arcangelo Michele.
Bisogna, poi, tener presente che la Via Francesca, nascosta nella profonda faglia di Mattinata, con tutte le sue difficoltà, era, come lo è tuttora, la strada unica e obbligata per chiunque, proveniente da sud-ovest, volesse penetrare nel Gargano interno. Ciò ha comportato che tutte le maggiori realtà civili e religiose siano sorte lungo questa direttrice. La ristrettezza della valle, inoltre, e la difficoltà di comunicare con le altre città del Gargano interno, ha obbligato i centri civili e religiosi a rapportarsi strettamente fra loro costituendo una catena coordinata e collaborativa.
La conseguenza più importante fu che il rapporto tra l’abbazia di S. Giovanni in Lamis e il Santuario di S. Michele, divenuto sempre più stretto, si è sviluppato fino a costituire, nei tempi moderni, un rosario di santuari comprendente anche quello di Stignano e, in qualche maniera, anche l’abbazia di Pulsano. Attualmente questo rosario di santuari è stato completato da quello di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. La Via Francesca, inoltre, era costellata di una miriade di eremi. Molti erano dislocati all’imboccatura della valle di Stignano. Altri erano disseminati nei pressi del monastero di S. Giovanni in Lamis. Alcuni erano dei piccoli monasteri, come S. Agostino a Stignano e S. Nicola nelle vicinanze di S. Matteo.
Questo complesso di pellegrini e santuari, che costituiva un sistema santuariale completo, era in stretto rapporto con l’altro grande santuario della Capitanata, la Vergine Madre di Dio dagli Angeli Incoronata, sito nei pressi di Foggia. Era il principale centro religioso della transumanza; ma anche della Capitanata meridionale, dell’Irpinia e di vaste zone della Basilicata. Questi due complessi santuariali erano in stretto contatto e frequentati dagli stessi pellegrini e pastori.
Questo coordinamento ha costituito un complesso religioso di difficile definizione in cui ogni santuario ha la sua storia e le sue specificità spirituali ma tutti sono contemporaneamente presenti e insostituibili nella vita dei pellegrini. Nello stesso tempo ha allargato le aree di influenza dei singoli santuari.
Con l’arrivo della reliquia di S. Matteo la vecchia abbazia fece un salto di qualità, assumendo anche i caratteri di santuario autonomo, con la sua fisionomia spirituale e devozionale ben delineata, pur conservando a lungo la sua funzione di ospizio di pellegrini, quasi di santuario gregario di S. Michele.
Il domenicano Serafino Razzi, nel 1576, e il francescano Francesco Gonzaga, nel 1587, attestano che S. Matteo era un santuario specializzato. Il contatto col dente di S. Matteo, custodito in un bel reliquario d’argento era reputato prodigioso per la rabbia canina che spesso veniva trasmessa agli uomini. Si sviluppò così una straordinaria devozione in ambito contadino e pastorale in breve tempo allargatasi dalle piccole comunità garganiche alle città della Capitanata, tutte prevalentemente dedite all’agricoltura e alla pastorizia, e fatto proprio dalle grandi comunità transumanti del Molise e dell’Abruzzo.
Da parte loro gli abruzzesi avevano da lungo tempo un privilegiato rapporto con S. Domenico di Cocullo, che proteggeva dai morsi dei cani e dei serpenti; inoltre, in epoche precristiane veneravano la dea Angizia che aveva la medesima funzione. S. Matteo fu assunto come uno dei santi della transumanza.
Una delle piste di ricerca che andrebbe percorsa è proprio quella devozione dei transumanti evidenziata da una grande quantità di statue, dipinti, feste e fiere, tutte in onore di S. Matteo dislocate nei paesi toccati dai tratturi. Un’altra pista interessante potrebbe essere quella dell’architettura abruzzese i cui caratteri spesso sono presenti in chiese e conventi delle nostre zone. Mi riferisco in particolare alla facciata del santuario di Stignano e a quella, oggi purtroppo gravemente ripensata, del convento di Castelnuovo della Daunia.
Il rapporto con i pastori abruzzesi e molisani ha rappresentato per secoli la fortuna economica di S. Matteo. Nel 1686 p. Agostino Mattielli, frate toscano, in visita canonica ai conventi della nostra Provincia monastica, raccontava che le finanze del convento erano fiorenti e ogni anno si incassavano oltre 3000 ducati. L’abate Longano, inoltre, nel suo Viaggio in Capitanata, stampato a Napoli nel 1790, ricorda che i celebri santuari di S. Michele, dell’Incoronata di Foggia e di S. Matteo a San Marco in Lamis ogni anno ricevevano complessivamente oltre 20.000 ducati in denaro, agnelli, vitelli, puledri, maiali, derrate alimentari e altri beni di consumo. Aggiungeva che tale somma, pur essendo esclusa dalla tassazione normale, era pur sempre una bella somma che arricchiva il territorio.
Con queste risorse dalla seconda decade del sec. XVII si diede vita a un programma edilizio che fu completato in diversi periodi. Verso la metà del ‘600 furono allestiti ambienti che servirono per uno dei due noviziati della Provincia; nella seconda metà dello stesso secolo furono eseguiti grandi lavori in chiesa e nello spigolo occidentale; nella seconda metà del ‘700 fu completata la sopraelevazione del piano superiore e nella metà dell’’800 i locali dello stesso piano furono preparati per ricevere i giovani frati studenti di teologia.
Oggi le risorse che i pellegrini ci mettono a disposizione sono impiegate in gran parte nel restauro di molti reparti del convento. I lavori, iniziati nel 1975, hanno interessato in particolare la chiesa, la sacrestia e la cappella delle confessioni; la cucina, il refettorio piccolo e la sala della Fraternità; i contrafforti occidentali col grande fornice medievale, la parete esterna meridionale della chiesa e il corridoio d’ingresso. Ora siamo alle prese con la bonifica della parete esterna settentrionale e il restauro dei locali medievali dello spigolo occidentale.
I lavori fruttarono, tra l’altro, una piccola ma preziosa raccolta di frammenti medievali costituiti da fregi, epigrafi, frammenti di affreschi nascosti in materiali di riempimento.
Naturalmente sono molto curati i servizi destinati ai pellegrini ed a coloro che, a diverso titolo, salgono al convento.
Si dà molto spazio anche ai servizi culturali con la biblioteca e i servizi attinenti, e alla liturgia col grande organo meccanico costruito con il validissimo contributo degli amici di San Marco in Lamis e di tutta la Capitanata.
Permettetemi, a questo punto, un dubbio. È opinione comune che l’antico nome del santuario, San Giovanni in Lamis, in seguito all’arrivo della reliquia del santo, dalla devozione popolare sia stato mutato in S. Matteo. Il cambiamento, quindi sarebbe avvenuto agli inizi della seconda metà del sec XVI.
Le cose potrebbero essere andate anche diversamente. S. Matteo, infatti, come intitolazione di una realtà ecclesiastica non era estraneo alla tradizione dauna. Nel sec. XI era stato fondato alle pendici del Subappennino settentrionale tra Dragonara e Fiorentino, il priorato di San Matteo della Sculgola, appartenente alla famiglia benedettina fondata dal beato Giovanni da Tufara. Altre realtà ecclesiastiche in Capitanata hanno subito il cambiamento di nome. Il nostro convento di S. Severo, nato nel sec. XV col nome di S. Bernardino, in data imprecisata fu chiamato S. Matteo. A Manfredonia la chiesa dei Morti, fondata nel sec. XV, nel 1578 ebbe il nuovo nome di S. Matteo. Sia il monastero della Sculgola, sia il convento sanseverese e la chiesa di Manfredonia, hanno avuto rapporti intensi coi transumanti. Inoltre, come sopra si ricordava, anche molti paesi del Subappennino settentrionale e del Molise hanno questo rapporto col santo apostolo ed evangelista, e tutti sono in relazione alla transumanza e alle attività pastorali.
D’altra parte S. Matteo ha un rapporto speciale con le greggi transumanti anche altrove in Italia. La sua festa, 21 settembre, è prossima all'equinozio di autunno che segna il limite temporale dei pascoli montani e determina la discesa degli armenti verso la pianura. Credo che l’elemento transumanza possa essere interpretato come decisivo nell’adozione del nuovo nome.
Il dubbio riguarda il ruolo che il sacro Dente ha avuto nel cambiamento del nome della vecchia abbazia.
Il nuovo nome è stato imposto dall’arrivo del sacro Dente, o, al contrario, era stato già precedentemente adottato dai pastori? In quest’ultimo caso il trasferimento della Reliquia significherebbe una sorta di ufficializzazione del nome e, con esso, anche del ruolo attribuito al santo dai pastori.
Il santuario di S. Matteo è frutto di una storia lunga e variegata a cui hanno dato il loro contributo tutte le realtà economiche, sociali e religiose del territorio garganico e dauno, con frequenti allargamenti al Molise e all’Abruzzo. Chi ha visto le tavolette votive, sa quanto capillare sia la presenza del santo nelle realtà locali. I nostri beni culturali sono lo specchio del territorio. Propongono un ampio quadro delle attività e degli interessi soprattutto religiosi delle popolazioni che va dai manufatti litici e fittili delle epoche antiche, alle preziose sculture medievali, alle splendide edizioni del Quattrocento e del Cinquecento, ai raffinati paramenti sacri, ai dipinti devozionali, alle statue, alla raccolta delle tavolette votive. Essi rispecchiano la storia del santuario, in modo particolare quella degli ultimi cinque secoli. E, se dalla loro visita è facile arguire che non sono frutto di donazioni importanti, vestigia prestigiose dei grandi della terra, è altrettanto facile ravvisare l’operosità e la dedizione delle genti garganiche e daune.
Molte cose preziose hanno preso altre strade. Tanto per fare degli esempi: sono sparite, durante il periodo della soppressione le tele del Solimena; nello stesso periodo la preziosa croce quattrocentesca della scuola di Guardiagrele e la campana del sec. XIV fusa a Venezia dal Magister Manfredinus sono state trasferite a San Marco in Lamis. Quando nel 1905 tornarono i frati, trovarono un cumulo di rovine invase da rovi e serpi. Oggi il convento è risorto ed è pieno di beni preziosi donati perché, tramite l’opera dei frati e dei loro collaboratori, siano messe a disposizione della comunità.
Un ultimo appunto riguardante il rapporto con l’ambiente naturale.
Le fotografie della Valle dello Starale pubblicate nel 1907 da Antonio Beltramelli, nel 1926 dall’Enciclopedia Italiana alla voce Gargano e nel 1933 dal Touring Club ci offrono una visione drammatica di un ambiente fortemente degradato, spoglio di vegetazione, ricoperto di rocce calcinate. Nello stesso tempo rappresentano il criterio che lungo i secoli ha ispirato il rapporto dei frati col territorio del santuario inteso nella sua fisicità. Chi ha letto la Fisica Appula di Manicone avrà qualche difficoltà a riconoscere in quel paesaggio brullo la verde valle piena di selvaggina di cui parla il Frate scienziato. Ebbene, l’unico elemento in comune tra il ricordo di Manicone e le fotografie appena viste è il boschetto dei frati che verdeggia solitario sul pendio settentrionale di Monte Celano. Se si pensa a quanto tempo un bosco di querce impieghi per arrivare all’età adulta, e quanto esiguo, invece, sia il tempo per distruggerlo, si avrà l’idea, almeno approssimativa, del tenace impegno di difesa dell’ambiente operato dai Frati per molti secoli. Il boschetto fu il primo lotto riacquistato dai Frati dopo la soppressione del 1866 e sopravvisse anche alla generale distruzione dell’intero patrimonio boschivo di San Marco in Lamis durante l’ultima guerra e nel periodo immediatamente seguente. Oggi è il più antico bosco del Gargano sud-occidentale.
Questo ruolo di tutela, ereditato dai padri, è ancora nei programmi della Fraternità e si fa il possibile per tutelare la valle e il territorio circostante con la costante informazione su problemi ambientali, flora, fauna e quanto sia utile per una gestione corretta del territorio. Quella della tutela dell’ambiente anche in questa valle, che sembra un’isola felice a chi arriva per la prima volta dalle città, è diventata una urgenza su cui non si può aspettare oltre. Stiamo ancora pagando gli errori del passato, a cui si aggiungono i ripetuti errori del presente come la cementificazione selvaggia e il taglio abusivo dei boschi. Anche la piccola famiglia di fagus garganicus, da cui deriva il nome del canale della Fajarama che inizia proprio dal piazzale del convento ormai è stato quasi del tutto distrutto non solo dall’azione criminale degli abusivi, ma soprattutto dall’ignoranza e dal disinteresse diffuso.
L’anno prossimo prenderà il via una serie di laboratori didattici per le scuole che avranno come tema, oltre al convento e all’ambiente, anche tutte le raccolte di beni conservati. Ma di questo vi parlerà Tonia Bocola.
P. Mario Villani
S. Matteo, 23 maggio 2013
Santuario e territorio
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